Federico Sardo
/ Immagine: MR 808 interactive, della Sonic Robots
4.1.2021
Sogni elettronici
Un’intervista al critico musicale Simon Reynolds sul suo ultimo libro Futuromania.
Federico Sardo (Milano, 1985). Giornalista culturale, ha collaborato con molte testate, tra cui per anni Resident Advisor. Scrive soprattutto per Esquire e VICE ed è una delle voci principali di Radio Raheem.
Simon Reynolds è il più importante critico musicale contemporaneo. Non è stato né il primo né l’unico a farlo, ma il suo modus operandi da storico applicato a tendenze del presente o del passato prossimo, l’importanza che dà al mettere le cose in un contesto storico e sociale, il cercare traiettorie comuni in grado di cogliere lo spirito che aleggia su un determinato periodo di tempo, sono diventati una cifra riconosciuta.
Oltre a essere stato tra i primi ad approfondire il sessismo del rock (in The Sex Revolts, scritto con Joy Press nel 1995) e a raccontare dall’interno la cultura rave (Energy Flash, 1998), Reynolds è anche un formidabile inventore di termini destinati a entrare nel vocabolario di chi si occupa di musica. È stato il primo a parlare di post rock, ha individuato il concetto di hardcore continuum all’interno dei mutamenti delle musiche elettroniche inglesi più selvagge, e in un articolo di fine 2019 ha battezzato conceptronica quel tipo di musica elettronica molto legata a esplicite teorizzazioni sociopolitiche che ha dominato la fase finale dell’ultimo decennio.
Se lavori come Postpunk o EnergyFlash non fossero bastati, a conquistargli una volta per tutte la nomea di “scrittore di musica” per eccellenza è stato il suo libro del 2011 Retromania, nel quale raccontavala stagnazione, il revival e la fine delle spinte futuristiche che sembravano caratterizzare la cultura popolare di quegli anni.
Ora esce, sempre per minimum fax, una sua raccolta intitolata Futuromania: sogni elettronici da Moroder ai Migos. Tornando sul luogo del delitto, Reynolds raccoglie una serie di scritti dedicati a quei momenti, dagli anni Sessanta a oggi, in cui la musica ha invece rappresentato visioni nuove e incarnato rivoluzioni e spinte verso l’ignoto. Dentro ci sono, oltre a una prefazione e a una postfazione scritte ex novo, articoli apparsi su varie testate tra il 1987 e il 2019. Si va dalla “I Feel Love” di Donna Summer e Giorgio Moroder alla trap, passando per i Kraftwerk, la Warp, Burial, l’industrial, Brian Eno, il massimalismo digitale, la dancehall, Timbaland, la scena rave UK, i Daft Punk e molto altro.
Al centro, l’epopea dell’hardcore continuum delineata su The Wire nel corso di tutti gli anni Novanta (e oltre). In chiusura, la conceptronica. Con questa raccolta come sfondo e contesto, ho voluto interrogare Reynolds sul presente e sul futuro della musica e del mondo in cui viviamo.
Quando stavi promuovendo il tuo libro precedente, PolvereDiStelle (minimum fax, 2017), che era incentrato sul glam rock, mi dicesti che ti sarebbe piaciuto molto fare un libro sul presente, ma che c’era un problema: chi compra libri di musica non è giovane e non è molto interessato al presente. Questo nuovo Futuromania lo possiamo considerare un libro sul futuro? O forse è più un libro su quello che consideravamo “futuro” in passato?
Intitolare il libro Futuromania è un riferimento scherzoso a Retromania, e forse serve a stemperare un po’ la cupezza di quel libro. Un altro modo di vederla è che è un libro i cui contenuti aiutano a spiegare le aspettative sulla musica, e le speranze a riguardo, che mi hanno portato a scrivere un libro pervaso da un forte senso di delusione come era Retromania.
Futuromania non è, se non molto marginalmente, un libro su dove stia andando la musica, o su come è probabile che si sviluppi nel futuro. È una raccolta di articoli su musiche che davano l’impressione, a chi le faceva e ai fan, in un particolare momento nella storia, di essere futuristiche o di mostrare come sarebbe stata la musica nel ventunesimo secolo. Che si tratti di “I Feel Love” di Donna Summer e Giorgio Moroder nel 1977, o di pezzi techno e jungle negli anni Novanta, quei suoni sembravano in qualche modo lanciati nel presente dal futuro. È diventata un’idea consapevole con “Terminator” uscita a nome Metal Heads, un alias del pioniere della drum and bass Goldie. L’idea era che il pezzo fosse come il robot assassino del film, che arriva dal futuro terrorizzando l’umanità. Goldie proponeva anche una somiglianza tra i suoni striscianti e mutanti che creava attraverso i sample e il corpo in metallo liquido del robot in Terminator2.
Ma la mia opinione è che le idee sul futuro ci dicano più del presente in cui vengono formulate che non quanto predicano quello che davvero succederà nel futuro, questo sia in senso politico che tecnologico o artistico. È un’idea fondamentale della fantascienza: riguarda più il presente che qualsiasi proiezione di futuro, anche se è ambientata nel futuro. Il futuro è un riflesso di ansie e desideri contemporanei, o una spinta all’estremo di trend contemporanei.
Come hai deciso quali articoli inserire nel libro e cosa lasciare fuori?
È stato facile: volevo coprire l’ambito più ampio della musica elettronica che mi fosse possibile usando i miei lavori, senza coprire solo il periodo techno-rave ma anche la musica elettronica non da ballare. Quindi ci sono pezzi sull’“epopea dei synth analogici” degli anni Settanta dei Tangerine Dream e Klaus Schulze, c’è materiale sulla musica industrial, ci sono anche pezzi sulle avanguardie della musica concreta e dell’elettronica sperimentale, con compositori come Bernard Parmegiani. Oltre a scegliere i pezzi per quello di cui parlavano, ho anche scelto pezzi che mi piacevano per come li avevo scritti o perché esprimevano delle idee in modo lucido. Ci sono dei buchi, non ho molto materiale sulla house o sulla musica giamaicana, ma chi legge il libro può trovare una buona indagine sulla storia del suono elettronico nella musica pop e non dai tardi Sessanta fino al 2020.
Un tema cruciale del libro è che cosa succede quando quello che prima era futuristico diventa un’altra cosa del passato: qual è la tua risposta?
Non so se ci sia una risposta semplice, ma penso che l’idea di “futuristico” sia diventata un’immagine fissa, associata a certe sonorità e a certe ritmiche, è diventata un cliché. Trame di synth fredde e scintillanti, ritmica meccanica… E ora è un’idea del futuro molto datata. L’idea che ne avevano i Kraftwerk. Ma se uno ci pensa c’era un elemento di futurismo retro anche nei Kraftwerk, negli anni Settanta, perlomeno per quanto riguarda il loro immaginario e i loro punti di riferimento: tutto il discorso sui robot veniva da Metropolis di Fritz Lang, quindi dagli anni Venti. La loro musica però era in effetti avanti sui tempi, trattandosi di sonorità pulite e ritmi sequenziali che sarebbero poi diventati quelli del pop mainstream negli anni Ottanta, e che sarebbero stati adottati nella musica black americana come l’electro o la techno.
Pensi che sia possibile definire quello che dà a un brano musicale un’aura futuristica?
Quell’idea del futuro freddo e della ritmica rigida di una macchina è molto comunemente accettata e anche ormai strasentita, come paradigma della musica futuristica. Quello che è interessante di alcune musiche degli anni Dieci è come hanno rotto con quelle idee; come ha osservato lo scrittore Philip Sherburne, c’è stata un sacco di musica digitale sperimentale incasinata e melmosa. Una specie di abiezione digitale. Per quanto possa anche essere vista come un’eco di idee dell’industrial, del modo in cui pezzi come “Hamburger Lady” dei Throbbing Gristle suonavano assolutamente raccapriccianti (sensatamente, visto che il brano era ispirato alla storia di una vittima di gravi ustioni il cui corpo era così carbonizzato da sembrare un hamburger troppo cotto). Quindi esiste una controstoria del suono elettronico che è sporca, distorta e disgustosa, molto diversa dall’idea di una musica elettronica postumana pulita e serena.
Pensi che sia ancora possibile fare musica che suoni futuristica? E in caso contrario quando è successo? Quando è finito il futuro?
Penso che ci siano persone che fanno cose mai sentite prima. Se poi suonino futuristiche o meno è un altro discorso. Spesso questi suoni non corrispondono alle idee consolidate, usurate e antiquate di musica futuristica. È un po’ un paradosso! Il problema è iniziato verso la fine dei Novanta quando c’è stata un’ondata di revival electro: artisti della scena techno che si rifacevano al suono dell’hip hop dei primi Ottanta, ritmiche semplici di drum machine e basso potente. Poi nei Duemila c’è stata tutta la scena electroclash che era uno strano esercizio di technostalgia, del tutto legata agli anni Ottanta e all’idea di essere finta e plasticosa, deliberatamente sintetica e inautentica. E questo portava anche a un rigetto di tutte le sottigliezze permesse dai software digitali, con un ritorno a suoni rudimentali e predigitali.
Il futuro della musica è solo una questione di nuove contaminazioni o è possibile che venga fuori qualcosa di davvero nuovo? Ma è mai esistito qualcosa di davvero nuovo, o le novità sono solo nuovi incontri tra elementi del passato?
Mi sembra che stiano venendo fuori nuove sonorità dal mondo non occidentale, musiche da ballo africane come il gqom o il kuduro. Anche se il gqom sembra comunque essersi ispirato a techno e house. È una specie di afro-techno ma con l’enfasi del beat in posti diversi, un suono pesantemente percussivo e sobbalzante che evoca negli ascoltatori un’idea tribale, ma fatto da persone hip della città di Durban, e ascoltato dai clubber europei.
Un’altra cosa che penso sia stata nuova e con un sapore di futuro negli anni Dieci è la diffusione dell’autotune e di altre forme di abuso deliberato dei correttori di intonazione o di tecnologie per il suono della voce. Quello ha dato una precisa patina sonora alla musica dell’ultimo decennio: è diffuso dalla top 40 pop a suoni black di strada come la trap, all’afrobeats*, agli artisti sperimentali della conceptronica. La voce è emersa come il campo d’azione di nuove ricerche artistiche. E ancora una volta non corrisponde alle nostre vecchie aspettative di come avrebbe suonato la musica del futuro. È un futuro diverso che non ci aspettavamo.
A questo proposito: che cosa ci stiamo perdendo? Pensi che sia ancora possibile essere sul pezzo? A me sembra che ci sia una quantità impressionante di roba pubblicata ogni giorno su Bandcamp o su Soundcloud che potremmo non sentire mai e che magari è quello che sta cambiando la musica in questo momento.
Sì, c’è troppa musica, e in effetti questo contribuisce a una sensazione di stasi, perché è difficile per qualsiasi brano di stranezza o grandezza sonora avere un impatto quando c’è così tanta altra roba intorno. Le cose si muovevano più velocemente nell’epoca della monocultura, quando i canali per pubblicare erano più stretti. Qualcosa di innovativo poteva velocemente avere un impatto sul mainstream e venire adottato globalmente. È l’adozione di nuove tecniche o suoni a livello di massa che crea la sensazione di un cambiamento. Altrimenti è solo una strana occorrenza isolata, di cui si accorgono poche persone, o che produce cambiamenti in una scena molto limitata. L’innovazione dovrebbe prendere piede, è così che cambia anche il suono radiofonico.
Tu come provi a rimanere aggiornato?
Ho smesso di provarci. Ci sono troppe cose che succedono, e se provi a seguirle tutte finisci per ascoltare un sacco di roba in modo molto superficiale, dando giusto un’ascoltata distratta. Ascolto cose di cui mi parlano, che mi vengono spedite (da etichette o artisti), di cui leggo e che possono avere a che fare con qualcosa di nuovo e interessante… Ma spesso è per puro caso che sento qualcosa che mi sembra davvero nuovo. Ho ascoltato i primi dischi di Future quando ne parlava la critica hip hop e non mi hanno colpito più di tanto. È stato imbattermi anni dopo in radio, in macchina, in “Fuck Up Some Commas”, quando gli early adopter avevano già perso interesse per lui ed erano andati oltre, che mi ha veramente lasciato a bocca aperta. E sicuramente Future ha finito per essere uno degli artisti rap più importanti del decennio e palesemente un innovatore, uno che ha fatto onore al nome che si era scelto.
A volte è meglio aspettare di vedere che cosa arriva in cima, che cosa sceglie e premia il pubblico più ampio, che cosa coglie una corrente di desiderio popolare. Il gusto della gente agisce come filtro.
C’è in giro in questo momento musica che trovi realmente futuristica?
Qualche anno fa ti avrei detto tutto il mumble rap pieno di autotune e il rap che usa gli ad lib come fossero un coro, come una versione percussiva del doo wop: i Migos, Young Thug, Playboi Carti. Da allora quel suono si è stabilizzato e praticamente nel 2019 e 2020 non ha fatto altro che ripetersi. Ho ascoltato alcuni singoli brani UK drill o afrobeats che mi sembrano molto nuovi e freschi, ma se si tratti di “musica del futuro” non lo so. Si tratterebbe di un futuro molto dolce e melodico, nel caso dell’afrobeats.
Quando è stata allora l’ultima volta che qualcosa ti ha fatto proprio dire: “sì, questo è davvero nuovo, mai sentito prima”?
Penso a pezzi come “Alright” e “I’m So Groovy” di Future, “Constantly Hating” di Young Thug, “T-Shirt”, “Slippery”, “MotorSport” e “Top Down On Da Nawf” dei Migos, “Goosebumps” di Travis Scott. È il lavoro sulle voci, lo scenario vocale terrazzato dei Migos, il lavoro estatico e psichedelico sulla grana delle voci.
Un sacco di roba interessante sta venendo fuori da paesi non occidentali, per esempio alcune delle mie cose preferite (e che ritengo più interessanti) in questo momento vengono dall’Indonesia o dall’Uganda, e vedo che la critica fa fatica a coprire tutto il mondo della musica. Le testate mainstream praticamente non ne parlano, mentre comunque di cose occidentali underground avevano sempre più o meno parlato. Ed è un problema. C’è una soluzione?
Penso che un problema della sindrome da “sonorità esotiche” non occidentali sia che noi possiamo entrare in sintonia con i beat, ma tutto il sostrato culturale che sta intorno alla musica non è così facile da cogliere. Una cosa come la footwork, dalle periferie di Chicago, ha avuto un sacco di attenzione hipster, ma era musica pensata per un tipo molto specifico di ballo, una specie di danza da battaglia, con mosse acrobatiche molto particolari. Quello non era un aspetto che si poteva importare o copiare facilmente. Quindi nel giro di qualche anno l’interesse per la footwork è passato, quando non era più una novità. Penso che sia simile con l’interesse per i beat del kuduro o del gqom: non stiamo davvero cogliendo il pacchetto completo che circonda quella musica nel suo contesto originale e che le dà significato e uno scopo sociale. Magari potrebbe costruirsi attorno alla loro importazione una cultura diversa, un po’ come la rave culture inglese ha costruito qualcosa di diverso intorno alla house e alla techno, con vestiti, droghe e rituali diversi… Per ora però non è accaduto.
Se dovessimo assistere alla “fine del futuro” nella musica, sarebbe anche la fine della musica?
No perché la futuribilità o la modernità non sono le sole cose di cui è fatta la musica (o l’arte). C’è anche l’emozione, il senso di connessione… Le canzoni possono essere veicoli di testi interessanti, commento sociale, intuizioni sulla vita o sulla condizione umana… La musica può essere conforto. La musica ambient è un esempio interessante di questa cosa: c’è stato un grande aumento di interesse per ambient e new age negli ultimi cinque o dieci anni, e quella che viene fatta ora non è tremendamente diversa dall’ambient e la new age originali degli anni Settanta e Ottanta. Ci sono differenze ma sono abbastanza sottili. La funzione di base di quella musica è quella di calmare, curare e portare equilibrio alla tua esistenza. Non ha intenzione di essere uno shock o di precipitarsi a tutta velocità nel futuro. In realtà se ha qualche intenzione è semmai la sospensione del tempo. Un assaggio di eternità.
Per quanto mi riguarda sono una persona particolarmente interessata alle idee di futuro e di “suono nuovo”, ma c’è un sacco di gente al mondo che non pensa in questo modo e che usa la musica in modo diverso.
Qualche tempo fa ho letto un’intervista con una persona importante nel mondo letterario italiano che diceva che, se quando lei era una teenager ci fossero stati i bellissimi videogiochi di adesso, forse non si sarebbe interessata così tanto alla letteratura. È un rischio che riguarda anche la musica? I ragazzini saranno sempre interessati alla musica?
Pensavo che sarebbe successo ai miei figli, che sembravano molto più interessati ai videogiochi, alle app e a YouTube. Ma entrambi da teenager si sono interessati alla musica. Il maggiore, Kieran, è addirittura un giornalista musicale, ed è ossessionato dallo scoprire nuovi generi di musica online e dal soundcloud rap. Il minore, Eli, si è appassionato all’emo e a band come i Twenty One Pilots. Per lui la musica sta svolgendo il classico ruolo che ha sempre avuto in termini di formazione dell’identità, rabbia e catarsi, connessione sociale… Sono andato con lui a vedere i Twenty One Pilots, c’erano 10 000 ragazzi, e ogni singola persona del pubblico a parte me cantava e rappava ogni singola parola dei testi. E i Twenty One Pilots hanno un sacco di testo! Ma tutti le sapevano a menadito. Questo dimostra che la musica è ancora cruciale per i giovani. Deve competere con altre cose come i social media, i videogiochi, i meme, le video parodie, TikTok… Ma ci sono certi aspetti della gioventù come il sesso, l’innamoramento, ballare, farsi domande sul mondo e sulla vita, che vanno a nozze con la musica.
Sono sempre stato anch’io un po’ ossessionato dall’idea che la musica debba essere futuristica, nuova, stimolante, interessante (e ho sempre avuto un problema con la retromania). Però non so se saprei esprimere bene perché: secondo te perché è importante che la musica sia futuristica?
Per me è un principio così fondamentale, così ineludibile rispetto al modo in cui sono fatto in termini di piacere e entusiasmo, che è quasi difficile rispondere. È quasi una cosa neurologica: sono dipendente dalla sensazione di sorpresa e di movimento, la sensazione che la musica vada avanti e mi trascini con se, verso qualche futuro tutto da scrivere e radicalmente diverso dal presente. Il filosofo Frederic Jameson, in un libro sulla fantascienza che ha scritto, parla del “desiderio chiamato utopia”. Ma si può anche parlare del desiderio chiamato “distopia”, quel tipo di particolare entusiasmo per un futuro pericoloso e oscuro. In ogni caso c’è un desiderio che il mondo sia radicalmente diverso da quello che è. E questo è correlato a emozioni molto adolescenziali come la noia, l’insoddisfazione e la rabbia verso l’ordinarietà di quello che ti circonda. È quello che Bowie ha catturato in “Life on Mars?”. Penso che la fantascienza e una certa discendenza all’interno della popular music – psichedelia, glam, postpunk, synthpop, techno-rave, electro eccetera – siano fortemente connesse con questi desideri di mutazione e di rottura. L’idea che il mondo possa cambiare drasticamente, o che tu possa cambiare drasticamente. Un’esistenza eroica, urgente, un nuovo te. Prima di interessarmi alla musica rock ero un grande appassionato di fantascienza, e penso che le due cose siano profondamente connesse, per me e per molti altri: ascoltatori, critici, musicisti.
Da una parte, alla maggior parte della gente non interessa che la musica sia futuristica, apprezzano una bella canzone e fine. Quindi alle volte penso che queste preoccupazioni facciano di noi… degli snob? Dall’altra parte, se stessimo parlando di arte contemporanea, a nessuno importerebbe di pittori che dipingono oggi come nel Settecento. Possono anche vendere, la gente si può mettere i loro lavori in casa, ma non hanno alcun ruolo nel dibattito sull’arte contemporanea. Allo stesso tempo, le testate musicali parlano quotidianamente di artisti e band che suonano esattamente come trenta o quarant’anni fa. Quindi… non lo so: chi ha torto? Chi ha ragione?
È divertente che essere intensamente affascinati dal passato sia legato agli stessi desideri che fanno sì che la gente si interessi al futuro, o ai pianeti alieni o che altro. È un desiderio di essere “ovunque tranne che qui, in qualche momento tranne che ora”. Scappare dal presente e dalle sue piccolezze. Molto prima di interessarmi al rock e allo scrivere di musica, prima di interessarmi alla fantascienza, la prima cosa che avrei voluto essere era un archeologo. Mi piaceva l’idea di scoprire nella giungla le rovine di una civiltà perduta. Ho studiato storia all’università e di conseguenza sono diventato uno storico, affascinato dal passato del rock quanto interessato a dove andrà la musica. Il passato è molto molto interessante. In Retromania non ho mai voluto dire “dimentichiamoci la storia” o “ascoltiamo solo dischi nuovi”. Dicevo “non fate dischi che sono copie di dischi vecchi”. Ma i classici del passato sono dischi che tutti dovrebbero ascoltare. La cosa bella dei classici, nella musica come nella letteratura, è che al loro tempo erano super moderni, dei salti nel vuoto, rottura verso lo sconosciuto. Ho letto per la prima volta MadameBovary l’anno scorso e anche se tutte le sue innovazioni sono state incorporate nella fiction realistica standard, riuscivo comunque a sentire la sensazione di rottura nella prosa. Tutto quello che è stato nuovo un tempo, è sempre nuovo. È per questo che possiamo ascoltare “Heroin” dei Velvet Underground o “I Feel Love” e sentire ancora qualcosa: il momento di rottura è presente per sempre, che si tratti di una rottura in termini di suono, o di trasgressione in termini di contenuto testuale o emotivo, come nel brano di Lou Reed.
Sono assolutamente d’accordo sui classici, ma mi riferivo a chi dipinge oggi come nel Settecento, o a chi fa musica oggi che suona come se fosse stata fatta negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta ecc. E al fatto che mentre nell’arte contemporanea a nessuno interessa gente che dipinge come nel Settecento, le testate musicali danno invece un sacco di attenzione a cose che suonano come… il passato.
Sono molto d’accordo: è strano che nel rock e nel pop sia considerato perfettamente normale fare un disco che si impegna a suonare come trenta o quarant’anni fa. Non succede nelle altre forme d’arte, perlomeno non allo stesso modo. Un esempio attuale è la moda nel pop di fare cose in stile disco. E non è neanche la prima volta che c’è un revival disco, è tipo il terzo o il quarto. C’è qualcosa nella musica pop che la rende particolarmente incline alla nostalgia per il suo stesso passato. Soltanto la moda ha lo stesso grado di spinta a rivisitare la sua storia e a riciclarsi.
Penso ci siano due fenomeni correlati ma diversi, uno è la rievocazione storica e l’altro è il retro. La rievocazione storica è come un gruppo che si dedica a suonare la musica antica, o i madrigali rinascimentali, suonando gli strumenti del tempo, la salvaguardia di un’arte antica. Un gruppo che suona bluegrass oggi con i banjo fa la stessa cosa. Ma il retro è riciclare lo stile di un passato ancora attuale, e anche se spesso c’è l’interesse ossessivo per riproporre in modo esatto tutti i dettagli, per esempio usando tecnologie molto più primitive di quelle correntemente disponibili, tende però a essere più giocoso, ironico e a volte creativo.
Entrambe le tendenze sono comuni nella musica, nella moda e nel design, ma neanche lontanamente altrettanto comuni in altre forme d’arte come la letteratura, il cinema, la tv. Sarebbe molto strano fare un film che si costringesse alla tecnologia disponibile cinquant’anni fa. Mank, il film recente sul tipo che ha scritto QuartoPotere, rievoca il periodo con il bianco e nero, ma in altri aspetti è un film allo stato dell’arte della tecnologia disponibile in questo momento. È un approccio molto più comune di quello di TheArtist, che era un film muto, che copiava i movimenti di camera degli anni Venti, e riproduceva le pose, i gesti e le espressioni degli attori dell’epoca. Tipo i White Stripes del cinema. Allo stesso modo, nel romanzo contemporaneo, che io sappia non c’è nessuno che provi a scrivere come Dickens o Jane Austen, ma nemmeno come James Joyce. Quel tipo di cosa – fare un’imitazione di D.H. Lawrence o provare a scrivere un sonetto – è qualcosa che potrebbe succede solo in un contesto accademico, come esercizio per gli studenti per imparare le regole formali della poesia in un altro periodo storico. Scrittori e pittori possono avere influenze da epoche molto precedenti e a volte hanno un ruolo nella riscoperta di figure dimenticate, ma non esiste qualcosa tipo una retro-letteratura, o una retro-pittura, non credo.
Quanto c’è di intenzionale nella musica e quanto è “spirito selvaggio”? Leggevo recentemente il libro di un insegnante di scrittura creativa, che sostiene che se uno non ha letto Proust, Joyce e tutta una lunga lista di autori non dovrebbe nemmeno provarci. Ha senso. Ma in musica? La storia della musica popolare è stata fatta da ragazzini con piccole collezioni di dischi, e troverei ridicolo dire “vuoi fare musica? Ok, prima ti devi ascoltare questi cinquecento dischi”.
Penso sia giusto quello che dici, però qualcuno potrebbe esprimere le proprie emozioni e le proprie idee in modo molto semplice e onesto, validissimo per lui, poi farle uscire nel mondo e succede che suonano come qualcosa che i Buzzcocks avevano fatto decenni prima. A quel punto i critici, e gli ascoltatori a cui interessano questo tipo di cose, avrebbero il diritto di dire “state ripetendo qualcosa che è già stato fatto”.
Penso che si possa parlare allo stesso tempo di retromania e di futuromania, anche negli stessi anni. Sono tendenze che possono coesistere. In particolare oggi che (tornando all’enorme quantità di musica prodotta quotidianamente di cui parlavamo prima) tutto accade nello stesso momento. Pensi che sia ancora possibile identificare delle tendenze che possano definire un periodo?
Sì, il suono dell’autotune che dicevamo prima è decisamente il suono che definisce lo spirito del tempo nella popular music del ventunesimo secolo. In particolare le più estreme modalità distorte in cui lo usano rapper, mc dancehall ecc. ma è anche una finitura, una patina che sta su tutta la musica pop che passa in radio. Le voci vengono scolpite e lucidate e viene donata loro una sorta di ricchezza superumana e ultra emotiva. È come la CGI o la color correction nei film, ma per la voce umana. Realtà aumentata.
E a proposito di tendenze, si è parlato molto di quel tuo articolo, uscito su Pitchfork e incluso anche in Futuromania, in cui parli di conceptronica. La prima domanda: la mia impressione è che tu sia partito con una sorta di pregiudizio per una musica troppo cerebrale e non molto fisica, e che nel corso della ricerca hai scoperto alcuni elementi interessanti in quella che in fin dei conti non è esattamente “la tua cosa” (come suggeriscono l’importanza del piacere della fisicità più che l’intellettualizzazione dell’elettronica che stanno alla base di un libro come EnergyFlash o del concetto di hardcore continuum). La mia interpretazione almeno era questa, poi ho letto alcune persone sostenere che con un articolo del genere tu stessi proponendo la conceptronica come “la cosa più importante dell’elettronica contemporanea”, con chiaro scontento da parte di chi non la apprezza. Quindi, prima di tutto, ti chiedo quale sia in effetti la tua opinione a riguardo.
Quell’articolo era parte di una serie di approfondimenti di Pitchfork che guardavano indietro agli anni Dieci nel momento in cui stavano finendo, in cui ogni autore parlava di qualcosa che gli sembrava una tendenza importante in grado di definire il decennio. Non intendevo che fosse qualcosa di nuovo, semmai il contrario: era in corso da buona parte del decennio. E di certo si potevano anche trovarne dei precursori negli anni Novanta, come gli Oval o la Mille Plateaux, Drexciya e Jeff Mills, i Matmos e Thierre Thaemlitz. Ma di certo mi sembrava che ci fosse un’insorgenza di musica elettronica legata a concettualizzazioni e razionalizzazioni testuali molto profonde rispetto a quello che veniva fatto. E spesso il testo era parte della musica, più che stargli intorno: voci che cantano, spoken word… Quindi si trattava di un nuovo tipo di testualità nella musica elettronica, prese di posizione espresse in modo più esplicito di quanto non facessero negli anni Novanta anche artisti eloquenti e sofisticati dal punto di vista della teoria come gli Oval. Potevi ascoltare gli Oval senza interessarti di cosa Markus Popp dicesse nelle interviste, godendoti soltanto quelle bellissime e misteriose sonorità ambient. Ma è più difficile farlo con molta della conceptronica di oggi, perché le prese di posizione testuali sono proprio all’interno della musica.
L’altra cosa che avevo identificato è il modo in cui questa musica è fortemente connessa alla cultura accademica e delle scuole d’arte, e poi legata al circuito dei festival, che spesso, particolarmente in Europa, sono finanziati dallo stato o addirittura dall’Unione Europea. Quindi c’è anche un discorso intorno alla musica molto legato alle teorizzazioni e alla terminologia che si usa nelle application per i fondi. C’è una bella differenza rispetto alla cultura rave e anche rispetto alla musica IDM degli anni Novanta di nomi come Autechre o Aphex Twin. Ma all’epoca quel tipo di cultura poteva sopravvivere con le vendite dei dischi.
La mia opinione sulla conceptronica non è particolarmente a favore o contro, si trattava più di accorgersi di un fenomeno e chiedersi che cosa significasse. Il mio gusto personale per la musica elettronica è più vicino a cose più aperte e astratte che non a cose così ben definite e delineate verbalmente. La prima ondata IDM, l’ambient, o sottoculture come la jungle o l’UK garage: musiche principalmente fisiche, concepite per il ballo. Oltre a quella funzionalità corporale di base hanno anche dei valori e delle vibe ulteriori, un’atmosfera di militanza nel caso della jungle, o di comunità e celebrazione edonistica nel caso di house e garage, ma sono valori che tendono a essere articolati con espressioni piuttosto semplici del tipo “Babylon will fall!” o “house is a feeling”. C’è un aspetto testuale in quelle scene e in quei generi, ma è una specie di testo vivente, iscritto nei corpi, nelle mosse di danza e nei rituali delle subculture. Quella è effettivamente la mia parte preferita della musica elettronica, quello che mi piace sperimentare come partecipante e anche osservare come una specie di antropologo. Ma mi piace ascoltare molta musica elettronica concettuale, tutti gli artisti menzionati in quell’articolo mi sembravano tra i suoi esponenti attuali più interessanti e completi, e sicuramente si tratta di persone con cui è stimolante parlare.
Se qualcuno ha pensato che stessi dicendo che si trattava di qualcosa di nuovo o della cosa migliore che sta succedendo nella musica di oggi ha completamente frainteso l’articolo. È soltanto un fenomeno molto interessante sul quale ho sicuramente alcuni dubbi, ma che trovo anche coraggioso e meritevole per altri versi.
Un’altra critica che ho letto è quella che riguarda il bisogno di creare etichette. Sappiamo che di solito gli artisti non amano quando viene dato un nome alla loro musica, quando viene definito un genere ma… trovare degli elementi comuni, delle traiettorie nelle cose che succedono in un dato periodo di tempo non è poi quello che è sempre stato il ruolo della critica?
Sì. Un certo tipo di critica si inventa sempre etichette per definire nuove direzioni o nuove scuole di artisti. E gli artisti fanno sempre resistenza rispetto a queste etichette perché non vogliono sentirsi parte di un percorso più ampio, amano pensarsi come individualità uniche e irripetibili. E inoltre non vogliono passare di moda quando il trend nell’arte, nella musica o nella letteratura passa a qualcosa di diverso! Ma è il lavoro del critico quello di identificare queste traiettorie più ampie, o almeno è uno dei suoi compiti. Sicuramente aspiro a far parte di questa categoria di critici che riconoscono dei percorsi, delle tendenze, una categoria di cui fanno parte persone come Clement Greenberg o Susan Sontag.
Anche celebrare l’unicità di un artista specifico è una cosa che vale la pena fare. Ma nel complesso, penso che gli artisti (naturalmente!) sopravvalutino la propria individualità. Operano sempre in un contesto storico, sono trascinati da correnti più ampie.
La maggior parte dei musicisti fanno musica senza sovrastrutture e teorizzazioni concettuali, semplicemente facendo quello che gli piace (probabilmente non è il caso della conceptronica, che ha una specifica agenda concettuale), ma non è proprio il ruolo della critica quello di decifrare che cosa c’è dietro a quegli impulsi?
Sì. Per quanto si potrebbe obiettare che lo stesso fare musica sia un tipo di teorizzazione. È un modo attivo di fare critica. Stai realizzando dei suoni che mettono in discussione i suoni già esistenti, o che aprono nuovi percorsi.
Sappiamo che la musica ha sempre avuto un qualche tipo di potere di anticipare e prevedere che cosa accadrà nella nostra società. Ma cosa accadrà alla società se la musica non riesce più a darci un’idea di futuro?
Era un po’ l’ansia che stava sottotraccia in Retromania, quello che Mark Fisher è riuscito meglio di me a tirare fuori e a spiegare nei suoi scritti come Spettridellamiavita. Se una società non riesce più a generare espressioni culturali di novità e di cambiamento, allora la preoccupazione è che la società sia stagnante. Fisher metteva in relazione il declino del grado di innovazione della cultura popolare con uno stallo politico e una stasi sociale, in particolare la graduale perdita di potere della working class dopo la militanza degli anni Settanta, la diminuzione della mobilità sociale, e così via.
Penso avesse ragione, ma penso anche che ci sia stato un divorzio tra il progresso tecnologico e quello socio-culturale in termini di valori e attitudine. Negli anni Sessanta e Sessanta credo che si pensasse che questi tipi di sviluppo fossero interconnessi, ma gradualmente la cosa si è inceppata. Per esempio a Hollywood i film più avanzati tecnologicamente sono quelli con un sacco di CGI, innovazioni pazzesche nel suono e nel montaggio, nei colori, gli effetti speciali ecc. Eppure il contenuto vero e proprio di questi film in termini di trama, personaggi e ideologia tende a essere nel migliore dei casi retrogrado, super violento, propagandistico di mitologie di vendetta e mascolinità supereroistica, e alle volte direttamente fascista. Allo stesso modo, la musica che sta facendo le cose più interessanti con la tecnologia digitale, le modifiche della voce, è musica di strada come la trap o l’afrobeats, e spesso i valori espressi in queste musiche sono machisti, sessisti, consumistici e ossessionati dallo status. L’esempio più clamoroso è “Up Like Trump” di Rae Sremmurd, che è uscita più o meno un anno prima che Trump si candidasse alla presidenza. Ci sono aspetti di questi generi che si possono celebrare in quanto portatori di visibilità per delle minoranze, ma in generale se ne possono descrivere i valori come quantomeno decadenti, se non nichilisti. Quindi penso che ci sia stata una rottura tra l’avanguardia tecnologica e idee di progresso legate a un mondo più giusto, migliore e meno consumista. È possibile che avremo musica che suona futuristica ma in termini di visione del mondo è assolutamente retrograda e distopica. Questo che cosa significa? Staremo a vedere.
*Da non confondersi con l’afrobeat di Fela Kuti, afrobeats è un termine (che tornerà più volte in questa conversazione) con cui si intende un genere sviluppatosi nei primi anni Dieci nell’Africa occidentale, che fonde elementi di rap, r&b e dancehall. Diffuso soprattutto in Nigeria e Ghana dove è a tutti gli effetti il suono del pop radiofonico, è diventato popolare anche in UK, NdA.