G ianni Rodari nel 1973 pubblica il primo e unico saggio della sua carriera, La grammatica della Fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie. Un volume che comprende anni e anni di studi sulla Fantastica, quell’insieme di meccanismi che regolano i processi creativi legati alla fantasia, e nello specifico Rodari si sofferma sulla costruzione di storie, quindi sulla scrittura narrativa. In questo testo, per la prima volta, viene messo per iscritto il concetto di “binomio fantastico”, a lungo utilizzato dall’autore nei suoi testi precedenti. Binomio fantastico è quella tecnica di scrittura che prevede l’unione di due parole slegate semanticamente, per esempio una zucchina e un bicchiere, per dare un input creativo nella nascita di una nuova storia. Questo meccanismo che preserva l’incontro casuale surrealista, è un puro “spaesamento sistematico”, per citare Max Ernst.
Gianni Rodari aveva testato a lungo nelle scuole elementari questo metodo di scrittura e i risultati erano stati sorprendenti. A Reggio Emilia un bambino di cinque anni e mezzo aveva proposto l’accostamento delle parole “luce” e “scarpe” e ne uscì questa storia:
C’era una volta un bimbo che si metteva sempre le scarpe di suo papà. Una sera il papà si era stufato che il bimbo gli prendeva le scarpe, allora lo mette attaccato alla luce, e poi a mezzanotte cade, allora dice il papà: – Cosa c’è, un ladro?
Va a vedere e c’era il bambino per terra. Il bimbo era rimasto tutto il tempo acceso. Allora il papà ha provato a girargli la testa ma non si è spento, ha provato a tirargli le orecchie ma non si spegneva, ha provato a schiacciargli il naso ma non si spegneva, ha provato a tirargli i capelli ma non si spegneva, ha provato a schiacciargli l’ombelico ma non si spegneva, ha provato a tirargli via le scarpe e c’è riuscito, si è spento.
Lo stesso Rodari suggerisce che questa tecnica, limitata ne La grammatica della Fantasia alla sola narrativa, potrebbe essere trasferita ad altri linguaggi, per esempio a quello cinematografico. L’autore riesce a creare una grammatica immaginativa efficace, ma come sarebbe vederla invece che leggerla soltanto?
Dalla fine degli anni Cinquanta a oggi sono state tante le opere audiovisive tratte dalla scrittura di Gianni Rodari. Il live action più famoso è stato diretto da Lino del Frà nel 1970 ed è un adattamento de La torta in cielo, una favola antimilitarista che racconta l’arrivo di una vera e propria torta al cioccolato nel cielo della borgata del Trullo di Roma. L’incontro accidentale che ha fatto scontrare la parola “torta” e la parola “cielo” porta alla costruzione di una storia visionaria.
– Addio torta, – sospirò Rita, osservando la manovra d’assedio e inghiottendo acquolina.
– Sei proprio fissata, – borbottò Paolo, – ti ho detto che è un’astronave.
– Ma dove hai gli occhi? Guarda, di sotto è tutta di cioccolato. E di sopra è rosa, gialla, verde: una torta millegusti.
– Quelli debbono essere i colori della bandiera marziana.
– Scommettiamo, allora. Io dico che è una torta, tu dici che è un’astronave. Chi vince, prende la paga della settimana di tutti e due.
Questa fiaba perde la sua potenza fantasiosa in un adattamento che crea del contenuto una bandiera politica, riflettendo l’atmosfera del movimento del ’68, e si dimentica della forma. Lino del Frà crea un film sulla disobbedienza infantile, modificando le intenzioni dell’opera originale. Il linguaggio mutaforme della Fantastica non viene esplorato, il risultato è un linguaggio ibrido, un live action con inserti di effetti speciali macchiettistici. In una Roma d’altri tempi vediamo una buffa torta in cielo dai colori fluorescenti e con tratti rudimentali che finisce per disvelare, subito, l’artificialità stessa della messinscena. Il film non riesce a rispettare il patto di credibilità con lo spettatore e finisce per restituire un’immagine caricaturale della storia.
Le trasposizioni cinematografiche degli scritti di Rodari sembrano una continua semplificazione del suo linguaggio e anche la scelta dei testi sembra privilegiare sempre quelli meno sperimentali.
Un nuovo tentativo prova a farlo Enzo D’Alò nel 1996, adattando per il cinema il romanzo del ‘64 La freccia azzurra. Gianni Rodari scrive la storia di una befana né buona né cattiva, costruisce una narrazione che rinnega gli archetipi dell’infanzia. Scrive di lotta di classe. Se la befana è una lavoratrice qualunque e ha bisogno di essere pagata, ci saranno sempre bambini che avranno regali e bambini che non riceveranno niente. Rodari anima i giocattoli che accompagnano Francesco, un bambino povero, protagonista del romanzo, nella sua avventura. Nel testo non mancano pagine nonsense o assurde, tipiche del linguaggio dell’autore:
Le tre marionette avevano freddo per tre, naturalmente, e battevano i denti tanto forte che nel loro scompartimento nessuno riusciva a dormire.
– Ma non potete lasciarci in pace? – brontolavano i passeggeri. – Non vedete che siamo stanchi e abbiamo bisogno di riposare? non avete un po’ di cuore?
– No, non ce l’abbiamo, – risposero tristemente le Tre Marionette.
– Avete voglia di scherzare, però.
– No, davvero. Non abbiamo cuore. Siamo di legno e di cartapesta. Se avessimo cuore, non avremmo così freddo.
Dalla scatola dei pastelli guizzò fuori il Rosso.
– Ci penso io, – disse.
E con tre segni della sua punta disegnò il cuore sulle giubbe delle Tre Marionette. Disegnò tre bei cuori rossi, un po’ gonfi da una parte, così grossi che occupavano tutto il petto.
Sarebbe stato bello vedere sullo schermo la trasformazione da legno a animato, ma non è un passaggio che viene raffigurato. La trasposizione cinematografica non esplora questo tipo di narrazione e trasla sul grande schermo una storia canonica; viene introdotto un nuovo personaggio, il dott. Scarafoni, che diventa il nemico del protagonista, costruendo un storia incentrata sull’ennesima guerra tra buoni e cattivi, attraverso un linguaggio animato statico. L’animazione del film è rigida, ricorre al linguaggio animato ma non anima nulla, anzi copia il linguaggio live action, diventando una copia della realtà, una mimesis naturalistica che non si svincola dalla forma solida della materia.
Le trasposizioni cinematografiche degli scritti di Rodari sembrano una continua semplificazione del suo linguaggio e anche la scelta dei testi sembra privilegiare sempre quelli meno sperimentali. La scelta di un testo più radicale a livello linguistico la fa Anatolij Petrov che nel 1969 cura un cortometraggio ispirato a Passeggiata di un distratto: la storia di un bambino, Giovanni, che perde per strada i suoi arti perché sta con la testa fra le nuvole. Lo stile d’animazione è meno realistico, le forme sono sezioni pittoriche di colore, un particolare e fortunato incontro tra le linee e i colori di Vasilij Kandinskij e le forme di George Braque, mentre la madre ricorda uno dei tanti ritratti di Dora Maar, dipinti da Pablo Picasso. Vediamo la testa di Giovanni fare un giro di 360 gradi su se stessa, il bambino perde effettivamente gli arti, ma riesce comunque a tornare a casa come se niente fosse. C’è sicuramente un “’allentamento dalla massa compatta” come la definisce Benjamin, per andare incontro a una forma nuova e malleabile. Il problema è che questo allentamento viene giustificato: se nel testo originale Giovanni è un bambino in carne ed ossa, nella trasposizione cinematografica diventa un burattino, e in questo modo lo spettatore viene preparato alla visione.
Storicamente nella costruzione di un film animato si tende a usare il reale come vincolo e si prende come modello il live action. Persino in quei passaggi che possono risultare più sperimentali c’è una spiegazione logica del perché l’animazione si allontana dalla realtà, proprio come succede nel caso di La passeggiata di un distratto. Un altro esempio lo possiamo prendere da Dumbo (1941). Nell’iconica sequenza degli elefanti rosa trombettisti, che si trasformano perennemente in corpi e forme diverse, dando vita a un momento onirico di altissimo livello, sappiamo che Dumbo è ubriaco e la visione è giustificata dalla sua condizione psicofisica, non scardina le direttrici del reale, ma continua a ricalcarle. Un esempio più recente è il Mr Potato di Toy Story che cambia forma più volte nel corso dei film, ma anche qui, viene scelto l’unico giocattolo realmente scomponibile. Ci aspettiamo di vedere quello che vedremo, le reazioni non sarebbero state le stesse se a cambiare forma fossero stati un orsetto o Woody stesso.
L’animazione nasce con l’idea di animare l’inanimato, di creare forme mutevoli, più vicine alla sperimentazione di Dalì che a un linguaggio iperrealista.
Questo tipo di animazione si allontana dagli esperimenti degli anni Venti e Trenta, da quel cinema astratto che non aveva alcuna narrazione, ma costruiva un’esperienza percettiva ed estatica per lo spettatore. Anche negli esperimenti più mainstream di quegli stessi anni, vediamo un topolino fluido, personaggio che può staccarsi e riattaccarsi un braccio, che può trasformarsi da animale a moneta, alla ricerca della “plasmaticità” di cui parla Ėjzenštejn, ovvero “una plasticità simile al protoplasma che permette alle figure dei cartoni animati di subire continue trasformazioni.”
L’animazione nasce con l’idea di animare l’inanimato, di creare forme mutevoli, più vicine alla sperimentazione di Dalì che a un linguaggio iperrealista. Vari esempi provengono dal lavoro dei fratelli Fleischer, animatori e inventori della tecnica del rotoscopio, grazie al quale si ricalcavano le scene che erano state girate su pellicole in precedenza. Anche se la forma era vincolata all’umano, si riusciva a creare dei movimenti più fluidi e malleabili.
La stessa funzione che aveva il rotoscopio lo ha il neural style transfer (Nst), un tipo di intelligenza artificiale che serve per creare delle animazioni attraverso l’uso dei voxel, ovvero i pixel in 3D. Questa tecnica può essere utilizzata per sperimentare delle animazioni liquide e giocare con la forma. Già la Pixar in collaborazione con Disney Research Studio ha utilizzato la Nst per creare uno dei personaggi principali del film Elemental, uscito in sala nell’estate del 2023. Gli animatori non riuscivano a trovare una forma per Ember, rappresentazione fisica dell’elemento del fuoco. La difficoltà era doppia: da un lato non farla sembrare troppo realistica, perché sarebbe risultata perturbante, dall’altro non creare un disequilibrio con gli altri personaggi già realizzati senza la mediazione del neural style transfer. Come scrive Marah Eakin nella sua riflessione su Elemental e AI:
Insieme sono riusciti a risolvere il problema del fuoco reclutando un artista della Pixar, Jonathan Hoffman, che ha disegnato una serie di fiammelle vorticose, appuntite e quasi cartoonesche che il team ha soprannominato “gigli”. L’Nst è riuscito a combinarle con il fuoco indefinito della simulazione originale, ottenendo il movimento e l’intensità tipica delle fiamme, appena smorzata da un pizzico dello stile Pixar.
L’utilizzo di Nst, ma in generale la sperimentazione attraverso l’intelligenza artificiale, apre moltissime prospettive e riflessioni sulla possibilità di creare animazioni sempre più liquide.
Forse è proprio questo il modo per trasporre Gianni Rodari al cinema? Possiamo pensare di creare delle forme nuove, ma fedeli agli scritti fantastici di un intellettuale surrealista? Forse dovremmo iniziare a contaminare i linguaggi, e vedere quante forme inaspettate e mutevoli può prendere la parola se trasposta sullo schermo con coerenza linguistica. Ho provato a dare come input al software Leonardo una serie di filastrocche e fiabe di Rodari, e le sequenze animate che ne sono uscite sono già sorprendenti. Si fanno una serie di tentativi, si vede la forma che muta e ogni risultato sembra una potenziale creazione, perché come viene detto nella Grammatica della Fantasia: “sbagliando s’impara è un vecchio proverbio, il nuovo potrebbe dire sbagliando s’inventa”.