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utobiogrammatica di Tommaso Giartosio è una autobiografia che appare in un tempo in cui le autobiografie hanno una loro forza di attrazione, ma se pensiamo che ce l’abbiano per via dell’immediatezza, del fatto che in esse il percorso fra l’esperienza e la sua narrazione è più diretto che nella narrativa di finzione, qui ci troviamo di fronte a una smentita. Niente è immediato in questo libro, in cui ogni capitolo, ogni pagina propone giochi con le parole, vertigini semantiche, qui pro quo. Può essere ben goduto questo bel volume, a patto di stare al gioco.
Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio è un libro così denso e vario, così pieno zeppo, così ricco e smodato e grasso, che riesce perfino difficile acchiapparne la coda. Certo, ci viene dichiarato, parla di una vita, la vita di chi l’ha scritto, raccontata attraverso gli alfabeti e le parole; narra precisamente dell’età della formazione e del ruolo che nella formazione hanno avuto una famiglia e il suo lessico, ma non parla solo di questo. È istintivo evocare Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, anche l’autore lo fa, tra le righe e anche fuori dal libro, nelle interviste. Giartosio racconta come dopo l’uscita e la lettura del libro più famoso di Natalia Ginzburg, nella sua famiglia, come in molte altre di ogni parte d’Italia e di ogni ceto sociale, si elevò un bel quaderno a deposito e scrigno del lessico famigliare.
Si tratta certo di giocare, ma poche cose sono più necessarie, iscritte nella carne, di quanto lo sia il gioco.
Tutto vero, com’è vero che nel leggere Autobiogrammatica e poi nell’averlo letto, ci si trova a elencare a mente le parole del lessico famigliare di noi lettori, che a volte sono le stesse, a volte diverse, capitate nella nostra famiglia, depositate e poi rimaste lì, quelle ancora vitali, quelle quasi dissolte (se Tommaso Giartosio e io condividiamo stela, parola settentrionale che vezzeggia ogni creatura, zuca baruca c’è nella mia famiglia e nella sua non c’è). Ma il lessico del libro di Natalia Ginzburg riusciva a raccontare con precisione quella famiglia torinese, le sue reti di relazioni, un mondo, era un lessico rappresentativo, un lessico capace di illuminare direttamente la realtà. Qui siamo in un mondo un po’ diverso.
Mi ricordo di un cammino all’interno del progetto Campagna romana del gruppo di architetti artisti romani Stalker, si trattava di percorrere a piedi un tratto di strada per il quale in automobile si impiega poco più di un quarto d’ora; ci volevano ore e ore, e l’attenzione non era più al punto di partenza e al punto d’arrivo, ma precisamente al mondo di cose che ci stava in mezzo. Nel narrare di una battuta fuori luogo in terra di mafia, nel raccontare del lessico paterno, adeguato e invisibile, del lessico multistrato ed esplosivo della madre, dell’incontro con gli amici, delle aporie dell’alfabeto, della lingua inglese, Tommaso Giartosio fa lo stesso, presta attenzione a quello che sta in mezzo fra la parola e il suo significato.
Cosa c’è fra la parola e il suo significato? Se vai in macchina pressocché nulla, giusto la sensazione di un residuo, di un pulviscolo, di qualcosa che è rimasto prima attorno e poi indietro, se vai a piedi, invece, come sceglie di fare Giartosio, ti si spalancano davanti mondi sconfinati. I significati ulteriori, i suoni, gli effetti grafici producono attraverso scivolamenti e suggestioni un’intera galassia abitabile, così “salvolima” smette quasi di avere a che fare con il politico siciliano e diventa motto di spirito, prende un significato connesso e alternativo, poi scivola nel suo suono e riemerge illuminante; così l’ultima parola di un verso di Dante finisce per indicare ancora la luce, ma quella che si manifesta in un luminoso e ignoto ragazzo di nome Luca; così il fiorire di parole desuete nel lessico della madre racconta tutto un mondo sociale morto che si trattiene per un momento al centro del salotto, così parole dialettali, modi di dire, rinvigoriscono, scoppiettando qua e là per via della necessità di edulcorare, e scordiamo facilmente quel che volevano dire mentre ci incantano gli accenti, i suoni, quell’aria liscia, innocentina, maliziosa di chi nasconde qualcosa, che ci ricorda l’Omino di burro di Pinocchio; così infine i nomi delle specie animali fanno pullulare un esercito intero di alleati.
Proprio nel cuore della famiglia si nasconde una minaccia, coperta, occultata, vezzeggiata, approvata dal lessico familiare.
Va citato qui l’altro riferimento esplicito di Giartosio, La grammatica della fantasia di Gianni Rodari, che insieme e forse più di Ginzburg ci indica la pista. Si tratta certo di giocare, ma poche cose sono più necessarie, iscritte nella carne, di quanto lo sia il gioco. Se questo mondo meraviglioso che si estende fra la parola e il suo significato si è manifestato, liberando la capacità di vedere cosa c’è nella stratificazione volatile e aerea del linguaggio materno, riconoscendo come terreno proprio l’inglese sottratto alla sua natura sociale, una ragione c’è. Questo libro è ben più legato all’opera di J.M. Barrie di quanto esplicitamente non dichiari, se ci liberiamo delle etichette che ne hanno cristallizzato i significati e lasciamo che la storia di Peter Pan ricominci a fluire. Peter Pan, quando la finestra della casa materna è ormai definitivamente chiusa, non è più uccello e non è più bambino, è un “Tra e Fra”. Sappiamo come Peter lo è diventato, ma Tommaso? I nomi degli animali, l’identificazione totemica con loro, sono stati per lui una patria d’elezione, ha potuto abitare il mondo che sta fra le parole e il loro significato. Ma cos’era successo? Come Peter era rimasto chiuso fuori? oppure si nascondeva? approdava all’isola fuggendo?
Qui entriamo nella zona più misteriosa del libro di Giartosio. Perché proprio nel cuore della famiglia si nasconde una minaccia, coperta, occultata, vezzeggiata, approvata dal lessico familiare. Ci sono nel libro di Giartosio due personaggi che non parlano, non sembra neanche che possiedano un lessico, comunque non viene registrato, forse non sono neanche personaggi ma ombre nere e vere, quello che mena e quello che guarda. A tavola sono un tutt’uno con gli altri, madre padre e tre ragazzi, reagiscono anche loro all’olà paterno, ma quando lo sguardo di chi narra si abbassa di qualche testa, quando gli adulti tornano nel loro mondicello distratto, allora quei due si manifestano. Uno mena, eh, quello fa; e l’altro? l’altro guarda. È nel tentativo di sfuggirgli che per caso si capitombola in quell’altro mondo sconfinato? O quel mondo già c’era ed è tornato utile quando è stato il momento di fuggire? Fatto sta che l’isola si è squadernata in relazione a questi due. La loro esistenza pone una serie di questioni: il dolore che si prova sotto i colpi è vero da gridare, perché allora si colora di elementi di attrazione? Quello che guarda è migliore di quello che mena? E come mai appena si esce di casa, a scuola, se ne trovano nuove spaventose e continue incarnazioni?
La forza però intanto si è manifestata e si è manifestata fuggendo, si è aperta la porta di uno sgabuzzino e da lì è bastato un balzo. Abitare la terra “Tra e Fra” si è rivelata un’ottima idea, da lì questo nostro mondo magari non si vede meglio, ma senza ombra di dubbio si vede di più e in un altro modo. L’avrete di sicuro già intuito, Autobiogrammatica è la storia della vocazione poetica del suo autore, come un’altra opera a lui carissima, Vita di Vittorio Alfieri, cui ha dedicato il primo libro, Doppio ritratto. C’è molto d’altro in queste pagine, una strada ricchissima di cose da vedere e ascoltare, come ricchissima è la strada fra A e B quando è generosamente attraversata e raccontata.