

C’ è un meme molto popolare che compara le possibilità di una persona giovane oggi e quelle dei suoi genitori quando avevano la stessa età. Il meme ha due varianti principali: in alcuni casi mostra quello che i genitori possedevano in un determinato momento della loro vita (sempre molto di più rispetto alla persona del presente); in altri quello che i genitori sognavano di ottenere quando avrebbero raggiunto una certa età (sempre molto di più rispetto alla persona del presente). Gli anni di massima attuazione delle politiche di welfare nelle socialdemocrazie occidentali ci sembrano idilliaci, le possibilità sconfinate e la vita a portata di mano; oggi a stento mettiamo insieme il pranzo con la cena. Al di là dei problemi materiali, il meme pone un’altra questione, forse più profonda: che cosa possiamo oggi realisticamente desiderare? In altre parole: quali desideri e quali sentimenti sono possibili in relazione al contesto che abitiamo?
Se desiderare significa quasi sempre immaginare qualcosa di diverso dall’esistente, il tentativo di mettere in pratica il desiderio, di realizzare le proprie ambizioni, soprattutto quando non sono contenute dal contesto che il soggetto desiderante abita, è insito nel fare politica. Definisco “fare politica” non soltanto prendere posizione a titolo personale, fosse attraverso un articolo, un libro, una newsletter o sulle piattaforme. Intendo, piuttosto, la partecipazione attiva all’analisi e all’azione di un gruppo di persone che si organizza per portare avanti rivendicazioni e proposte concrete su scala più o meno ampia. La dimensione collettiva, o quantomeno plurale, del fare politica non può più essere messa in secondo piano.
In molti circoli al confine tra l’attivismo e l’attività riflessiva tipica della classe media si rimpiange un passato, genericamente collocato a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui la partecipazione alla vita politica era decisamente più diffusa e pervasiva. Se è vero che possiamo sperare qualcosa soltanto se abitiamo le possibilità di realizzazione del desiderio, quel senso di nostalgia, oggi, deve confrontarsi con il cambiamento delle possibilità materiali che permettevano di sognare, programmare, agire politicamente. In mancanza di quelle condizioni, viene meno l’attivismo.
Se desiderare significa quasi sempre immaginare qualcosa di diverso dall’esistente, il tentativo di mettere in pratica il desiderio, di realizzare le proprie ambizioni, soprattutto quando non sono contenute dal contesto che il soggetto desiderante abita, è insito nel fare politica.
Così, anche il linguaggio e il significato storicamente attribuito alle parole determinano le emozioni: gli individui etichettano ciò che provano facendo inconsciamente riferimento da un lato alla definizione mentale delle situazioni in cui sono coinvolte, dall’altro al loro ruolo sociale in relazione a quelle stesse situazioni. Banalmente, una donna che riceva un determinato insulto lo percepirà in maniera diversa da un uomo. La società influenza dunque le nostre emozioni sia al livello culturale nel senso ampio del termine, sia, allo stesso tempo, particolare, a seconda del contesto specifico e situato dal quale un’emozione si genera. A partire da queste premesse, quindi, l’autrice si chiede in che modo la modernità si manifesta nella nostra vita emotiva.
La definizione di modernità può essere fin troppo ampia e contraddittoria, per questo Illouz specifica i tratti della nostra epoca che più si adattano al suo discorso sulle emozioni: il rifiuto della teodicea e la secolarizzazione dei valori; la diffusione di concezioni egualitarie dell’individuo al di là della sua appartenenza di classe; il dominio di mercati competitivi nell’organizzazione del lavoro; la globalizzazione finanziaria, dei mercati tradizionali e della mobilità degli individui; il trionfo dell’idea borghese di unicità della persona; il “simultaneo intensificarsi dell’aspirazione alla mobilità sociale e della disuguaglianza di classe”; il dilagare di disagi e malattie psichiche; la vittoria, a partire dagli anni Ottanta, delle ragioni del mercato sui progressi che, a partire dal dopoguerra, erano stati compiuti nel campo dei diritti sociali nelle democrazie occidentali.
Eva Illouz analizza il modo in cui le strutture economiche e sociali profonde delle società occidentali contemporanee, quello che potremmo definire “Occidente collettivo”, determinano le nostre emozioni.
Saltiamo per il momento l’analisi dei singoli capitoli per arrivare alla conclusione del suo discorso: posto che i meccanismi economici e sociali vigenti provocano lo spaesamento dell’individuo nella gestione della propria sfera emotiva, Illouz, con il suo saggio, vuole riaffermare l’importanza di dominare le proprie emozioni al fine di avere il controllo del sé in relazione a ciò che accade nel mondo. Questo controllo, sembrerebbe affermare Illouz, può essere motore di cambiamento nel rapporto dialettico tra l’individuo e la società. Scrive l’autrice: “Le emozioni sono essenzialmente sociali, ma possono essere soffocate da una sovrasocialità che confonde le coscienze individuali […]. Ma a volte le emozioni possono esplodere, evadere e strabordare dai nostri ruoli sociali, dando vita a una nuova realtà interiore e sociale. È allora che ci aiutano a sovvertire i nostri ruoli e ci consentono di accedere a nuove esperienze. E quando si riesce a dare un nome a queste emozioni, si può dar vita a una rivoluzione privata o collettiva”.
Analizziamo questo assunto, uno degli ultimi del libro, per commentare a ritroso tutto il testo. Il concetto di “sovrasocialità”, come abbiamo già spiegato, include tutte le dinamiche sociali ed economiche che sfuggono al controllo diretto dell’individuo, provocandone il mancato dominio della propria sfera emotiva. Due esempi su tutti: nel capitolo sull’ira, Illouz scrive che “senza l’ira, il mondo potrebbe diventare in breve tempo un luogo di passiva rassegnazione all’ingiustizia e all’oppressione. Ma […] un mondo di persone ossessionate dal desiderio di rivalsa e dalla ricerca di giustizia, la cui unica identità è quella di vittime rabbiose e vendicative, sarebbe un mondo di marionette, agite dall’esterno e dall’anima di legno”. Allo stesso modo, l’autrice invita i lettori a non lasciarsi abbindolare dalla “politica della paura”, uno “spettro” che “perseguita dall’interno” le democrazie liberali. In pratica, una sorta di nuovo comunismo. Le singole analisi delle emozioni sono approfondite, ricche di esempi e di declinazioni diverse dello stesso sentimento. Illouz ha il merito di mostrare con efficacia come le diverse emozioni intervengono nella vita quotidiana. Ciò che fa specie, tuttavia, è la dialettica, a mio parere fallace, tra emozioni individuali e vita collettiva.
Il concetto di “sovrasocialità” include tutte le dinamiche sociali ed economiche che sfuggono al controllo diretto dell’individuo, provocandone il mancato dominio della propria sfera emotiva.
In questo passaggio finale, Illouz sembra suggerire una possibile via di uscita: nonostante le emozioni siano profondamente determinate dalla società, esse possono, in certi momenti, “strabordare” dai ruoli che ci sono stati assegnati, dando forma a una nuova coscienza e forse persino a una “rivoluzione privata o collettiva”. Se infatti la “sovrasocialità” confonde e condiziona le coscienze, come può il soggetto – così immerso nelle strutture simboliche della società – riconoscere in sé un’emozione autentica, autonoma, capace di rompere lo schema? Da dove proviene questa forza? E soprattutto: come si distingue un’emozione che riproduce l’ordine sociale da una che lo scardina?
Illouz sembra oscillare tra due modelli teorici: uno strutturalista, secondo cui siamo interamente prodotti dalle nostre condizioni storiche e sociali; e uno esistenzialista o pragmatico, in cui le emozioni, pur nate dentro una rete di determinazioni, conservano una possibilità di eccedenza, di “sovversione”. Ma questa eccedenza non è spiegata. L’autrice sembra confidare nella possibilità che il linguaggio (il nominare un’emozione) basti a trasformare il vissuto soggettivo in esperienza politica. È un auspicio potente, ma lascia irrisolta la domanda cruciale: se siamo interamente determinati, da dove nasce l’atto che rompe il determinismo? È proprio in questo punto – nella mancanza di una teoria della soggettivazione che dia conto del passaggio dal dominio alla ribellione – che il discorso di Illouz resta incompiuto.
Illouz sembra suggerire una possibile via di uscita: nonostante le emozioni siano profondamente determinate dalla società, esse possono, in certi momenti, “strabordare” dai ruoli che ci sono stati assegnati, dando forma a una nuova coscienza e forse persino a una “rivoluzione privata o collettiva”.
La crisi che abitiamo riguarda diversi settori (economia, tecnologia, demografia, politica, ecologia) ed è connessa in modo diretto ed evidente al nostro sistema economico, eppure non vediamo alternative al capitalismo. La manifestazione più evidente della crisi della borghesia, dice Mazzoni, è la progressiva tribalizzazione della società, prodotta tanto dai populismi di destra quanto dalle culture wars e dalle identity politics di sinistra. Mazzoni prende coscienza dell’universalizzazione dei valori borghesi: oggi chiunque, dice l’autore, ha le ambizioni e gli ideali di vita che la borghesia ha imposto a suon di rivoluzioni, dalla Rivoluzione francese ai moti del Quarantotto, dalla rivoluzione industriale a quella tecnologica, dagli interventismi della Prima guerra mondiale all’instaurazione del mercato unico europeo.
La manifestazione più evidente della crisi della borghesia, dice Mazzoni, è la progressiva tribalizzazione della società, prodotta tanto dai populismi di destra quanto dalle culture wars e dalle identity politics di sinistra.
A questo proposito, particolarmente significativa è la scelta di Eva Illouz, nel suo saggio, di avvalersi della letteratura come veicolo di comprensione e analisi delle emozioni. Da un lato, Illouz riconosce il potere evocativo e allo stesso tempo sintetico delle narrazioni contemporanee, dall’altro ne esalta la non-normatività, ovvero la capacità di descrivere un’emozione svincolandone l’analisi dal giudizio e dall’incasellamento in categorie prescrittive. Questa forza descrittiva del saggio, però, costituisce a mio parere anche il suo limite discorsivo. Illouz, nella descrizione delle emozioni, si rivolge chiaramente alla classe media, descrivendo ciascun sentimento sulla base di parametri tipicamente borghesi. E del resto il romanzo è il genere borghese per eccellenza. Ma che ne è oggi della borghesia pensata da Illouz?
Sostanzialmente, una borghesia al collasso. Il capitolo sulla delusione, in un paragrafo in cui si parla del nostro rapporto con la politica, contiene una considerazione importante: la maggioranza delle persone sente il bisogno di un rinnovamento radicale nella politica ed è frustrata dalla incapacità (e forse dalla mancanza di volontà) da parte della classe politica di rispondere alle esigenze di cambiamento. Ogni speranza di cambiamento è frustrata dalla realtà di un sistema economico che impedisce alle persone di realizzare concretamente le proprie aspirazioni. Eppure, e questo lo aggiungo io, nonostante questo bisogno di rinnovamento nessuno va a votare. I destini di tutte le democrazie occidentali, sistemi politici teoricamente nati per garantire la massima rappresentanza delle volontà collettive, sono decisi da percentuali di elettori bassissime.
Illouz riconosce il potere evocativo e allo stesso tempo sintetico delle narrazioni contemporanee, dall’altro ne esalta la non-normatività, ovvero la capacità di descrivere un’emozione svincolandone l’analisi dal giudizio e dall’incasellamento in categorie prescrittive.
In primo luogo, la razionalità politica sembra crollata: le scelte dei governi in materia di guerra, cambiamento climatico o redistribuzione della ricchezza sono spesso contraddittorie, opache, guidate da interessi contingenti o da pulsioni di breve periodo. Le politiche migratorie, ad esempio, sembrano rispondere più alla gestione emotiva dell’opinione pubblica che a una reale strategia razionale. In secondo luogo, è in crisi la razionalità affettiva: l’odio, il risentimento, la paura circolano come affetti dominanti e sembrano orientare le scelte collettive più della speranza o della fiducia. Si tratta di una razionalità emotiva rovesciata, in cui l’intensità del sentimento legittima l’azione, anche in assenza di una visione. Infine, anche la razionalità epistemica, cioè il modo in cui spieghiamo il mondo, mostra segni di esaurimento. Da un lato, l’eccesso di dati e informazioni frammentate – infografiche, previsioni, big data – produce una saturazione cognitiva che paralizza anziché orientare. Dall’altro, le grandi narrazioni razionaliste, quelle che cercavano di spiegare il presente alla luce di leggi storiche o economiche (il progresso, il mercato, la tecnica), non convincono più. L’ideale illuminista vacilla, ma nessuna nuova bussola sembra sostituirlo.
In questo quadro, la disgregazione della borghesia come classe coesa e culturalmente egemonica si accompagna a una perdita di immaginario condiviso. Le disuguaglianze crescenti non si limitano a fratturare l’accesso alle risorse, ma generano universi simbolici incompatibili: l’1% più ricco ha progetti, desideri, linguaggi completamente distanti da quelli delle fasce sociali marginalizzate. E se la borghesia del passato credeva che tutto fosse governabile, oggi le fasce escluse non credono più nemmeno che valga la pena desiderare. È in questa assenza di desiderio che la crisi della politica trova forse la sua forma più estrema.
La disgregazione della borghesia come classe coesa e culturalmente egemonica si accompagna a una perdita di immaginario condiviso. Le disuguaglianze crescenti non si limitano a fratturare l’accesso alle risorse, ma generano universi simbolici incompatibili.
La via d’uscita, forse, è abiurare le condizioni che ci hanno portato fino a qui, rifiutare il mondo per come è e allo stesso tempo avere la forza di immaginarne uno nuovo. Come scrive la sociologa Lauren Berlant nel finale del saggio Ottimismo crudele (2024, ed. or. 2011)
l’energia che anima l’inscalfibile volontà di disfare un mondo mentre se ne crea un altro richiede fantasia quale forza motrice di un’azione programmatica che abiuri il presente in nome di ciò che il presente potrebbe diventare. Richiede una sfera affettiva surrealista per contrastare quella già esistente, che rende possibile confrontarsi con il fatto che ogni azione di rivendicazione sul presente implica processi violenti di distacco dalle proprie radici nel mondo e dalle proiezioni ottimistiche di un mondo che è fino ad allora valso ogni nostro attaccamento.