I
l mito del vampiro e il cinema affondano le radici nella cultura borghese, ossessionata dal passato che, come un serbatoio inesauribile, ne alimenta l’avvenire illusorio, maschera di un’infinita regressione. Lo sguardo della modernità è pervaso da una fascinazione ambivalente per ciò che può “ritornare”, un’attrazione che collide con la violenza sradicante del tempo profano della secolarizzazione. In questo conflitto, il Moderno si erge come l’ultimo volto della Storia, intento a tracciare confini rigidi tra passato e presente, fomentando l’inquietante promessa di un eterno ritorno per bloccare il futuro che, altrimenti, potrebbe minarne l’essenza.
Questa tensione trova nel cinema contemporaneo la sua manifestazione più esplicita, quasi banale nella sua ossessione. Negli ultimi decenni, il passato riaffiora sul grande schermo in un ciclo continuo di remake e riletture, come se la narrazione fosse imprigionata da archetipi che non può – o non vuole – abbandonare. In questo gioco di nostalgia e reiterazione, Robert Eggers si è spinto a dare forma a un sogno giovanile: risvegliare Nosferatu, l’immortale creatura che Friedrich Wilhelm Murnau aveva plasmato nel 1922.
Con il suo remake, nelle sale statunitensi dal 25 dicembre 2024 e in quelle italiane dal 1° gennaio 2025, Eggers piega il cinema del Ventunesimo secolo verso i suoi albori novecenteschi, riportando il mito del vampiro nella Germania di metà Ottocento. È come se volesse oscurare l’origine letteraria del non-morto, profondamente intrecciata alla modernità romantica, per illuminare invece la sua seconda nascita: quel racconto spurio di Murnau che, a un secolo di distanza, da plagio diventa originale. Ne emerge un’operazione di autofagia, in cui il cinema si nutre della propria mitologia, consumandola e rinnovandola al tempo stesso.
La trama segue l’agente immobiliare Thomas Hutter, inviato dal suo superiore Herr Knock in Transilvania, sui monti Carpazi, per assistere il conte Orlok nell’acquisto di una magione a Wisborg, dove Hutter vive con la moglie Ellen. Durante l’assenza del marito, i sogni di Ellen, da sempre tormentati, diventano un campo di battaglia con un’ombra mortifera che la perseguita. Con l’aiuto del dottor Albin Eberhart Von Franz, alter ego del “filosofo metafisico” Abraham Van Helsing, Ellen scopre di essere sotto l’influenza erotica del vampiro, lo stesso conte transilvano che tiene prigioniero suo marito e che si prepara a portare rovina sulla città. L’annuncio della sua venuta è segnato dal proliferare di topi e dalla peste, trasportata sulla nave Demeter, il cui equipaggio viene brutalmente sterminato.
Il cinema di Eggers costruisce la sua autenticità su una rappresentazione scenografica che aspira a un’oggettività quasi documentaristica, dove la presenza del regista sembra dissolversi. In modo contraddittorio, questa apparente neutralità dà vita a un’opera profondamente autoriale, capace di dialogare con il mainstream. Tale equilibrio si raggiunge grazie a un’immersione nel passato, che funge da struttura portante e attenua, con la sua rappresentazione minuziosa, ogni traccia del regista, puro medium. Questo approccio richiama la natura stessa del mito e del folklore, capaci di perpetuarsi e rinnovarsi indipendentemente da una paternità definita.
Il cinema di Eggers costruisce la sua autenticità su una rappresentazione scenografica che aspira a un’oggettività quasi documentaristica, dove la presenza del regista sembra dissolversi.
La devozione di Eggers per il folklore europeo è condensata nella ricostruzione di un antico rituale transilvano: un cavallo bianco con una coccarda rossa nella criniera, cavalcato da una giovane donna nuda, viene condotto di notte verso croci di pietra che segnalano la presenza di un cimitero in un bosco. Circondato da uomini che reggono torce, l’animale è portato a compiere una prova: se mostrerà segni di nervosismo e si rifiuterà di oltrepassare una determinata tomba, sarà segno che al suo interno giace un vampiro. Così accade: il cavallo nitrisce, si imbizzarrisce e sbuffa attorno alla sepoltura. Non resta che disseppellire e dare fuoco al cadavere.
Questa sequenza visiva rievoca fedelmente un rito di cui la folklorista rumena Agnes Murgoci attesta ancora la sopravvivenza in un racconto popolare, citato da Massimo Introvigne nel suo studio
La stirpe di Dracula (1997). Il contadino Dimitru Vaideanu, devastato dalla perdita della famiglia a causa di un oscuro male, si affida proprio alla prova del cavallo per scoprire che un “non morto”, la suocera, era la causa della tragedia. Il non-morto si mostra a Dimitru e suo figlio con le sue unghie innaturalmente lunghe e la pelle del corpo rossastra, è quello che la tradizione teologica e la superstizione popolare chiama vampiro “morto”, metamorfosi che subiscono quegli individui che in vita avevano infranto il patto con Dio, la donna infatti era stata una famosa strega.
La devozione di Eggers per il folklore europeo è condensata nella ricostruzione di un antico rituale transilvano.
In
Nosferatu la superstizione transilvana troverà il proprio opposto nel focolare piccolo borghese della casa di Ellen Hutter. Questa ripresa del dualismo tra città e bosco prosegue quella dialettica tra interno ed esterno già presente in
The Witch (2015), dove la natura selvaggia e la strega sua vestale invadono lo spazio domestico di una famiglia puritana del New England nel Diciassettesimo secolo.
Eggers fa sì che Ellen implori il male affinché giunga da lei, è essa stessa, piangendo di gioia e paura, a confessare di non essere mai stata così felice come in presenza dell’abominio che tormenta i suoi sogni e che lascia entrare volentieri dalla finestra spalancata della propria camera. La simbiosi tra il sublime naturale e l’individuo che in esso si smarrisce dà luogo a un sentimento panico, che conduce a una lievitazione perversa, un’ascensione fisica che è anche una discesa morale come appunto quella di Ellen davanti alla propria finestra spalancata e di Thomasin che alla fine di
The Witch si libra nuda, insieme alle altre streghe, tra le fiamme del sabba.
La simbiosi tra il sublime naturale e l’individuo che in esso si smarrisce dà luogo a un sentimento panico, che conduce a una lievitazione perversa, un’ascensione fisica che è anche una discesa morale.
La poetica del regista statunitense ruota ossessivamente attorno ai tre pilastri del sesso, della violenza e della follia, conficcati nell’allegoria del perturbante naturale rappresentato dalla vita non-umana messaggera del soprannaturale ‒ la lepre e il caprone in
The Witch, la sirena e il gabbiano orbo in
The Lighthouse (2019) e la valchiria in
The Northman (2022) ‒ nei cui occhi si cela il fondo che, una volta osservato, conduce alla follia. Se nei precedenti lungometraggi erano i protagonisti a smarrirsi nell’immagine desaturata della natura selvaggia, in
Nosferatu accade il contrario: il perturbante si muove alla conquista della psiche, rappresentata dalla nave infestata da Orlok, sospesa nella vastità gelida del mare nordico, dove ogni tentativo di orientamento fallisce. L’archetipo marino e oceanico e le sue connessioni con la pazzia, già esplorati in
The Lighthouse, riemergono qui con forza: il mare, che avvolge e consuma, diventa la cornice della follia e del soprannaturale. Più volte, nel film, i personaggi ripetono che “sta arrivando”, annunciando il vampiro come una bestia apocalittica che emerge dal mare. La sua venuta è profetizzata da Herr Knock, reso folle e manipolato da Orlok, che diventa il messaggero della rovina imminente.
La poetica del regista statunitense ruota ossessivamente attorno ai tre pilastri del sesso, della violenza e della follia.
Con la rappresentazione minuziosa del rito transilvano e attraverso una scenografia quanto più possibile fedele alla società tedesca del Reich guglielmino, Eggers orienta la rappresentazione del vampiro cinematografico verso una arcaicizzazione che lo riporta alla sua dimensione folklorica e allo stesso tempo realistica, come ha dichiarato il regista in un’intervista ad
Empire, il suo Orlok sarà la rappresentazione accurata di “un vero conte transilvano morto”, lontano da qualsiasi tentativo di edulcorazione del mostro. Un’operazione inversa a quella adottata da
Werner Herzog nel 1979 con il suo
Nosferatu – Il principe della notte, il primo omaggio a Murnau, il cui Dracula, grazie al ritratto fattone da
Klaus Kinski, impresse nella memoria il vampiro cinematografico più umano del cinema occidentale.
Il Dracula di
Bram Stoker ritraeva il barbaro orientale come una figura repellente, con i palmi delle mani ricoperti di peluria e il volto aquilino, ma dopotutto ancora “umana”, un mix di esotismo e stereotipi razzisti che generano una sorta di eterno infante, non in grado di raggiungere i propri obiettivi senza manipolare gli altri. Molto diverso dal Conte Orlok, il Dracula “spurio” di Murnau, e primo vero “vampiro classico” del cinema. Egli, o meglio esso, è svuotato da qualsiasi scintilla di umanità: con il suo cranio nudo, le orecchie sporgenti, la pelle pallida e gli incisivi appuntiti come quelli di un ratto, il cinema racconta la non-vita di Orlok come una forma di vita altra, più potente della vita umana perché radicata in una natura batterica e proteiforme, che agisce nel buio della sua invisibilità.
Il Dracula di Bram Stoker era molto diverso dal Conte Orlok, il Dracula “spurio” di Murnau, e primo vero “vampiro classico” del cinema. Egli, o meglio esso, è svuotato da qualsiasi scintilla di umanità.
Il Dracula di Herzog conserva i tratti “orlokiani” del vampiro cinematografico, è ripugnante nell’aspetto, una testa senza corpo ma con mani artigliate, si strugge per l’impossibilità di amare ed essere amato, perso nel tempo profano, “un abisso profondo come lunghe infinite notti”. Spettatore dei secoli che “vengono e vanno” e custode del segreto a cui gli uomini vivi non possono accedere: “la morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte”, “durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose”. Dracula nel 1979 è il simbolo della vita ai margini del contestatore, dell’artista e del tossico, condannati al buio della notte, insieme all’utopia dell’immaginazione al potere, nel tempo in cui la società unidimensionale, rappresentata da Jonathan Harker, diventa il nuovo ospite del morbo vampirico.
Per il Dracula di Herzog “la morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte”, “durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose”.
Il finale del film di Eggers ci dirà se il regista ha tradito il film di Murnau, a sua volta tradimento dell’originale stokeriano. Se nel
Dracula letterario era la “comunità dei giusti” a sgozzare e impalare il vampiro al tramonto, nella non-vita cinematografica del vampiro è la vergine che si sacrifica per distrarre il mostro e lasciare così che esso venga trafitto dai raggi del sole. Era così in Murnau e nel remake di Herzog, sebbene il vampiro Klaus Kinski riesca poi a sopravvivere all’inganno della Lucy di
Isabelle Adjani e alla pugnalata del buffo Van Helsing, arrestato ironicamente per omicidio. In entrambi i film, il finale ‒ il sacrificio redentore di Ellen e quello futile di Mina ‒ raccontava gli insuccessi dei figli nella gestione del regno paterno usurpato, perché incapaci di liberarsi della sua influenza.
Il flebile ottimismo di Murnau e il nichilismo pessimista e post-sessantottino di Herzog divengono la matrice del cult di
Francis Ford Coppola,
Dracula di Bram Stoker (1992), dove sebbene sia nuovamente la “comunità dei giusti”, tutti uomini, a tagliare la gola e a impalare il cuore del mostro, l’esecuzione di Dracula viene impedita da Mina, morsa e ormai sua fedele alleata, finalmente libera dal giogo della realtà borghese che ai suoi occhi appare trasformata in una congrega di macellai assassini.
Mina diventa l’incarnazione della moglie suicida di Dracula, il ricordo della sua vita mortale. Dopo aver puntato il fucile contro suo marito Jonathan e i suoi alleati, sarà lei ad accompagnare il mostro nei suoi ultimi attimi di non-vita e sarà lei che soddisferà infine la sua richiesta di essere liberato. Nell’adattamento di Coppola non sono più i figli a decapitare il padre mediante l’aiuto del genitore sostitutivo, ossia Van Helsing, simulacro di una scienza confusa tra ragione e irrazionalismo, ma è la madre, la Giocasta rediviva, che nei panni di Mina spinge a fondo il pugnale nel cuore della finzione vampirica, vampira essa stessa, e termina l’atto che non potevano compiere i suoi figli-amanti decapitando il vampiro.
La sovversione che sarebbe potuta seguire al ritorno della madre viene però castrata da Coppola che con la morte e redenzione di Dracula si abbandona a un lieto fine in cui viene restaurato, come nel romanzo di Stoker, lo
status quo precedente alla battaglia con il vampiro. Eggers ha nel finale la possibilità di esasperare la carica anomica di Ellen Hutter, per riallacciarsi così a ciò che aveva già raccontato con il personaggio puberale di Thomasin in
The Witch, la giovane che viene corrotta dal demonio nel New England del Diciassettesimo secolo.
Il flebile ottimismo di Murnau e il nichilismo pessimista e post- sessantottino di Herzog divengono la matrice del cult di Francis Ford Coppola, Dracula di Bram Stoker (1992).
Con Ellen, attraverso
palette che vanno dai toni caldi e seppia a tonalità fredde e desaturate, Eggers rappresenterà la tendenza centrifuga a uscire fuori di sé per oltrepassare il recinto della convenzione borghese, un percorso che la società non può accogliere se non come la visione di una discesa infernale che nel cinema di Eggers è sia estetica che narrativa, in una tensione poetica che vuole portare sullo schermo l’estasi controiniziatica.
Nel concetto di “commozione” elaborato dall’etnologo
Leo Frobenius, troviamo una chiave per comprendere il cinema di Eggers. Frobenius intendeva la “commozione” (
Ergriffenheit) come quella particolare emozione primordiale con cui le civiltà antiche reagivano al mondo che le circondava, uno stato di fascinazione panica che le conduceva a creare miti e riti, espressioni dell’anima collettiva, il
paideuma.
In Eggers, questa commozione prende forma in una poetica visiva che non cerca di spiegare il soprannaturale, ma lo presenta come qualcosa di profondamente intimo e destabilizzante. Nei suoi film, l’orrore non nasce dall’esplicito, ma dalla potenza arcana di un contatto con il sublime naturale, capace di spingere i personaggi, e lo spettatore, in uno stato di smarrimento in cui il confine tra reale e immaginario si dissolve. La “commozione” diventa così lo strumento con cui Eggers riporta lo spettatore a quella sensibilità primitiva, immergendolo in una dimensione che, come sosteneva Frobenius, permette di “sentirsi afferrati” da un aspetto della realtà e di perdersi in esso.
Con Ellen, attraverso palette che vanno dai toni caldi e seppia a tonalità fredde e desaturate, Eggers rappresenterà la tendenza centrifuga a uscire fuori di sé per oltrepassare il recinto della convenzione borghese.
Per l’eclettico studioso torinese
Furio Jesi il pericolo concretissimo di chi si addentra nella ricerca del passato mediante lo studio del mito è quello di fuoriuscire dalla mitologia e smarrirsi nella mitografia, come se nel mondo della ricerca si replicasse quella possibilità di commozione propria dell’infanzia dell’uomo ma in direzione di un cumulo di macerie e di resti muti, una forma di parafilia gnoseologica verso l’esuvia del passato raccolta dalle scienze umane. Il poeta ‒ ossia il dicitore di miti ‒ rischia sempre di smarrirsi nel silenzio notturno del pozzo del passato e di non riuscire più a rivedere la luce del giorno e ritornare così tra gli altri uomini.
In un’opera fondamentale per la scienza del mito,
L’accusa del sangue, Jesi propone per la prima volta lo strumento interpretativo della macchina mitologica e lo fa in connessione all’atmosfera vampirica dietro l’accusa di omicidio rituale rivolta al popolo ebraico. Secondo Jesi non bisogna interrogarsi sulle origini del mito, andando alla ricerca del fatto originario che lo ha suscitato, è invece molto più sensato chiedersi come il mito venga ogni volta prodotto e diffuso, interrogandosi sullo scopo di questo processo. Il vampiro è soprattutto un mito moderno e la sua versione cinematografica ha molto da dirci sul funzionamento della macchina mitologica indagata dallo studioso torinese.
Jesi propone una distinzione tra due archetipi di vampiro: quello folklorico e quello lirico. Il vampiro folklorico rappresenta il “nemico interno” alla società, che il mondo cristiano identificò nell’ebreo o nel “giudeo errante”, Asmodeo; esso incarna una paura collettiva, una percezione dell’altro come “parassita” che minaccia il tessuto sociale dall’interno. Secondo uno schema retorico basato sull’imitazione-contraffazione, la Chiesa riteneva che nonostante gli ebrei fossero “così ostinati da non volere abbandonare la religione dei padri”, dovendo accettare in segreto “le prove irrefutabili della divinità del Cristo”, si “sono persuasi che un orrendo equivalente dell’eucarestia, il cibarsi di sangue cristiano, possa permettere loro di accedere alla salvezza (cristiana) nell’aldilà”. L’ebreo viene così dipinto dalla macchina mitologica cristiana come “il succhiatore di sangue, il vampiro per eccellenza”, facendo coincidere “vampirismo rituale con ‘vampirismo economico’: l’usuraio ebreo succhia sangue ai cristiani, così come i rabbini uccidono per Pesach un bambino cristiano al fine di suggerne il sangue ritualmente”.
Secondo Jesi non bisogna interrogarsi sulle origini del mito, andando alla ricerca del fatto originario che lo ha suscitato, è invece molto più sensato chiedersi come il mito venga ogni volta prodotto e diffuso.
Il vampiro lirico nasce invece dall’immaginazione della
Romantik ed è utilizzato dai poeti come il simbolo di una carica eversiva interna alla stessa persona dell’artista, il suo anelito a uscire dalla storia per realizzare con la propria opera un uomo e un mondo altro, sforzo che è però capace di drenare la sua linfa vitale fino a consumarlo. Il vampiro lirico è un simbolo dell’autoannientamento poetico, immagine dell’individuo separato dalla terra del mito e prigioniero degli accademismi e della ripetizione del classico, sofferente nella sua “vita gnostica”, “straniera” e prigioniera nel corpo storico e sociale. L’essere umano, intrappolato nella materialità, cerca una via per riscoprire la propria essenza divina e ritornare a un’origine spirituale pura, al di là del mondo terreno. Questo viaggio implica il rifiuto del mondo fisico e un’aspirazione a un altrove immateriale, eterno e trascendente.
Il Romanticismo tedesco fu il veicolo di una gnosi moderna che si oppose all’ascetismo di quegli gnosticismi di matrice ebraica, ellenistica e cristiana, perché invece di condannare la natura, che per gli gnostici era una prigione creata da un dio imperfetto, i poeti romantici vedevano in essa la parte oscura e abissale del divino, ed era invece la civiltà il vero ostacolo alla completa conciliazione tra spirito e natura. I poeti romantici esprimono spesso il desiderio di evadere dalla realtà concreta e limitata, rivolgendo la propria sensibilità verso un “oltre” sfuggente, a cui la natura rimanda, che diventa simbolo di libertà assoluta e di verità poetica. In questo senso, l’anelito romantico verso la “terra ideale” è molto simile, sebbene completamente opposto al desiderio gnostico di ritorno a una dimensione superiore, lontana dalle restrizioni del mondo materiale.
Dalla fusione mondana tra la eco gnostica del “vampiro lirico” e la macchina mitologica dell’antisemitismo cristiano, secondo Jesi, nasceranno poi i semi di quella moderna mitologia del sangue che da
Wagner in poi condurrà l’Occidente verso l’Olocausto. Queste due tipologie di vampiro sono infatti le componenti di quella gnosi culturale di destra, di matrice mitteleuropea e tedesca alla base della “macchinazione” antisemita, che è sempre stata la maschera di un dominio sociale che sfrutta il mito per legittimare il sacrificio di sangue, questo purtroppo vero, che i sovrani cristiani prima e gli Stati moderni poi non esitavano a domandare agli ebrei.
Proprio con la “soluzione finale” la macchina mitologica dietro il moderno racconto vampirico si è fatta carne e ha permesso all’establishment nazista di presentarsi come quella “comunità dei giusti” che in Stoker doveva recarsi fin nel cuore del castello-sinagoga, nelle profondità della natura selvaggia dell’ebreo, per riprendersi la vergine madrepatria e porre fine al regno di morte del giudaismo. La Seconda guerra mondiale era per i nazisti il più grande sacrificio umano, vampirico, a opera degli ebrei e dunque essi vedevano nell’Olocausto un’opera di igienizzazione delle scorie barbariche e animalesche con cui la cultura ebraica inficiava la purezza della
Kultur europea.
Appare così chiaro perché Jesi ritenesse che fosse il Mito a suscitare la storia e non il contrario, ed è attraverso il concetto di macchina mitologica che è possibile comprendere come e perché gli
elevated horror di Eggers siano da intendersi come dispositivi di restaurazione di un immaginario, un restauro che con
Nosferatu è anche, stilisticamente, una forma di regressione all’interno della storia del cinema, per tornare alla sua radice gnostica e romantica e “impalarla”, negando così che alla morte “panica” dell’io possa seguire un itinerario di trascendenza allegorica. Oltre il cinema e l’arte, non c’è nulla.
Dalla fusione mondana tra la eco gnostica del “vampiro lirico” e la macchina mitologica dell’antisemitismo cristiano, secondo Jesi, nasceranno poi i semi di quella moderna mitologia del sangue che da Wagner in poi condurrà l’Occidente verso l’Olocausto.
Eggers ci costringe così a guardare il vampiro e il cinema in una nuova luce, che non è allegoria di altro, ma riflesso di sé. Orlok diviene qui il “livello zero” della rappresentazione, la metafora primaria di un cinema che, come lui, cattura e cristallizza il tempo. È un cinema che assorbe la vitalità del mondo senza restituirla intatta; proprio come un vampiro, si nutre dell’aura della realtà per generare una non-vita, un’immagine che esiste solo nell’atto stesso di essere guardata. Il cinema non può salvarci, non ci mostra la possibilità di un agire.
Rivelare il vampiro in questi termini significa osservare il cinema come una “macchina mitologica” che risucchia la realtà per ripeterla in un ciclo senza fine, priva di trasformazione e di respiro. È come se Eggers volesse con ogni film scoperchiare il “pozzo del passato”, di cui
Thomas Mann ammira la profondità nella tetralogia
Giuseppe e i suoi fratelli (1933-43), per attingere alla fiamma del mito, che di quel pozzo è il fondo irraggiungibile, per dare “fuoco e tensione a ogni nostra parola” e smembrare i confini dell’io.
La poetica di Eggers sguazza nel terrore gotico in cui il passato appare solo come incubo perché si sono perse le chiavi epocali per aprirne il significato. I suoi dei e i loro atti si trasformano in demoni e fantasmi, mentre il tipo umano che, come sciamano o sacerdote, presenziava i suoi riti si converte in “vampiro”, l’iniziato senza misteri, straniero nel mondo secolare, costretto al buio dell’esoterismo o della sala cinematografica. A differenza del ricercatore accademico che deve sempre mantenere un distacco dal proprio oggetto di studio, per il regista lo spazio del “così fu” non è più terreno di scavo archeologico ma miniera estrattiva e riserva di mana da cui lasciarsi assorbire.
Non si tratta più di “film” per mettere a fuoco il presente ma di dispositivi mitografici che danno l’impressione di essere “luogo di contatto con l’invisibile”, che nella modernità può assumere solo i connotati occulti del passato. La fascinazione per il rifacimento è dopotutto il segnale di quella “cultura della morte” che alimenta ed è alimentata dalla macchina dello spettacolo in cui il passato viene profanato.
Oggi che il regista non deve più vestire i panni dell’intellettuale impegnato perché non incombe più su di lui il peso della condizione di vate, egli può tornare a vestire i panni del mago, manipolatore di ‘certe’ immagini, utili a spalancare la pericolosa porta del passato, quella zona di esplorazione in cui il ricercatore come Jesi teme sempre di smarrirsi, incantato dalle sue sirene, e in cui invece l’artista nel tempo della morte dell’arte si è già arrischiato senza avvedersene, magnetizzato dal canto mortifero del Mito. Di Jesi
Italo Calvino disse che era “un personaggio interessante e sorprendente”, ma “curioso” e sosteneva che fosse necessario “salvare tutto il suo aspetto occultistico” per evitare che diventasse “un balordo”. Jesi fu per Calvino “uno
Zolla che gira a rovescio, a sinistra”. E gli irrazionalisti in Italia, non durano.
Forse nel nostro Paese è ancora così, vincolato com’è alla sua narrativa familiare e piccolo-borghese, capace di tenere lontano i “vampiri”. Ma il mondo oggi è galvanizzato dall’irrazionalismo degli
elevated horror confezionati da Eggers proprio perché l’autorialità che li struttura non chiede di essere indagata con gli strumenti semiotici del critico, il Van Helsing che tenta sempre di esorcizzare “il vampiro”, il significante, per liberare il significato nascosto nella tomba dello sguardo registico.
Oggi che il regista non deve più vestire i panni dell’intellettuale impegnato perché non incombe più su di lui il peso della condizione di vate, egli può tornare a vestire i panni del mago, manipolatore di ‘certe’ immagini, utili a spalancare la pericolosa porta del passato.
Massimo Introvigne rileva che il successo del racconto vampirico beneficia dei momenti di crisi culturali, sia religiose che politiche, e per quanto riguarda la storia del cinema questo aspetto non cambia. Il vampiro cinematografico è stato la metafora di una frattura e insieme di un punto di saldatura tra epoche del cinema: con Murnau era stato raccordo tra i movimenti ossessivi della cinepresa del
Kammerspiel e i contrasti di luce e ombre dell’espressionismo, poi con Kinski divenne il ponte tra il Nuovo cinema tedesco e l’avanguardia cinematografica del primo Novecento e infine, attraverso il barocchismo di Francis Ford Coppola, il vampiro viene presentato come l’alfa e l’omega del cinema stesso ‒ con un Dracula che prende posto a una proiezione cinematografica, ponendosi così fuori e dentro lo schermo per salutare il tramonto della Hollywood Renaissance.
Eggers vuole invece ottenere l’impossibile, tornare al tempo arcaico e cancellare il contemporaneo e il moderno attraverso l’arte che più di ogni altra ha incarnato il suo
paideuma archivistico e perciò mortifero. Ridando nuova vita alla figura del vampiro nel tempo manifesto della morte del cinema, e tornando quindi al grado zero metaforico della sua rappresentazione, il regista avrà la possibilità di mostrare un vampiro che non vuole significare più nulla, che non vuole riconnettere epoche del cinema ma tornare alla sua fonte primigenia, esoterica.
Il vampiro di Eggers potrà così diventare serbatoio di infinite metafore, perché la sua costruzione sarà metanarrativa, macchina mitologica di una rivolta interiore mediante il femminile, in virtù di un ritorno a un’afasia che denuncia lo scarto tra rappresentazione e azione, perché il cinema, in quanto mito, per Eggers deve atterrire, pretendere che l’uditore del suo racconto e lo spettatore della sua epifania si identifichino con esso, come in una epopteia invertita ‒ la visione liberatrice dei misteri eleusini che nella spettacolarità del cinema diventa visione paralizzante.
Quello del regista è un cinema che sa di essere morto e per questo non può che perdersi nelle proprie retro-ossessioni neoromantiche ‒ la maniacalità della ricostruzione e il perturbante carattere della natura selvaggia. Lo spettatore viene costretto da Eggers, regista-vampirico, a smarrirsi nella soggettività dei suoi personaggi, senza essere più capace di percepire se le irruzioni del soprannaturale siano parto dell’immaginazione o elemento costitutivo della storia raccontata dal regista.
Eggers è “commosso” dall’ancestralità e vuole “commuovere” lo spettatore. Riceverebbe per questo gli strali di
Ernesto De Martino, che rispetto al concetto di Frobenius si chiedeva: “Che cosa può essere […] questo lasciarsi prendere, o addirittura ghermire, da un aspetto particolare della realtà?”; quando la “commozione” così intesa determina la condotta degli esseri umani, “conduce non già all’imitazione, al ‘giuoco mimico’ e simili, e tanto meno al vivere le ‘essenze’, ma alla ecolalia e alla ecoprassia dello schizofrenico”. Registi come Eggers in fondo non fanno altro che prendere atto di questa “cattura” del mito da parte della forma di vita edonistica e desiderosa di catastrofe che caratterizza il presente e per questo approfittano di questa schizofrenia.
Registi come Eggers in fondo non fanno altro che prendere atto di questa “cattura” del mito da parte della forma di vita edonistica e desiderosa di catastrofe che caratterizza il presente.
Attraverso il suo
Nosferatu, Eggers non ambisce a rivelare un messaggio, ma a restituire il cinema al suo grado zero mitico, a quella funzione di medium che, come “commozione”, afferra lo spettatore e lo sospende in uno stato di visione paralizzante. Una celebrazione della morte nella forma di una negromantica archeologica che vuole stanare lo spettro abbarbicato nei recessi della psiche collettiva, il vampiro dentro di noi, che non promette salvezza e ci consuma, che non interroga e non può essere interrogato perché si impone come visione ineluttabile.