È ormai divenuta una pillola aforistica un po’ abusata la sentenza freudiana che annovera l’insegnamento (in buon compagnia dell’esercizio di governare e, ça va sans dire, della psicoanalisi) tra i mestieri impossibili:
Sembra quasi che quella dell’analizzare sia la terza di quelle professioni “impossibili” il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo. Le altre due, note da molto più tempo, sono quella dell’educare e del governare.
Eppure, di fronte ai molti insegnanti influencer, pronti a giurare che “è il lavoro più bello del mondo” e che “dà un sacco di soddisfazioni” (l’entusiasmo euforico è caratteristica indispensabile) e simili ottusità, vale il tentativo di rivitalizzare il luogo comune che, in fondo, per esperienza se non per riflessione, ogni buon insegnante conosce. Insegnare è impossibile: non solo perché la singolarità eccede sempre il compitino educativo confezionato secondo le regole del buon pedagogo e genera un continuo e incalzante dubbio educativo; insegnare è impossibile anche in ragione del fatto che un simile, già di per sé incerto, progetto complessivo di crescita passa costantemente – e anzi spesso è forgiato – nelle maglie ideologiche ormai interne e strutturali alla scuola, che a conti fatti sottraggono legittimità al suo mandato sociale e svuotano di senso qualsiasi disegno educativo, impaludando l’insegnamento nelle retoriche del merito e nell’assillo dell’efficienza.
Come provavo a dire in un precedente articolo, il disegno complessivo oggi è tracciato, nella sostanza, al di fuori dell’istituzione scolastica, della quale in realtà si serve come dispositivo che produce ideologia e divisione del lavoro – attraverso quella strana anamorfosi dell’attempato mondo capitalistico occidentale, che con un’ossessività maniacale traveste ogni dovere da libertà e ogni sconfitta da opportunità: individuale, beninteso.
Alla fine dello scorso maggio è uscito per Alegre Gli automotivati di Paolo La Valle, un libro che, in maniera inedita, mette le mani in un simile maremagnum. Il lettore segue le vicende di un insegnante nelle scuole superiori tecnico-professionali emiliani. I suoi metodi sono sui generis: mette la musica nelle ultime ore di lezione, dimena “braccia, gambe e chiappe” tentando così di includere chi è ai margini; cerca un dialogo inconsueto con i propri studenti, dopo aver messo le proprie carte di docente tutte ben in evidenza sul tavolo. Soprattutto, è pienamente consapevole del doppio vincolo dell’educatore: il prof va a scuola “a riallacciare relazioni corrose, a ripetere le stesse cose, a fallire e fallire”. Da un lato, affronta i molti fiaschi e qualche insperato successo con un’autoironia dilagante nella trama narrativa – i cui meccanismi sarebbe interessante osservare da un punto di vista letterario; dall’altro la voce narrante, sempre pronta a esporsi, reagisce con la forza della ragione, e indaga le relazioni tra scuola e territorio (nell’accezione ristretta che si intende allorché se ne parla in relazione alla scuola: il tessuto economico aziendale in cui è immerso l’istituto).
La Valle osserva con acume la sottile relazione ideologica che si stabilisce nella relazione tra quel passato glorioso e i miti d’oggi, che agiscono nell’immaginario contemporaneo e dunque anche nella scuola.
In Emilia-Romagna, motor valley d’Italia molto diversa dalla cugina maggiore e nazional-popolare che ha (aveva) al centro la Torino del lingotto, quel territorio è composto da una porzione di industria automobilistica che ha saputo opportunamente cogliere le crescenti disparità economiche che il liberismo ha creato per consolidare il proprio ruolo di produttore di lusso:
L’Emilia-Romagna possiede il dieci per cento delle imprese del settore e si colloca al terzo posto per numero di imprese dell’automotive italiano, dopo Piemonte e Lombardia. […] La differenza significativa è però un’altra: l’auto più venduta nel 2021 dal gruppo Fca (oggi Stellantis) è la Fiat Panda, che costa circa quindicimila euro, mentre l’auto più venduta della Ferrari è il modello a otto cilindri, con prezzo base di duecentotrentaseimila euro. Le imprese della Motor Valley hanno fatturati straordinari ma con numeri di produzione bassissimi: il mercato è concentrato interessando un’unica fascia di popolazione, quella dei ricchi. Questa non è l’Italia dell’utilitaria e della Fiat che insegnavano a me a scuola.A dire la verità è proprio quell’Italia ad essere quasi del tutto scomparsa.
Ferrari, Ducati, Lamborghini, Dall’Ara, Maserati. Si tratta di brand noti in tutto il mondo, dai fatturati stellari e tuttavia ben radicati, secondo le narrazioni aziendali, nell’etica del mondo contadino emiliano e nei valori che da essi si suppone discendano. Esemplare è l’aneddoto, tra i tanti, che riguarda Ferruccio Lamborghini, che avrebbe utilizzato “lo sguardo dei contadini come criterio per regolare il rumore dei loro motori: «se quelli continuavano a piantare cicoria o barbabietole si andava avanti a modificare scarichi e filtri, valvole e cilindri fin quando si voltavano»”. In realtà il vegliardo si affretta a vendere tutta la baracca alle prime avvisaglie di tempesta, già alla crisi energetica del 1973, altro che rischio d’impresa. Lamborghini è però il marchio che forse più ha sperimentato in termini di costruzione di un mito: gesta eroiche, simboli di coraggio e velocità, padri fondatori e, infine, epigoni attualizzanti. La Valle osserva con acume la sottile relazione ideologica che si stabilisce nella relazione tra quel passato glorioso e i miti d’oggi, che agiscono nell’immaginario contemporaneo e dunque anche nella scuola, prendendo in considerazione, per esempio, l’ereditiera Elettra Lamborghini, nipote di Ferruccio, che reinterpreta nella musica il mito erotico del motore fiammante emiliano, adeguato al riposizionamento dei generi contemporaneo.
Le case dell’automotive emiliano hanno dunque una potenza economica e simbolica tale da mettere in moto ciò che Furio Jesi ha chiamato “macchina mitologica”: luoghi comuni discorsivi, simboli immaginari e insomma tutto quel complesso dispositivo ideologico che, un po’ come dio, non esiste in sé eppure ha effetti rilevanti sulla realtà. La seduzione immaginaria di simili aziende, infatti, incide in modo particolarmente vistoso in quel luogo esposto alla realtà che è la scuola:
Il fatto che questo influsso non sia esercitato da industrie che producono utilitarie è un elemento che da solo racconta molto: è questa logica che sta prendendo il sopravvento tramite l’utilizzo ossessivo di parole come «eccellenza», «orgoglio» e «merito», facilitando un’irruzione di quel cuneo di mercato nella scuola e nei nostri cervelli, simile a quella dei battaglioni austro-tedeschi nelle linee italiane durante la dodicesima battaglia dell’Isonzo.
Il titolo, dunque, è ambivalente: sul piano didascalico fa riferimento all’automotive, principale ambito di riflessione argomentativa del testo; sul piano evocativo, invece, allude al peso ideologico che questa industria ha nella formazione degli adolescenti, nella loro motivazione – un termine che indica il problema pedagogico di comprendere ciò che muove l’apprendimento, la macchina fantasmatica che spinge uomini e donne a credere.
La collana di Alegre Quinto tipo da una decina di anni raccoglie gli oggetti narrativi non identificati – nella definizione che ne diede il collettivo Wu Ming –, recalcitranti cioè alla canonica classificazione dei generi letterari. E in effetti il testo de Gli automotivati mescola due modelli di scrittura, alternati secondo ritmi differenti: da un lato le memorie autobiografiche romanzate, la narrazione in prima persona di una porzione “tematica” della propria vita, legata all’attività di insegnante; dall’altra parte è presente una corposa componente di inchiesta e di forme testuali connesse: interviste, reportage, sopralluoghi, scavo bibliografico e archivistico ecc… L’incrocio di queste due forme dà vita a un testo saggistico, nel significato etimologico latino di “saggiare” che del resto accompagna il genere sin dai suoi albori cinquecenteschi: un io che pesa, valuta, pondera un certo oggetto, con esemplificazioni in re e aneddoti significativi.
Gli automotivati è dunque un’opera originale di decostruzione della categoria ideologica del merito nell’apparato ideologico scolastico.
L’impossibilità dell’insegnamento, raccontata narrativamente, ha così una controparte di implicazioni nel “fuori” saggistico, che discerne nella nebulosa di agenzie e nei linguaggi che si interessano della relazione tra scuola e lavoro, tra lavoro e realtà, tra realtà e ideologia. Così, spesso la narrazione interpola la prosa saggistica con brevi conrtappunti di rapida comicità, spesso solo dialogati e come teatrali:
Se dalla Cina dipendono la maggior parte delle risorse per produrre la nuova tecnologia e se la stessa Cina investe per esportare la sua etica del lavoro, allora il mutamento non interessa solo il metodo di produzione ma lo stesso immaginario in cui iscriviamo la svolta energetica. E guardando al mondo dell’auto, all’orizzonte abbiamo i modelli elettrici innestati nelle cosiddette smart city.
«Prof, se faccio l’esercizio posso giocare al cellulare?».
«Intanto mettilo via, poi vediamo».
In questo caso la riflessione sulla trasformazione digitale e sull’elettrificazione delle zone urbane incrocia improvvisamente uno scambio tra studente e professore, che spezza il ritmo del testo argomentativo e ne introduce bruscamente gli esiti centrifughi di un frammento di realtà scolastica.
Gli automotivati è dunque un’opera originale di decostruzione della categoria ideologica del merito nell’apparato ideologico scolastico, in una specifica porzione spaziotemporale (l’Emilia-romagna del presente) ed in un particolare ambito (la catena produttiva legata all’automobile). Un’operazione che sarebbe proficuo, forse, riprodurre in altri territori e in altri settori (mi viene in mente, ad esempio, il settore del cibo e del turismo) affinché emerga la strategia di fondo (e le sue falle) in atto sulla scuola. Decostruzione, si diceva: non semplicemente nel senso contemporaneo più comune, secondo il quale significa, un po’ riduttivamente, “delegittimare”, “criticare” un certo oggetto. Il testo di La Valle rimanda piuttosto a una semantica di ambito filosofico post-strutturalista. Decostruire è l’attività di seguire e tracciare, a partire da uno specifico oggetto di indagine, i rivoli che da esso discendono e che corrono sui mille piani inclinati, imprevedibili e centrifughi dell’esistenza, ne influenzano le convinzioni, ne forgiano desideri e passioni.
Gli automotivati è un testo che ingaggia una lotta con i molti piani della realtà, fittamente intrecciati da retroazioni difficilmente districabili, in aperto conflitto con la rigida settorializzazione dei saperi e con la destoricizzazione imposta per decreto al mondo dell’istruzione. Se le diverse forme di sapere non servono a guardare la realtà da un punto di vista critico, allora, sembra affermare La Valle, sono ridotte a specoli ideologici distorsivi che chi detiene il potere utilizza per governare (esercizio evidentemente possibile, con buona pace di Freud), cioè mettere a tacere il conflitto là dove si manifesta e alimentarlo là dove esso non intacca il mantenimento dello status quo.