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Natalia La Terza
17.1.2017

Cinema la prima volta di Bernardo Bertolucci

Natalia La Terza è nata a Orbetello nel 1990, vive a Roma. Ha scritto su Nuovi Argomenti, IL e minima&moralia.
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N on c’è bisogno di aver visto l’intera filmografia di Bernardo Bertolucci o conoscere il nome del suo primo corto andato perduto per leggere Cinema la prima volta. Minimum fax pubblica le Conversazioni sull’arte e la vita di uno dei maestri del cinema internazionale, trentuno interviste tradotte e curate da Tiziana Lo Porto, dove Bertolucci scrive inconsapevolmente la sua biografia: parlando a riviste come i Cahiers du cinéma, Sight & Sound e Rolling Stone, in Cinema la prima volta, Bertolucci dirige un gioco dove presente, passato e futuro si scambiano spesso di posto, i flashback inventano nuove trame, il confine tra desiderio e realtà si disegna e cancella, e la felicità diventa febbre.

Nella postfazione di Tiziana Lo Porto, che chiude il libro, Bernardo è ritratto con le parole del padre poeta, Attilio: “Bernardo, che ha le gambe lunghe dei quattordici anni, la smania dello storyteller, insiste sul tempo reale”. Qual è il tempo reale per Bertolucci, per un regista che confessa di aver “saputo prolungare fino all’età di ventitré anni, come mito, l’infanzia” e di aver tagliato una scena di Prima della rivoluzione dove la protagonista femminile, Gina, avrebbe dovuto dire: “Il tempo non esiste”?

Crescere è difficile perché si rimane collegati “al dolce inferno della famiglia”. Primogenito in casa Bertolucci, Bernardo parla della madre Ninetta quasi ricalcando le parole scandite in versi da Attilio: “Me la ricordo molto abbronzata che va in giardino a prendere dei fiori con una vestaglia a fiori”. Il ricordo del padre, che gli “insegnava a vedere il cinema, a capire il cinema, ad amare il cinema” è invece una memoria olfattiva, legata a un odore intenso “di mandorle amare”. È grazie a Attilio e Ninetta, alla fitta libreria di casa – Garcia Lorca e Dylan Thomas, T.S. Eliot e Emily Dickinson, Rimbaud, Baudelaire e Stendhal -, a quel microcosmo dove tutto era a sua disposizione, che Bernardo scopre le sue passioni, ed è anche da loro che a un certo punto, scappa. “I miei genitori cercavano sempre di convincermi a stare a casa a leggere invece di stare fuori tutto il tempo, ma io dicevo: “La mia scuola è la vita, la mia università è la strada” Di fatto, non ho mai finito gli studi in Lettere moderne all’università di Roma perché ho iniziato a fare film. Ma di contro, per due o tre anni, dai venti ai ventidue anni, cenavo quasi ogni sera con Pasolini, Moravia ed Elsa Morante, e li considero la mia università”. Si chiude un sipario, se ne apre un altro: il set passa da Parma a Roma. Bernardo passa “dal canto al bisbiglio all’urlo alla conversazione, senza obblighi, con estrema libertà”, arriva al cinema.

“La scena del ballo di Anna Karina intorno al tavolo da biliardo è una delle cose più commoventi che siano state mai viste al cinema e sembra, se non improvvisata, quantomeno far parte di quelle cose che in una sceneggiatura non sono importanti, ma che lo diventano quando le giri, e che sono gli istanti più affascinanti del cinema. Sulla sceneggiatura corrisponde appena a una riga, ma una volta girata diventa essenziale, e il resto della pagina scompare.”

Parla così a ventiquattro anni Bertolucci, intervistato dalla rivista che da ragazzo trovava in giro per casa, alla quale era abbonato il padre, tra le molte altre cose critico cinematografico. Sono i Cahiers du cinéma e sono passati tre anni dal 1962, dalla lunga, piena estate nella quale vinse il premio Viareggio con la raccolta di poesie “In cerca del mistero”, e dove venne proiettato, a Venezia, il suo film d’esordio, La commare secca. Quello che gli interessava, del film tratto da un soggetto di Pier Paolo Pasolini, era, ancora, fin dall’inizio, il tempo: ”rendere il passaggio delle ore, il passaggio del tempo, la sensazione del giorno che passa”. In Cinema la prima volta, sono tante le pagine dedicate ai maestri di Bernardo. Pasolini porterà per primo Bertolucci su un set nominandolo aiuto regista di Accattone. Godard è l’incanto del cinema: “Il giorno in cui vidi per la prima volta A bout de souffle, cioè Fino all’ultimo respiro, era qualcosa di così diverso rispetto ai film che conoscevo da darmi la strana sensazione di averlo sognato invece che averlo visto”. Per incontrare Ozu andrà fino a Tokyo, cercandolo al cimitero: “Madame Kawakita, ci aveva detto di cercare una tomba con sopra niente. E tutti la cercavamo senza trovare una sola tomba che non avesse niente scritto sopra. Poi l’abbiamo trovata. In effetti c’era scritto qualcosa sulla tomba di Ozu ed era appunto «niente», l’ideogramma mu”. A Robert Bresson, Bernardo ruberà le attrici: “Io prendo le ragazze che sono state sedotte da Bresson, le vesto in abito da sera e le porto a ballare per la prima volta…” e quello che diventerà un caro leitmotiv: “l’amore non esiste, esistono solo le prove d’amore”, è una frase di Jean Cocteau scritta per María Casares in Perfidia, secondo lungometraggio del regista francese, del 1945. Bernardo farà ripetere ai suoi personaggi quella battuta a distanza di quasi sessant’anni, in almeno due film: Io ballo da sola e The Dreamers.

C’è una battuta che Bernardo Bertolucci detta ai suoi attori che è tutta sua, e indimenticabile: “Non si può vivere senza Rossellini!”. La dice un amico a Fabrizio, il protagonista di Prima della rivoluzione, dopo avergli confessato di aver visto Viaggio in Italia quindici volte. Rossellini, in Cinema la prima volta, è il maestro dei maestri. In un’intervista del 1985 Godard lo paragonerà a uno zio citando lo stesso film: “Ricordo la scoperta di Viaggio in Italia. Mi sono detto: bene, non ho fretta, ci sono tante automobili, tanti innamorati e vedo che un film sono due persone in un’automobile, questo posso farlo con quattro soldi”. Ad affascinare Bertolucci è invece la capacità di Rossellini “di lasciare che le cose non si allontanino né si avvicinino mai troppo, la distanza ideale che la sua macchina da presa ha dalle cose e dai personaggi”. “Il pubblico”, confida nel 1969 al critico Adriano Aprà, “accetta qualsiasi cosa tranne di essere svegliato dal sogno che sta facendo”. Se per Bernardo Bertolucci esiste un tempo reale è quello del sogno, il tempo dei bivi e delle scorciatoie, dove tutte le storie sono possibili. Dove si lascia una porta aperta.

“Sono andato a Beverly Hills con Clare, mia moglie, e siamo entrati in un grande soggiorno con una palma. C’era Renoir seduto su una sedia con un plaid sulle gambe. La cosa emozionante era che accanto a lui c’era un piccolo busto di Jean a quattro anni, fatto dal padre Pierre-Auguste. Il sorriso di Jean bambino e anziano era lo stesso. Il busto non aveva capelli e Renoir era calvo e avevano negli occhi questo stesso sorriso infantile. Ci siamo messi a parlare. Aveva una straordinaria capacità di sintesi. Diceva tutte le cose che avevamo sentito dire da Jean-Luc Godard o da Truffaut, tutte le cose sul cinema di cui avevamo discusso credendo di averle non solo scoperte, ma inventate. Lui era da trenta o quarant’anni che le metteva in pratica, sempre col suo buonumore. E l’Ottocento ci è sembrato più completo del Novecento. Incredibile! Abbiamo parlato di tutto, del suono diretto, del movimento della macchina da presa. All’improvviso, ha detto: «Quando si gira, bisogna sempre lasciare una porta aperta, perché non si sa mai, qualcuno potrebbe entrare, senza che nessuno se l’aspetti, e il cinema è questo.»”

Una conversazione con Tiziana Lo Porto

Quando hai scoperto Bernardo Bertolucci?

Il primo suo film che ho visto al cinema credo sia stato Il piccolo Buddha. Avevo vent’anni, ero andata a vederlo con mia madre in un cinema di Palermo che adesso non esiste più. Mi ricordo che siamo uscite entrambe mute dall’emozione, come quando torni da un viaggio e cerchi con la testa di stare ancora un altro po’ nel tempo che è appena passato.

Qual è il suo film al quale sei legata di più?

In modo e per ragioni diverse sono legata a più film. Forse quello per cui provo più affetto è Io ballo da sola. È stato un film importante per quelli della mia generazione, quelli che negli anni Novanta avevano intorno ai vent’anni. Bertolucci in quel film è riuscito a raccontare un sentimento – la fine dell’adolescenza, che è anche un inizio. Ed era un sentimento che avevamo appena vissuto o ci ostinavamo a continuare a vivere, impossibile non identificarsi. Ho a casa il manifesto del film, rubato davanti a un cinema nel 1996, c’è Lucy seduta per terra e un vaso azzurro con dei fiori gialli e bianchi. In questi vent’anni è sempre rimasto appeso al muro di casa. Lucy la vedo tutte le mattine, è diventata una specie di amica immaginaria.

Hai scoperto prima Attilio o Bernardo Bertolucci?

Più o meno li ho scoperti insieme, ed entrambi grazie a mia madre. Mia madre scriveva poesie, casa nostra era piena di libri di poeti, e anche se non li conoscevamo personalmente o in certi casi appartenevano ad altre epoche ci ha insegnato – a me e a mia sorella – a trattarli come fossero amici di famiglia. La stessa cosa con il cinema, con i registi. Sono figlia di due genitori che per gran parte della loro vita sono andati quasi tutti i giorni al cinema. Il cinema finisce per diventare una seconda casa, una specie di casa delle vacanze.

Con quale criterio hai selezionato le interviste di Cinema la prima volta?

Mi verrebbe da dire il criterio della porta aperta di cui parla Bertolucci nel libro. Lasciare sul set una porta aperta per permettere alla vita di entrare nel film. Più o meno il criterio è stato quello. Ho lavorato al libro per più o meno tre anni, alcune interviste le ho trovate in una preziosa biblioteca di New York (la biblioteca dello spettacolo al Lincoln Center) frugando tra schede vecchissime scritte a matita dentro improbabili cassetti, fotocopiandole da vecchie riviste, ricopiandole da microfilm, facendo ricerche con metodi direi novecenteschi. Altre sono semplicemente capitate, come quella di James Franco, ed era giusto stessero nel libro. L’ordine è cronologico, i film ci sono tutti più o meno in egual misura, il criterio è arbitrario e sentimentale.
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