

L’ acutezza critica unita alla genialità artistica fanno di Pasolini oltre che un intellettuale ben più raro di quanto ancora si creda, una figura difficile e complessa da identificare se non all’interno di categorie che vivono di una semplificazione banalizzante o di una superficialità che ormai precede Pasolini in forma di aggettivo. Già, perché se ormai chiunque può dirsi ‒ preso per le orecchie come per un braccio ‒ , in fondo in fondo, un po’ pasoliniano, nessuno alla fine risulta essere meno pasoliniano di Pier Paolo Pasolini che a ogni rilettura mostra una distanza evidente dall’etichetta che gli è stata appicciata addosso. La riedizione di Guanda dell’antologia critica I film degli altri (2025) di Pasolini è infatti una buona occasione per cogliere un’irriverenza che si scaglia prima di tutto sul pasoliniano come categoria morale e critica che identifica l’autore di Casarsa come moralista, scandalizzatore e anche mistico. Tre aggettivi che effettivamente afferiscono alla produzione culturale di Pasolini, ma non lo esauriscono e definiscono minimamente.
I film degli altri ha la forma di un estratto molto esatto del senso del dire (e del fare) di Pasolini, ma anche della sua capacità di sguardo, sempre lucidissima e a tratti rivelatrice, come pure estremamente feroce. I testi raccolti vanno dal 1959 fino al 1974; nel 1959 Pasolini era già un apprezzato sceneggiatore, avendo scritto Marisa la civetta (1957), regia di Mauro Bolognini, e avendo collaborato alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria con Federico Fellini, uscito sempre nel 1957; era anche già un intellettuale pienamente riconosciuto, poeta e romanziere (Ragazzi di vita è del 1955 e Una vita violenta è invece proprio del 1959) e fondatore di Officina insieme a Francesco Leonetti e Roberto Roversi, una fucina di giovani autori e nido di quello che diverrà il futuro Gruppo 63.
I film degli altri ha la forma di un estratto molto esatto del senso del dire (e del fare) di Pasolini, ma anche della sua capacità di sguardo, sempre lucidissima e a tratti rivelatrice, come pure estremamente feroce.
La sequenza delle recensioni proposte offre così un panorama essenziale quanto esaustivo di un metodo che non si avvale solo di una libertà di sguardo straordinaria, ma di una precisione spesso estremamente affilata che può davvero far male a chi viene preso in analisi. Il testo dedicato ad esempio a Pietro Germi è di una durezza estrema tanto più nelle parti in cui Pasolini tende ad apprezzare le qualità “tecniche” del regista ligure. La colpa principale è aver ridotto Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda in una versione cinematografica non all’altezza: «che cosa aveva dato Gadda a Germi col Pasticciaccio? Qualcosa di enorme. Ma preferisco non parlarne, perché non si danno nemmeno i dati del confronto». Pasolini non si limita a una lettura del film di Germi, Un maledetto imbroglio (1959), ma coglie l’occasione per rileggere l’intera opera filmica del regista mostrandone una forma di ottusità perenne e anche di staticità ideologica. Non si tratta di mera polemica o gioco delle parti ‒ anche se chiaramente lo scontento di Carlo Emilio Gadda avrà influito sulla lettura di Pasolini ‒, ma di una attenta lettura del lavoro di Germi che certamente è fortemente critica, ma è anche un riconoscimento d’esistenza: il cinema di Germi non è per nulla trascurabile, anche se evidentemente la durissima chiosa certifica la limitatezza della sua poetica cinematografica: «Una volta ridotta la materia del gigante gaddiano alle norme della buona tecnica e del buon sentimento, Germi ha girato, con tutta la tecnica e il sentimento, il migliore film della sua carriera». Una lettura che riconosce infine dignità a Germi, ma contestualmente la dovuta grandezza artistica a Carlo Emilio Gadda. Se poi Pietro Germi verrà in parte sottovalutato non sarà certo per l’analisi di Pasolini, ma più probabilmente per la superficiale lettura che molti daranno del suo lavoro, accecati ‒ loro sì ‒ da una visione ideologica che poco c’entra con il confronto in essere tra Gadda e Germi (in qualche modo cercato dallo stesso Germi), ma che più che altro afferisce alle opportunità politiche più o meno di comodo al tempo.
La sequenza delle recensioni proposte offre un panorama essenziale quanto esaustivo di un metodo che non si avvale solo di una libertà di sguardo straordinaria, ma di una precisione spesso estremamente affilata che può davvero far male a chi viene preso in analisi.
L’analisi critica di Pier Paolo Pasolini ha la rarissima capacità di saper cogliere il proprio tempo come un luogo esatto dell’esistere. Come disse Carmelo Bene (citando Diderot) «l’immaginazione imita, lo spirito critico è quello invece che crea». Massima che si attaglia benissimo alla produzione di Pasolini e che rivela nella raccolta I film degli altri una possibilità che va ben al di là della lettura critica cinematografica, offrendo uno spaccato della società italiana e della sua borghese, o meglio piccolo borghese, irriducibilità, anche se non senza speranza.
Ogni testo di Pasolini è una mappa capace di vivere della cronaca culturale di cui è coevo, ma anche di proiettarsi nel futuro, divenendo uno strumento abilissimo d’indagine e mappatura del fare culturale.
I film degli altri è un libro che va esplorato in tutta la sua potenza e da cui è possibile estrarre, come da una miniera, filoni auriferi. Uno scavo che parte dalle parole del poeta per portare inevitabilmente il lettore lontano, anche lontanissimo, in un lavoro di analisi e rilettura che diventa così a portata di mano: un modo di vedere il mondo inedito, ma al tempo stesso possibile. Dalla sua vicinanza a Fellini alla sua distanza da Eisenstein, Pasolini offre un percorso originale e attualissimo fatto di critica e affetto, poesia e lucida rilettura visiva. Il tutto senza mai confondere i piani, ma chiarendo e definendo, e accettando il dubbio come anche la contraddizione. Un libro che è una guida al miglior cinema del Novecento italiano, ma anche a Pasolini stesso, e un manuale su come si fa il lavoro culturale e su come lo si dovrebbe fare oggi. E sull’oggi cade l’unico appunto alla nuova edizione, che ha rimosso incomprensibilmente il nome di Tullio Kezich, curatore della prima edizione e padre della migliore critica cinematografica italiana del Novecento.