Come nasce la scrittura per il teatro di Mattia Torre?
In realtà nasce casualmente. Ho sempre avuto un grande desiderio di scrivere, lo facevo già dall’adolescenza. Scrivevo, in realtà, cose orribili, ma lo facevo con grande ostinazione. Poi, il mio amico e collega Giacomo Ciarrapico – che all’epoca studiava al centro sperimentale, faceva recitazione – decise che era un “cane”, che non era proponibile come attore, e quindi mi propose di scrivere un testo insieme. Per me era una follia, perché non avevamo esperienza, e invece lui bloccò il teatro e questo ci costrinse ad andare in scena, con una compagnia che formammo al tempo, partendo da un copione che – forse proprio grazie alla data di scadenza, al fatto che dovevamo per forza andare in scena – risultò essere un copione felice. Ed era la prima volta che coniugavamo la comicità a servizio di un contenuto, che è quello che abbiamo poi sempre cercato di fare. Così a questo spettacolo ne è seguito un altro, poi un altro ancora, finché nel 2000 mi sono lanciato nel mio primo monologo. Che era un po’ un azzardo, perché cercare di tenere l’attenzione su un solo personaggio e su un solo racconto era per me un territorio nuovo. Ma lo spettacolo andò molto bene e a me piacque tantissimo, così ho continuato sulla strada dei monologhi, alternando quella scrittura ad altre forme, come la sceneggiatura di “Boris” e altre cose che abbiamo realizzato per la televisione o per il cinema. A pensarci bene l’approccio è stato sempre molto simile: cercare di raccontare dei pezzi della nostra realtà, del nostro paese. Che fosse teatro, una serie televisiva oppure un film, l’atteggiamento di base era più o meno lo stesso. Magari cambiano le forme, i criteri di produzione, però quell’approccio iniziale io lo continuo sempre a cercare.
Azzardo, da amante del teatro, una differenza di approccio. Nella scrittura teatrale forse c’è più spazio per andare a fondo nei sentimenti profondi dei personaggi. Come avviene in In mezzo al mare, monologo che segna l’inizio della complicità con Valerio Aprea, o in Migliore, che invece dà il via alla collaborazione con Valerio Mastandrea. Il primo racconta della difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo, il secondo tratteggia la situazione beffarda di un uomo che più si comporta bene e più viene bastonato dalla vita, mentre quando sceglie di essere egoista e di sopraffare gli altri comincia ad ottenere tutto.
In effetti Migliore racconta una storia molto amara, in realtà. Il fatto che si ridesse così tanto ci preoccupava, però incarnava proprio quel tipo di ambiguità che volevamo proporre al pubblico. La gente finisce per riconoscersi, empatizzare e addirittura tifare per dei mostri che però, per motivi ancestrali, hanno una qualche presa su di noi.
In effetti, i tuoi personaggi a volte incarnano una “mostrificazione” ma, nonostante questo, continuano a somigliarci parecchio. Ad esempio Gola scende davvero in profondità in un grande vizio degli italiani.
È vero, Gola è inesportabile. È una strana creatura, nata per caso, per una piccola rassegna teatrale al teatro Ambra Jovinelli. Poi è diventato il mio testo più rappresentato in assoluto. Lo hanno fatto attori e attrici, e persino cantanti: l’ho visto fare da Fiorella Mannoia all’Auditorium. Tante versioni, molto diverse e tutte bellissime. Anche in quel caso c’è una sorta di approccio sociologico: cercavo di porre lo sguardo su una serie di cose che facciamo, che ormai abbiamo assimilato e di cui non ci rendiamo conto. E poi c’è la volontà di raccontare il mondo attorno a noi, che viviamo in un paese così complesso, e raccontare le emozioni che ci suscita.
Gola ha anche una comicità molto accentuata, che non è solo qualcosa che si attiva dal vivo, grazie alla bravura dell’attore. Anche nella lettura, la comicità della tua scrittura resta intatta. E questa è una cosa a tratti straordinaria perché quasi sempre leggere il teatro è difficile, quasi ostico, una cosa per amatori che sanno intravedere come poi saranno le parole sulla scena. I tuoi “sette atti comici”, raccolti nel libro Mondadori, conservano la loro potenza anche sulla pagina, contravvenendo a questa regola del teatro.
Per fortuna, perché sennò il libro sarebbe nei guai! Ovviamente abbiamo presentato i sette atti comici come dei racconti, ma il riscontro c’è, perché il libro è stato accolto come un’operazione di narrativa. La definizione di “sette atti comici” mi fa sorridere, è una scelta che abbiamo inserito per controbilanciare la cupezza della copertina, che abbiamo voluto molto sobria ed elegante, ma allo stesso tempo volevamo che si percepisse che si tratta di un libro divertente, non serioso né plumbeo.
In fondo questo gioco di opposti è la caratteristica della tua scrittura, che coniuga una comicità molto pronunciata alla capacità di andare a fondo, anche in modo impietoso, nella realtà che racconta. Questa cosa rende il tuo teatro un po’ un “unicum” nel panorama italiano. Per altro chi lavora sul comico con risultati come i tuoi è spesso tentato dalla strada televisiva. La comicità televisiva, però, tende spesso a incanalarsi su binari semplici, persino triviali, come se venisse assimilata dal linguaggio del piccolo schermo. Per te non è stato così: i primi esperimenti televisivi, come ad esempio Buttafuori, una serie in pillole dalla comicità surreale, sembrava addirittura sabotare il linguaggio della tivvù.
Infatti andò in onda ad agosto, di venerdì alle venti, insomma in un orario impossibile. Vedemmo poi nelle curve d’ascolto che c’era un picco in Val d’Aosta, regione per cui sviluppammo un improvviso amore perché seguiva massicciamente Buttafuori. Era un esperimento completamente folle, che solo Andrea Salerno poteva promuovere e produrre. Ci divertimmo tantissimo, ma era per l’appunto un esperimento. E a dirla tutta anche Boris nacque così.
Visto che citi Boris, dove gli autori sono messi in scena, proviamo a scendere nella cassetta degli attrezzi dell’autore. Come capisci l’effetto comico della tua scrittura? Funziona un po’ come per i tre autori di Boris?
Be’ sì, magari nel nostro caso si trattava di autori molto meno ricchi di quelli che abbiamo messo in scena in Boris, però il contesto è quello. La comicità, nel nostro caso, era dovuta soprattutto alla libertà editoriale. Boris ha goduto di una libertà perfino eccessiva, qualche volta eravamo noi a dover noi frenare. E questa è una cosa preziosissima. Per lo più l’approccio editoriale pone dei limiti, ti dice questo sì e questo no, e tutto diventa molto più complicato. Non voglio semplificare eccessivamente, ma è chiaro che la comicità si combina in qualche modo anche con la cattiveria, cioè con la libertà di poter dire tutto. Ma anche questo, secondo me, va fatto nella misura giusta: tanto rifuggivamo il buonismo, quanto consideravamo il cattivismo sgradevole. Bisogna trovare davvero una cifra giusta, soprattutto autentica, che sia trascinante e allo stesso tempo risponda allo sguardo che abbiamo sul mondo.
Questo è forse l’indicazione più legata a quello sguardo che tu chiami “sociologico”. Però nella tua scrittura non manca un’attenzione all’intimità. Ad esempio in Figli, un testo nato da un invito che Annalena Benini ti ha rivolto, che quindi ha avuto prima una gestazione come articolo di giornale ed è poi diventato un testo, portato in televisione ancora una volta da Mastandrea.
Adesso sto per girare un film proprio quello stesso tema. Il film è tratto dal monologo che è tratto dall’articolo…
Insomma, la scrittura è come il maiale, non si butta niente…
Be’ sì, io sono per tenere tutto (magari un po’ in polemica con la mia agente letteraria). Valerio Mastandrea, rispetto a La linea verticale, disse che dovevamo farne anche un profumo, visto che c’era la serie, il libro e si parlava di una possibile versione teatrale.
Figli va a pescare nella tua storia personale. La tua biografia è un motore importante per te?
Nel caso di Figli devo ammettere che l’esperienza personale è servita per la conoscenza della materia. È sempre utile, in scrittura, sapere bene di che cosa si parla. Quando l’ho scritto la prima volta l’ho trovato molto amaro e un po’ mi vergognavo, perché non volevo dare un segnale così disfattista e cupo. Poi invece mi sono reso conto che c’era stata un’adesione vasta e istintiva, che mi ha molto stupito. Effettivamente è un tema che non riguarda solo il singolo, ma racconta anche delle enormi difficoltà del nostro tempo e del nostro paese, l’Italia, dove le famiglie non sono molto aiutate. Un secondo figlio, per quanto possa suonare strano paragonarlo ad una “bomba”, in questo contesto può essere la cosa che fa deflagrare tutto. E questa è una dimensione tragicomica, perché c’è un lato difficile ma, poiché le cose si possono leggere attraverso tante chiavi, c’è sicuramente una chiave comica potente.
Il Mattia Torre drammaturgo è stato anche uno sperimentatore linguistico. Per questioni di difformità lo spettacolo 456 non è entrato nel volume edito da Mondadori, che raccoglie soltanto i monologhi, ma quello spettacolo è un snodo importante della tua scrittura, proprio grazie a delle invenzioni linguistiche allo stesso tempo esilaranti e complesse.
Lì siamo ben oltre l’esperimento, siamo sull’orlo del baratro. Ho avuto molta paura prima della prima, perché raccontare una famiglia così estrema che si esprimeva in una lingua altrettanto estrema non era una cosa semplice. Poi, anche in quel caso, è avvenuto un piccolo miracolo: ho visto che la gente, dopo un po’ che lo spettacolo andava avanti, si agganciava a quella lingua strana. Addirittura ne rimaneva contagiata e finiva per parlare, a fine spettacolo, in quel modo assurdo. Anche in quel caso il merito è anche degli attori, straordinari, perché il lavoro è stato fatto assieme a loro. Ma pian piano ci siamo resi conto che stava emergendo un mondo che ci piaceva sempre di più. Alla fine eravamo tutti molto felici, io per primo, perché avevamo corso un rischio ma mi è molto piaciuto farlo.
Anche in quel testo ci sono i vizi e le virtù dell’Italia, il suo essere un paese gerontocratico e perfino mortifero. I tre numeri del titolo, non a caso, fanno riferimento ai loculi comprati dai genitori per sé stessi e per il figlio, utilizzando tutti i risparmi che avrebbero (forse) permesso al figlio di fuggire da quella condizione di stasi. Ma sono le invenzioni linguistiche, unite alle battute, a rendere questo panorama allo stesso tempo comico e raggelante. Ne è un esempio il “sugo perpetuo”, rimasto sul fornello acceso dalla dipartita della nonna, in una sorta di abbraccio urticante tra cibo e morte, pilastri del familismo mortifero che racconti nella pièce. Tu citavi il lavoro con gli attori, imprescindibile per dare corpo alla neolingua del testo. Più in generale, quanto sono stati importanti per te gli incontri, le persone con cui hai collaborato?
Sono stati fondamentali. Soprattutto nei monologhi, perché in quel caso l’attore è tutto. Le mie regie sono sempre molto essenziali: ci sono le musiche e le luci, che hanno una funzione molto importante, ma tutto il resto è nelle mani dell’attore. Io lavoro molto sull’agilità, sull’assenza di orpelli o di strumenti inutili. È tutto nel testo e nell’attore. E quindi all’attore è demandato un lavoro enorme e gli attori che hanno lavorato con me hanno sempre aggiunto qualcosa di essenziale. Io stesso ho imparato con loro come dirigere un singolo attore in scena, cosa non facile. È stato un processo virtuoso. Io agli attori devo moltissimo. Per altro, poiché provengo da una dimensione di compagnia, per me la condivisione con gli attori è la prima cosa e la più importante. È quella che può innescare un processo molto bello.
Quando si lavora più volte con gli stessi attori, come nel tuo caso con Aprea e Mastandrea, si comincia un po’ a scrivere pensando a loro?
Sì, assolutamente. C’è una contaminazione, perché conosci le corde del tuo attore. A volte, è vero, è anche divertente spiazzarli e vedere come reagiscono, ma molto spesso è utile e bello andare sul sicuro, sapendo che quell’attore può farti un numero pazzesco su un certo tema.
I sette atti comici hanno tematiche diverse, ma c’è qualcosa che li accomuna: un certo gusto per l’iperbole. Si parte da un dato, spesso molto quotidiano e vicino a noi, ma il ragionarci sopra, lo svisceramento di quel pensiero, porta a delle vette iperboliche molto comiche ma altrettanto amare. Qual è la scintilla, l’innesco, per la scrittura di un tuo pezzo?
Questa è una questione molto interessante, perché il fenomeno delle digressioni è affascinante ma anche pericolo, dato che può appesantire il testo. Io tendo spesso a sviare dal racconto, ad aprire delle bolle che poi mi capita spesso di tagliare, perché altrimenti rischierei di fare spettacoli di sole digressioni, che non procedono mai. D’altra parte credo che una delle abitudini più interessanti della scrittura, quando è praticata nel tempo, è quella di saper individuare nella realtà cosa è sviluppabile, cosa può essere interessante da raccontare e declinare in chiave comica o tragicomica. Ci sono alle volte cose che all’inizio sembrano divertentissime, poi però andando avanti non funzionano (o non le sai far funzionare tu), e altre cose che invece esplodono, per le quali avverti già da subito la possibile empatia del pubblico. Però è vero, la digressione può essere molto potente, ed è qui che risiede la grande libertà della scrittura, che a teatro è ancora più forte, perché ci ritroviamo in una dimensione molto più autarchica, dove non hai praticamente nessuno ostacolo, ad esempio produttivo; quindi puoi fare davvero quello che vuoi. Semmai bisogna imparare a contenerla un po’, questa libertà.
I tuoi testi hanno fatto un viaggio dal teatro alla pagina scritta. Questo ha significato rimaneggiarli? E anche nelle messe in scena come fai, tendi a riscrivere i tuoi testi, a cesellarli di volta in volta?
Questo è un lavoro che, in realtà, tendo a fare prima che lo spettacolo vada in scena. Ho una rosa di lettrici e lettori molto severi, a cui faccio leggere il testo quando è pronto: a seconda delle reazioni cerco di capire se sto andando sulla strada giusta. Una volta mi sono ridotto talmente all’ultimo, e mi sono ritrovato a fare dei periodi immersivi nella scrittura, che alla fine non capivo più nulla. A quel punto se qualcuno mi avesse detto “guarda, non ci siamo”, penso che avrei buttato tutto. Comunque sia avere il primo ok di queste persone, a partire da mia moglie, è per me già un passo importante. Poi torno sul testo e scendo molto nel dettaglio, lavoro maniacalmente anche sulle singole virgole, perché quando arriva il giorno della prima deve essere tutto perfetto.
E succede? Non c’è stato uno spettacolo che ti è in qualche modo scappato di mano?
Sì, è successo e per fortuna in meglio. Parlo di 456, perché è un lavoro che non avrei mai detto che potesse piacere così. Fu una sorpresa enorme. Ma deve essere sempre un po’ una sorpresa. Non arrivo mai a dire “questo spettacolo è perfetto”; posso arrivare a un punto in cui mi dico “questo è il massimo che posso fare ed è quanto desideravo”. A quel momento devo arrivarci a tutti i costi. Dopodiché mi affido al pubblico, al destino, a quelle strane energie che soprattutto a teatro si creano – anche, ahimè, di sera in sera, perché il teatro cambia ogni volta. Ma proprio per questo deve esserci lo stupore e, per fortuna, almeno finora c’è sempre stato e in positivo.
Tu dicevi che diffidi tanto del “buonismo” che del “cattivismo”. Ma pensi che serva un po’ di cinismo, o almeno di disincanto, per attivare uno sguardo comico ma che allo stesso tempo faccia presa sul mondo?
Penso di sì. C’è una cosa che mi piace molto, che ho letto su una recensione de La linea verticale: laddove c’è cinismo c’è anche una profonda tenerezza per i personaggi. Nessuno ne esce ingiustamente massacrato. Il cinismo è sicuramente uno degli strumenti, ma va bilanciato. Certo non è un’operazione che si può fare a tavolino, è qualcosa di più istintivo, sul quale magari ci si può lavorare. Il cinismo assoluto, invece, può risultare pesante: esistono cose che si basano su quello, il cui unico obiettivo e provocare e disturbare, ma senza un controcanto non funziona davvero. La comicità poi è una cosa complessa, molto particolare, io anche fatico a capirci qualcosa. Se c’è un limite che cerco di non superare è quello tra un linguaggio comico fine a sé stesso e quello che vuole raccontare qualcosa. La satira televisiva, ad esempio, è un linguaggio un po’ a rischio, soprattutto quando è reiterata: innanzitutto rischia di diventare qualcosa di ordinario, ma soprattutto rischia di legittimare davvero tutto. È uno strumento allo stesso tempo rassicurante e fuori binario. Lo stesso può succedere alla comicità. Viviamo un presente talmente complicato, e anche doloroso, che l’intrattenimento puro è qualcosa su cui fare dei ragionamenti. Il puro svago un po’ inquieta.
Intervista realizzata a Radio3, per Fahrenheit, il 14 giugno 2019, riascoltabile in podcast sul sito della trasmissione.