H o un ricordo, forse spurio almeno in parte, della Roma degli anni Ottanta. Sono in macchina con mio padre, avrò sei o sette anni. Percorriamo via del Corso, oggi rigorosamente chiusa al traffico privato, e mio padre – forse per fermarsi a prendere la sigarette o forse per parlare velocemente di qualcosa con mia madre, che lavorava a piazza San Silvestro – accosta la macchina e la lascia dove non dovrebbe. Di punta, un po’ sbilenca, su un angolo di Piazza Colonna, all’epoca carrabile non soltanto per i membri del governo. Qualcuno si ricorderà che un tempo, attorno alla colonna coclide voluta dall’imperatore Marco Aurelio per celebrare le sue vittorie sulle popolazioni germaniche, era possibile parcheggiare con la propria auto. Per chi è troppo giovane per ricordarlo c’è sempre la possibilità di consultare internet, dove si trovano foto che possono sembrare pazzesche a un occhio contemporaneo ma che erano la norma fino a pochi decenni fa. Il parcheggio in questione, tuttavia, non era di quelli consentiti, era piuttosto una piccola licenza presa nei confronti del codice della strada, licenza alla quale per altro tutti erano abbastanza abituati. Tanto è vero che, stando a quanto ricordo, mio padre scese dall’auto e disse al vigile che era di fronte: “Che per favore mi ci dà un’occhiata? Sto via soltanto cinque minuti… c’è anche dentro il ragazzino”.
Questo breve racconto può far sorridere, o magari accapponare la pelle, ripensando alla dimensione caotica e per certi versi anarchica in cui versava Roma non troppo tempo fa. E però contiene un “germe” utile a comprendere la dimensione di chiusura drammatica in cui è sprofondata la capitale negli ultimi anni. La città di oggi, rispetto a quella di un tempo, è probabilmente meno caotica – o forse nemmeno troppo – ma è decisamente più incattivita. Uno dei tanti motivi è che ai disservizi di una città ingestibile si sta sommando una metamorfosi del territorio che sta espellendo dal centro e dalle zone intermedie i luoghi di una socialità creativa e non orientata al consumo. Roma ha una storia lunga, articolata e molto vivace di spazi artistici, creativi e di attivismo politico, dalla “cantine” degli anni Sessanta e Settanta ai centri sociali degli anni Novanta, fino alla miriade di spazi indipendenti degli anni Zero. Una storia che si interseca con quella dell’associazionismo e che oggi si sta sgretolando pezzo a pezzo. Basti pensare ai luoghi che hanno rischiato la chiusura negli ultimi mesi, dall’Angelo Mai a Caracalla, luogo di innovazione tra musica e teatro, alla Casa internazionale delle donne a Trastevere, legata alle vicende del movimento femminista. A queste realtà si aggiungono le chiusure effettive del Teatro dell’Orologio, nel Rione Ponte, o quella del Rialto dietro Portico d’Ottavia, nel cui stabile aveva sede anche il Circolo Gianni Bosio, prezioso archivio di musica popolare e tradizione orale. Sono realtà molto diverse tra loro, ma tutte sono state espulse dal centro cittadino o rischiano di esserlo.
Le città cambiano, anche la città eterna. Che luoghi chiudano e altri nascano fa parte del normale avvicendamento della vita e delle generazioni, ma quello che sta mutando oggi radicalmente a Roma è il rapporto che viviamo con lo spazio della città. Sempre più privato, anche quando è amministrato dal pubblico. Sempre più funzionale a qualcosa. Sempre meno inclusivo. L’esperienza del Teatro Valle, occupato proprio a giugno di sette anni fa, pur con tutte le sue criticità, ha significato avere per tre anni un luogo in pieno centro dove si poteva anche solo sostare a parlare. Dove si poteva curiosare di prove teatrali in corso o partecipare a un’assemblea. Anni prima un altro spazio a getto continuo era stato il Rialto, ma anche chi non condivideva o partecipava al mondo uscito fuori dalle occupazioni poteva seguire la programmazione dell’Orologio o andare a una presentazione della libreria Croce. Oggi, in quella stessa area, si può sostare di fronte a un negozio di scarpe o al massimo sedersi a bere qualcosa in un locale alla moda.
Roma, solo pochi anni fa, aveva un’idea completamente diversa di sé stessa. E i cittadini avevano una diversa idea di quanto gli appartenesse il territorio in cui vivono, e viceversa. Il “germe” che si porta dietro la storiella iniziale è tutto qui. A quel racconto si potrebbero aggiungere mille altri aneddoti politically incorrect, che danno conto di questa metamorfosi: dai ragazzi che scavalcavano il muro di cinta di Caracalla per andare a far l’amore ai loro genitori che, a loro volta, lo avevano fatto tra le rovine del foro romano; da chi si sedeva a suonare fino a tardi sui gradini della fontana di Santa Maria in Trastevere alle signore che “capavano la verdura” sedute in strada; fino ai ragazzini che si facevano i gavettoni con l’acqua delle fontane di Piazza San Pietro, sideralmente lontana dal presidio antiterrorismo permanente che è diventata. Era una città migliore? Non è detto. Di certo però lo era la “qualità dell’aria”. La grana dei rapporti sociali. Ovviamente non sto dicendo che dovremmo tutti tornare a farci il bagno nelle fontane, anche perché la società e il turismo di massa non consentono più quel rapporto disinvolto con il patrimonio. Ma tornare a pensare e vivere lo spazio urbano come teatro della vita comunitaria, anziché come un luogo di attraversamento e consumo, quello potrebbe essere un punto di partenza.
Roma, solo pochi anni fa, aveva un’idea completamente diversa di sé stessa.
Può sembrare assurdo accostare aneddoti magari goliardici, ma comunque poco civili rispetto agli standard odierni, alle realtà culturali che operano a Roma. Forse è così, ma un’iperbole simile è utile a rendere visibile la tentazione del gioco degli opposti che da sempre caratterizza il dibattito attorno alla politica culturale città. Uno dei motivi per cui gli spazi chiudono è che non sono a norma o non lo sono completamente. Nell’epoca della narrazione legalista degli “onesti”, si tratta di una macchia insopportabile. Eppure comincia a essere evidente anche ai sostenitori del legalismo che la burocrazia kafkiana di Roma non consente quel purismo formale a cui pure sarebbe giusto tendere. A volte per colpa della natura caotica dell’amministrazione capitolina. È il caso della famosa delibera Tronca, che ha revocato le assegnazioni di spazi a canone agevolato a tutte le realtà che non erano in regola con le carte: peccato che in molti casi l’ingarbugliamento delle carte partisse proprio dagli uffici capitolini e non dalle associazioni assegnatarie. Questo è successo, ad esempio, nel caso della mancata o irregolare riscossione dei canoni d’affitto, che tante polemiche ha suscitato. E che ha prodotto richieste di arretrati milionari, ricalcolati sulla base dei prezzi commerciali e non più sul canone agevolato, come vuole la delibera per chi non è a norma. Nascono da qui gli 800mila euro chiesti alla Casa internazionale delle donne, ma anche gli oltre centomila chiesti due anni fa al Grande Cocomero – lo spazio riabilitativo per minori con disturbi psichici nato da un’idea di Lombardo Radice – o il milione di euro chiesto a Giovanna Marini e alla sua scuola di musica popolare di testaccio.
A questo punto un lettore non romano potrebbe essersi un po’ perso, convinto di essersi addentrato in un girone infernale con le sembianze di un ufficio pubblico come accade al protagonista di Diavoleide di Bulgakov (mentre il lettore romano avrà già alzato le spalle in modo sconsolato). Occorre tuttavia un altro po’ di pazienza nella lettura, perché il diavolo, si sa, si annida nei dettagli. Paolo Tronca, che ha guidato Roma come commissario, è un tecnico e come tale non è ascrivibile a una fazione politica; ma attorno agli effetti della sua delibera si sono saldate le responsabilità di un’intera classe politica che non è più in grado di governare i processi di questa città. Centrosinistra, Centrodestra e ora Cinque Stelle, che hanno amministrato la città negli ultimi dieci anni, hanno tutti contribuito al vuoto di immaginazione politica che ha prodotto questo stato di cose. E poiché il vuoto in politica viene subito riempito, la politica culturale è stata subito colonizzata dal paradigma di mercato. Nel dibattito pubblico è prevalsa l’idea che ogni assegnazione agevolata fosse frutto di un privilegio, senza tenere in considerazione il ricasco in termini di servizi, sociale e culturali, di cui ha beneficiato il territorio senza spendere soldi. E pian piano si è annidata nelle nostre teste la narrazione liberista che dice che ogni risorsa pubblica deve essere messa a reddito e che, quando ciò non avviene, siamo di fronte a un danno per l’amministrazione. L’anno scorso Giovanna Marini reagì così alla notizia del recupero crediti che aveva colpito la sua scuola:
Noi siamo sempre stati in regola, abbiamo fatto lavori di ristrutturazione che hanno consentito all’edificio di restare in piedi, per i quali peraltro stiamo pagando un mutuo. La scuola è nata nel 1976, allora via Galvani era un tappeto di siringhe, invivibile. Noi siamo stati tra i primi a riqualificare il Testaccio.
Neppure essere in regola, dunque, basta per mettersi al riparo dal cambio di paradigma – anche perché nel frattempo la narrazione legalista, occupando ogni spazio semantico, non lascia più intravedere la possibilità che i beni pubblici possano essere beni comuni, prima ancora che beni da mettere a reddito. Si dirà che se, a ogni buon conto, le situazioni irregolari vanno sanate. Giusto. Ma occorre capire se per mettere ordine nella giungla di burocrazia è giusto smantellare una rete di spazi sociali, culturali, associativi che sono stati per decenni l’unico tessuto partecipativo di una città chiusa nella morsa di interessi privati da un lato e di istituzioni pubbliche poco accessibili dall’altro.
A maggio, mentre la vicepresidente della commissione cultura Gemma Guerrini (la stessa che a febbraio aveva definito “feticismo” la scelta dei ragazzi del Cinema America, altra ex occupazione, di portare “vecchi film” in piazza a Trastevere) portava avanti la mozione contro la Casa delle Donne, il vicesindaco Luca Bergamo stoppava la chiusura dell’Angelo Mai, promettendo una moratoria per gli spazi sociali incappati nel delirio burocratico che già le prime sentenze del Tar avevano cominciato a smontare. Insomma, anche durante l’amministrazione del “cambiamento” Roma rinnovava la sua tradizionale quanto proverbiale capacità di muoversi in ordine sparso. Nel frattempo, in quello stesso mese di maggio, al Cinema Palazzo una comunità di persone si stringeva attorno a Marcello Fonte, reduce dalla vittoria a Cannes come migliore attore protagonista per Dogman. Chi è passato dalle parti del centro sociale di San Lorenzo quella sera o le successive è stato investito da un’energia fortissima, di quelle che si respirano quando si vince uno scudetto, perché anche se il premio meritatissimo era andato a lui, a “Marcellino”, la frase che si sentiva dire più spesso si concludeva con un bel pronome plurale: “abbiamo vinto noi!”.
Il film di Matteo Garrone è uno dei più bei film degli ultimi anni. Intenso, commovente, duro. E molto è dovuto alla faccia e alla bravura di Marcello Fonte. Marcello è un attore atipico che proviene dalle esperienze del Valle Occupato e del Cinema Palazzo. Il fatto che un pezzo di queste realtà piombasse dalla marginalità istituzionale in cui viene solitamente arginata a una passerella internazionale ha galvanizzato un senso comunitario che è forse difficile comprendere per chi non lo vive quotidianamente. Ma che è il segno di quanto ancora, nel mondo culturale della capitale, sia viva l’idea di far parte di un tessuto comune. Matteo Garrone, oltre ad essere il miglior regista italiano, ha uno sguardo particolarmente sensibile per quanto riguarda gli attori (e cioè, le persone).
Il progetto di un film sul “canaro” della Magliana lo aveva da tredici anni, ma ha scelto di realizzarlo solamente quando ha trovato l’attore giusto, la faccia giusta. Che questa faccia provenga da un circuito d’arte indipendente non sorprende chi conosce il cinema del regista romano, che in un’intervista ha raccontato come in passato sia capitato che i giornalisti confondessero gli attori che utilizza nei suoi film per “gente della strada”, prendendola come una scelta neorealista, semplicemente perché non conoscevano il contesto teatrale o di cinema indipendente da cui provenivano. Garrone, per altro, nel film del 2000 Estate romana aveva raccontato l’onda lunga delle cantine della capitale, in una sorta di omaggio al mondo di artisti indipendenti e anarcoidi che suo padre, Nico, aveva raccontato per anni sulle pagine di Repubblica. Nico Garrone è stato uno dei critici più curiosi e acuti e, negli ultimi anni della sua carriera è stato tra gli intellettuali che hanno contribuito all’emersione di tanti nomi che muovevano i loro primi passi nel circuito indipendente e che oggi rappresentano una punta di eccellenza del nostro teatro, come Lucia Calamaro, Massimiliano Civica, Daria Deflorian, Daniele Timpano, Eleonora Danco, Andrea Cosentino, la coppia Antonio Rezza – Flavia Mastrella che quest’anno a Venezia ha vinto il leone d’oro.
Se la si guarda dal basso della sua non ufficialità, Roma negli ultimi decenni ha prodotto una generazione di artisti di grandissimo talento e valore, un fenomeno piuttosto fuori dall’ordinario sia per qualità che per quantità. Una città che ha a cuore se stessa valorizzerebbe questi talenti e cercherebbe di stabilizzare i luoghi dove quest’onda si è sviluppata, cercando di mantenere viva l’alchimia di socialità che sta alla base di tutto questo. Quale sia stata invece la scelta implosiva della capitale lo abbiamo già visto. Sì, perché se da un lato il rapporto che abbiamo con il territorio urbano si privatizza sempre di più, dall’altro lato Roma è anche la città dei palazzi del potere, anche a livello di istituzioni culturali. Non si può dire che a Roma non si spendano soldi pubblici per la cultura. Anzi, c’è un profluvio di iniziative e rassegne, di auditorium e case culturali, che sfornano manifestazioni culturali in continuazione. Qui è nato il laboratorio dell’Estate Romana, e se è vero che il ragionamento che Nicolini faceva sull’effimero andrebbe oggi raddrizzato rispetto alla deriva da “eventifici” che stanno prendendo le iniziative pubbliche, è altrettanto vero che quell’intuizione ha avuto il merito di far detonare la creatività della città in un momento in cui stava combattendo contro un tipo di cupezza diversa da quella odierna, quella degli anni di piombo. A Roma insomma non manca la vocazione del fare, ma questa vocazione nel tempo si è cristallizzata in un vizio drammatico: la mancanza di sussidiarietà.
Gli spazi sociali, le iniziative che nascono dal basso, dovrebbero essere considerate un patrimonio della città e della cittadinanza, non il risultato di un’intercessione da parte della politica.
Roma sta vivendo insomma una crisi di accentramento. Il settore pubblico, chiuso nella logica dell’evento, non riesce a costruire luoghi che trattengano, invece di intrattenere (per citare la distinzione tra “teatro” e “spettacolo” cara al Maestro Morg’hantieff). I teatri, i musei, gli auditorium fanno programmazioni magari di qualità, ma non sono posti dove si può vivere la città: si può solo transitare, si può solo consumare. Storicamente, d’altronde, questa funzione così cruciale per la creatività e per la socialità a Roma l’hanno svolta i corpi intermedi dell’associazionismo. In tempi di vacche grasse questo strato intermedio veniva tirato dentro il sistema città, un po’ perché le istituzioni ne assorbivano le energie, un po’ perché si lasciava che gli spazi sociali esistessero e si autoalimentassero. Ma in tempi di crisi, si sa, la redistribuzione delle risorse si inceppa e a qualcuno può venire la tentazione di fare cassa con qualunque cosa sia possibile farlo. O, semplicemente, si può perdere la capacità di guardare alla città in una prospettiva complessiva.
La cosa paradossale, infatti, è che nessuno abbia mai pensato davvero pensato a mettere a frutto questo patrimonio di spazi, di idee, di energie e socialità – come è avvenuto in altre città europee come Berlino, Zurigo, Praga – facendo crescere le associazioni normativamente ma preservando la loro indipendenza. Consolidare questo strato intermedio significherebbe renderlo più forte e non rischiare, a ogni tornata elettorale, di vedere azzerati percorsi di venti o trent’anni. Ma significherebbe anche, da parte della politica, scegliere di mettere definitivamente da parte quel diritto di vita o di morte che oggi esercita con burocrazia e finanziamenti perennemente instabili. Perché gli spazi sociali, le iniziative che nascono dal basso, dovrebbero essere considerate un patrimonio della città e della cittadinanza, non il risultato di un’intercessione da parte della politica.
Per concludere, ancora uno sguardo al passato. Nel giugno del 1958, mentre vagabondava per la città intento a prendere appunti per un film che si sarebbe chiamato La dolce vita, Ennio Flaiano scriveva così: “In questi ultimi tempi Roma si è dilatata, distorta, arricchita. Gli scandali vi scoppiano con la violenza dei temporali d’estate, la gente vive all’aperto, si annusa, si studia, invade le trattorie, i cinema, le strade, lascia le sue automobili in quelle stesse piazze che una volta ci incantavano per il loro nitore architettonico e che adesso sembrano garages”. Questo frammento, raccolto ne La solitudine del satiro, restituisce un Flaiano affascinato ma anche un po’ scocciato dalla Roma “festaiola” che Fellini avrebbe immortalato nel film scritto assieme, così diversa da quella dei primi anni Cinquanta. Se lo seguissimo su questo terreno, magari mitizzando a nostra volta gli anni Sessanta e Settanta, finiremmo per cadere nella mise en abyme dei personaggi di Woody Allen in Midnight in Paris, dove ognuno guarda con nostalgia all’epoca precedente. Ma c’è un aspetto di cui Flaiano, da osservatore acuto qual è, resta affascinato ed è l’elettricità che c’è nell’aria, quella “voglia di annusarsi” che renderà Roma celebre, piacevole da vivere, bella da guardare.
Flaiano guardava il futuro della città che si faceva giù presente, e ne coglieva il senso più profondo. Oggi, che il presente di Roma sembra cupo e incattivito, per edificare un futuro desiderabile di questa città serve quella stessa sensibilità, serve cioè individuare tutti quei luoghi, quei gruppi di persone, quei progetti dove c’è voglia di annusarsi e – parafrasando Calvino – farli durare e dargli spazio. È l’unica soluzione per ricostruire una socialità che dia spazio al potenziale creativo della città e alle aggregazioni sociali che possono invertire la rotta della città-centro commerciale. Perché nella città santa l’inferno e il paradiso convivono da sempre, ma oggi il rischio che il primo prenda definitivamente il sopravvento sul secondo sembra farsi sempre più concreto.