

“A ddio prince of darkness”: questo il titolo più gettonato al momento della dipartita del grande Ozzy Osbourne, cantante emblema dei Black Sabbath, ma soprattutto solista a tutto tondo e pioniere di un’attitudine sonora grazie alla quale molti artisti campano e hanno campato, semplicemente dilatando frammenti del Sabbath sound (pensiamo a tutto il movimento doom), oppure velocizzandolo (il thrash metal tutto), distillandone l’alone oscuro (il gothic), ma anche il noise (Helmet), e potremmo continuare per ore. Ma attenzione, Ozzy non ha influenzato solo la zona “dura” della musica, non è solo il padrino dell’heavy metal: lo testimoniano i peana da parte di gente come Elton John, Billie Eilish, Lady Gaga, Cyndi Lauper, Duran Duran, Post Malone, Yungblud, insomma il suo apporto allo scenario mondiale è stato “trasversale”, se non addirittura “contaminante”. Ma in particolare pochi – a parte Geezer Butler, il bassista dei Sabbath, che l’ha ricordato come “the prince of laughter” ‒ si sono soffermati sul fatto che il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma piuttosto è stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che poi ha cavalcato.
E quello che ha aperto il vaso di Pandora è stato l’omaggio social che al nostro hanno rivolto personalità notissime del pop italiano: sì, pop italiano. E la cosa ha suscitato emozioni discordanti tra la gente: chi non crede a quello che legge, chi deride senza mezzi termini, chi reagisce con curiosità, chi grida al complotto e chi fa il superiore, ma pochi che abbiano colto il significato importantissimo della cosa. Proprio per questo, passiamo in rassegna i nomi di questi artisti italiani che hanno “osato” ricordare Ozzy senza avere ‒ apparentemente – un pedigree metal o come minimo estremo, e per questo messi alla gogna dagli “ortodossi” del rock.
L’omaggio social che hanno rivolto a Ozzy Osbourne personalità notissime del pop italiano ha suscitato emozioni discordanti.
Segue poi il cordoglio di Red Canzian, il bassista storico dei Pooh che sostituì Riccardo Fogli e che, proprio prima di entrare nella band più famosa d’Italia, soleva interpretare “Paranoid” con il suo primo gruppo, probabilmente i Prototipi (effettivamente la sua voce non sfigurerebbe): anche qui commenti perplessi ma forse meno stupore, in quanto Red negli anni Settanta suonava nei Capsicum Red, band prog prodotta dalla Bla Bla, copertina di Gianni Sassi della Cramps ecc.: ma ricordiamo che anche i Pooh si sono distinti nell’album Opera prima – nel pieno periodo del successo di “Tanta voglia di lei”, 1971 – registrando “Il primo e l’ultimo uomo”, un pezzo sfacciatamente hard rock con delle sonorità e un andazzo vocale – lì però cantava Negrini, poiché Red entrerà in formazione solo tre anni dopo ‒ che ricorda proprio i Sabbath e Ozzy. Nonostante questo siamo costretti a vedere Red combattere con gli arroganti scettici del web, rispondendo a tono con un self control davvero invidiabile.
Poi abbiamo Drupi, che in gioventù divide il palco con Ozzy e disegna un ricordo di lui e dei Sabbath notevolissimo: nel 1968, ingaggiati probabilmente per sbaglio in una manifestazione per famiglie a Cesenatico, con obbligo di abbassare i volumi a mezzanotte, i nostri ovviamente scatenano l’inferno tanto che l’organizzatore gli toglie la spina e manco li paga. E poi ci sono quelli che, per ragioni anagrafiche, sono più sospetti e non hanno scuse di “cantine negli anni Sessanta” nel cassetto: ad esempio Eros Ramazzotti, che però è effettivamente un patito di hard rock e classic rock (fa testo l’intro di “Le cose della vita”, per fare un esempio, in cui il nostro schitarra alla grande) e che qua e là inserisce delle strutture che arrangiate in altra guisa porterebbero direttamente al modello di riferimento.
Il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma piuttosto è stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che poi ha cavalcato.
Diversa la questione per Cesare Cremonini, che non scrive nulla che possa attirare critiche ma posta solo una foto in bianco e nero del cantante britannico. Solo un omaggio dettato dal momento? In realtà no, perché Cremonini si è dichiaratamente fatto le ossa con l’hard rock, partendo in tenera età coi Queen e andando poi a ritroso (e ovviamente anche Brian May ha ricordato il grande Ozzy, senza il quale probabilmente i Queen non avrebbero neanche tirato fuori gli strumenti dalle custodie). Ragion per cui ogni tipo di “perplessità” può essere mandata al mittente.
E Vasco Rossi? Beh, uno come Vasco ovviamente non poteva non omaggiare uno dei suoi grandi maestri: per la capacità comunicativa in primis, e in secondo luogo – musicalmente – Rossi ha preso qua e là pezzi del rock di Ozzy infilandoli nelle sue canzoni, così come ha fatto con gli Ac/Dc, i Judas Priest e via dicendo (a mio modesto parere anche il suo modo di stare sul palco, con quei momenti gigioneschi e i famosi “eeeh” a braccia spalancate deve molto agli “Uh yeah” di Ozzy e del suo trascinare la folla come un vero jester). Forse di tutti gli epitaffi è il più scontato, d’altronde Vasco viene soprannominato “rocker di Zocca” e negli ultimi tempi rivedeva i suoi pezzi live in chiave “metal” con in formazione Will Hunt degli Evanescence, tanto per dire.
Enrico Ruggeri anche omaggia il Blizzard, ma nel suo caso c’è un alto tasso di tolleranza per i trascorsi nei Decibel, che nella loro miscela di punk e hard rock caratterizzante gli esordi avevano senza dubbio i Sabbath come riferimento (e poi il fatto che Ruggeri abbia una cultura hard rock piuttosto ampia è cosa risaputa). Infatti pochi se la sono presa, eppure Ruggeri è l’autore di cose come “Quello che le donne non dicono”: strano che per questo non sia alla gogna come i suoi sopracitati colleghi.
Ma la questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy: anche perché poi il concetto di “pesantezza” in musica nel frattempo è mutato ed estremizzato (se pensiamo al noise rock e derivati) e ascoltare il lavoro del fu ragazzo di Birmingham oggi non è più respingente come agli esordi (anche se ultimamente c’è una grande involuzione nel rock, per cui il nostro è uscito di scena ringiovanito a livello musicale). Anzi, quello è stato il suo punto di forza, esser riuscito a trasformare il concetto di pop, ma non a negarlo. Nel suo modo di inseguire i riff di chitarra c’è l’essenzialità del pop: dritto alla bisogna, niente orpelli.
La questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy.
Soprattutto nella carriera solista Ozzy darà una grande importanza alle ballad, come nel caso della storica “Goodbye to romance” (non a caso individuata come soft rock da vari algoritmi), la stessa “Mama I’m coming home” scritta con un altro beatlesiano DOC, ovvero Lemmy dei Motorhead, “So tired” che in effetti, quando fu scelta come secondo singolo per “Barking at the Moon”, vide il disappunto di molti fans: è vero, nel metal questa cosa delle ballad è abbastanza diffusa ma ‒ qui sta il bello ‒ è proprio Ozzy ad averne gettato le basi coi Sabbath. Sabbath che, ricordiamolo, non sono sempre stati a schitarrare in maniera monolitica, ma hanno anche sconfinato in cose molto più orecchiabili, sperimentando anche coi sintetizzatori in dischi come Technical Ecstasy e Never say die!, che se è vero che sono stati il canto del cigno della formazione storica creandosi anche molti nemici tra la critica e il pubblico, è vero anche che rappresentano due album coraggiosi seppur imperfetti dove la band si rifiuta di essere il cliché di se stessa dicendo ad alta voce: “sì ok, non sappiamo dove stiamo andando, ma sappiamo che stiamo forgiando il pop del futuro”.
Basta guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza di evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente, per parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class hero”.
Listen in awe and you’ll hear him
Bark at the moon