
Oltre la parola
Sontag, Bergman e Godard nella crisi del linguaggio.
Sontag, Bergman e Godard nella crisi del linguaggio.
L’ ultima opera di Jean-Luc Godard, Adieu au langage (2014), chiude un discorso che il cineasta ha condotto nell’arco di tutta la sua filmografia. L’opera si articola a partire dal pretesto di un melodramma amoroso inconsistente, attorniato dalla Storia e dalla contemporaneità, che premono all’unisono per insidiare i pensieri dei protagonisti, alle prese con la svilente contingenza del vivere quotidiano. Le riflessioni enunciate con indisciplina dai due personaggi, incapaci di comunicare, coincidono con quelle del regista. Così, senza alcuna ragione apparente, Josette (Héloise Godet) si rivolge a Gédéon (Kamel Abdelli) e racconta: “Quando un bambino, entrando nella camera a gas, ha chiesto alla madre perché, l’SS ha risposto: kein warum”. Nessun perché. La violenza assoluta non ha ragione alcuna.
Nel dopoguerra, la denuncia di quanto accaduto nei campi di sterminio nazista lasciò attonita un’intera generazione di intellettuali e artisti, chiamati a interrogarsi sulle rappresentazioni possibili dell’indicibile e dell’insensatezza. Al contrario, in merito a quanto sta accadendo in Palestina, si producono incredibili quantità di contenuti testuali e visivi, nella forma di articoli di giornale, caption dei post sui social media, reel e caroselli, immagini con disclaimer ed edulcorati servizi televisivi. Nessun utente al mondo ha davvero il tempo per poter fruire di tutte le informazioni condivise, né per poterne verificare l’esattezza o le intenzioni. Si tratta di una valanga di materiali e risorse travolgente e al contempo inefficace.
Una tale vanità dipende dal fatto che non esistono parole per nominare le atrocità di un genocidio come quello in corso da quasi due anni, specialmente se finanziato e normato da potenze che si appellano ai valori democratici dello Stato di diritto. Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo linguistico per dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi all’abisso nichilista nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole e le convenzioni, i patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso. Se tutto è opinabile, senza alcun fondamento teoretico, e nemmeno le immagini che catturano la realtà possono essere considerate veritiere, se gli accordi internazionali non sono rispettati dalle stesse istituzioni che le hanno redatte, allora il linguaggio non ha più alcuno scopo, né senso di esistere.
Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo linguistico per dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi all’abisso nichilista nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole e le convenzioni, i patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso.
L’indottrinamento di massa opprime il pensiero, il logos, fino a indurlo all’“universo totalitario della razionalità tecnologica”, nella quale il dislivello fra il linguaggio come tecnologie del sé e gli altri dispositivi del potere rende la parola antiquata, inadeguata e sempre in ritardo rispetto a ciò che la corrompe. Così, la civiltà occidentale ha perso la capacità di nominare ciò che produce, di dare un senso alle conseguenze delle proprie azioni. L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che utilizzano o, per meglio dire, dalle quali si fanno utilizzare. Di conseguenza, oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini senza fornire concetti, appiattendo la parola solamente a un misero cliché unidimensionale.
La crisi del linguaggio è un tema degli anni Venti del nuovo millennio, ma è soprattutto una delle questioni novecentesche per antonomasia. Il secolo breve è stato attraversato dall’ultimo colpo di coda del pensiero positivista e puntellato da catastrofi come l’insediarsi dei totalitarismi, la pianificazione dell’olocausto e le persecuzioni nazifasciste ai danni di qualsiasi soggetto non fosse conforme al pensiero unico. A partire dal linguaggio, tutti gli irrisolti del Novecento si ripropongono nell’epoca attuale in una forma esasperata. Se dalle ceneri della Seconda guerra mondiale sono sorte le parole che compongono la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e solo settantasette anni dopo il mondo è nelle mani dei neofascisti; se le sorti della civiltà umana dipendono dalla volontà di Trump e Netanyahu, di al-Sisi ed Erdoǧan, di Orbán e Putin, di Bolsonaro e Milei, allora i diritti universali sono solo cliché. Lo sono anche le parole degli intellettuali che tentano di tenere insieme i valori democratici, rinnegandoli. Sulla maggior parte dei quotidiani occidentali, si sostituisce il termine resistenza con terrorismo e si rinnega la legittimazione politica di Hamas, eletto da un popolo senza Stato e senza costituzione, poiché occupato. Al contempo, l’informazione mainstream non fatica a riconoscere come democratico l’esito che ha portato Netanyahu a essere presidente dell’entità colonialista israeliana dal 1996 al 1999, dal 2009 al 2021 e dal 29 dicembre 2022 a oggi.
L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che utilizzano: oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini senza fornire concetti.
In uno dei capitoli centrali della raccolta di saggi intitolata Stili di volontà radicale (1969), Sontag si dedica al film del cineasta svedese a partire da alcune falle argomentative, mosse dalla critica culturale dell’epoca, per poi concentrarsi sulle questioni esistenziali e metafisiche che rendono Persona un’opera sempiterna, ma anche un esempio canonico di cinema moderno. Lo fa sottolineando come sia del tutto inutile, per non dire svilente, ridurre un lavoro del genere a un dramma psicologico da camera, o peggio a un tentativo di estetizzare la natura cannibalica dell’artista rispetto alla realtà, intesa come materia prima di cui nutrirsi per creare o performare. La sinossi del film, nella sua versione più essenziale, è la storia di Elisabeth (Liv Ullmann), una famosa attrice di teatro, e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson), incaricata di prendersi cura della paziente e di stimolarla a riprendere l’uso della parola, alla quale ha deliberatamente rinunciato. La psichiatra si è fatta convinta di aver compreso il caso di Elisabeth. Esclude disturbi mentali o danni neurali e sostiene che la sua paziente voglia smettere di parlare perché non intende più recitare né sul palcoscenico, né al di fuori. Non vuole più mentire e per farlo, escludendo il suicidio, non le resta che rifugiarsi nel mutismo.
Così come Bergman trascende sul legame passionale o sessuale fra le due protagoniste, allo stesso modo agisce rispetto al piano dell’etica, della psicologia e della narrazione lineare, perché, seguendo l’analisi critica di Sontag, il cineasta “può fare molto di più che limitarsi a raccontare una storia”. Il suo obiettivo è quello di coinvolgere il pubblico in modo più diretto su altre questioni. La de-drammatizzazione, come modalità narrativa, prevede che il significato di un film non sia determinato dalla trama. La filosofa e intellettuale femminista contrappone concettualmente l’andamento progressivo e lineare della narrazione, tipica dei film hollywoodiani, a quello composto da “continui rimandi retrospettivi o incrociati”, che invitano a “un’esperienza ripetuta, alla visione multipla”, esigendo che “lo spettatore o il lettore ideale si collochi simultaneamente in punti diversi della narrazione”; un espediente che “ovvia alla necessità di stabilire uno schema cronologico convenzionale”.
In Persona, il nodo concettuale è quello delle variazioni sul tema del raddoppiamento, “quali la duplicazione, l’inversione, lo scambio reciproco, l’unità e la scissione, la ripetizione”, che impedisce di interpretare l’azione dei personaggi in modo univoco. I livelli di lettura si articolano, da un lato, in una dimensione più superficiale, incentrata sul duello identitario; dall’altro, in una chiave più astratta, che mette in scena il conflitto tra componenti mitiche di un medesimo Io, lacerato tra corruzione e ingenuità. Ancora, il tema del raddoppiamento è soprattutto un’idea di forma, più che di sostanza, poiché il raddoppiamento si manifesta anche in senso metacinematografico, cioè metalinguistico. Al duello fra identità, Sontag preferisce concentrarsi sull’ambiguità insita nel linguaggio, costituito, nella sua ultima essenza, da significato e significante. L’elemento autoriflessivo non è sovrapposto all’azione drammatica, ma corrisponde al livello di lettura privilegiato dall’autore, dedicato alla forma e al tema del raddoppiamento.
Sono ancora terribilmente attuali l’inerzia davanti all’orrore, lo smascheramento del logos come dispositivo e la messa in discussione dei valori fondanti della civiltà egemonica e colonizzatrice, che ha permeato il mondo intero.
Rispetto a quello pasoliniano, il punto di vista di Sontag è differente: in Persona, il lirismo è dato dal movimento di flessione metalinguistico, da una cura della forma, che svela la mano dell’autore e trascura la trama. Lo dimostra con l’analisi del monologo di Alma, a seguito del quale i volti delle due protagoniste convergono, accennando a come Bergman, in senso brechtiano, alteri il ruolo dello spettatore. Se si manifesta la presenza della macchina da presa, allora ciò che si filma perde lo statuto di realtà documentata: il mezzo non appare più neutrale, assume il ruolo di strumento attraverso cui la realtà è manipolata per essere immortalata e resa visibile. Nel cinema moderno, la differenza fra le produzioni hollywoodiane del dopoguerra e i film d’autore, secondo Sontag, deriva da un atteggiamento stilistico: “quello che i cineasti contemporanei mostrano sempre più spesso è il processo stesso della visione, fornendo ragioni o prove dell’esistenza di modi diversi di vedere la stessa cosa, che lo spettatore può sperimentare simultaneamente o sequenzialmente”. In Persona, i momenti dialettici della riflessione metacinematografica conducono a un’autofagocitazione del film stesso, in linea con “l’iper-raffinata autocoscienza dell’arte contemporanea, che condurrebbe a una sorta di autocannibalismo”, ma anche a una “liberazione di nuove energie di pensiero e di sensibilità”. La lettura proposta diverge da quella di Pasolini non solamente rispetto al mutamento di relazione fra autore, linguaggio cinematografico e spettatore. Secondo l’autrice, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro elemento allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della macchina da presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà uniforme e oggettiva. L’autore di Il settimo sigillo (1957), Il posto delle fragole (1957) e Sussurri e grida (1972) sposta l’attenzione su ciò che della realtà non si può raccontare.
In Stili di volontà radicale, Sontag introduce il concetto di principio di intensità per il quale nei film di Bergman “i personaggi che percepiscono qualcosa intensamente finiscono per consumare, per esaudire, ciò che sanno e sono costretti a passare ad altro” perché “ogni conoscenza profonda e indefessa si rivela prima o poi deleteria”. Malgrado ogni epoca storica ne abbia prodotte di svariate, incongrue fra loro e spesso anacronistiche, l’umanità non può ambire ad alcuna verità assoluta. E sebbene ogni individuo della specie umana debba necessariamente ricondurre le proprie esperienze, il proprio vissuto, a una singola unità soggettiva, nessuno può rientrare in un’unica definizione identitaria, poiché nemmeno l’identità personale è assoluta o immutabile, ma sempre composita, ambigua e volubile. Riflettere sull’artificio dell’individualità conduce a una vertigine “in cui sprofonda la coscienza” minando il coesistere in società: “Se per conservare l’identità personale occorre salvaguardare l’integrità della maschera, e se la verità su una persona comporta sempre il suo smascheramento, l’incrinatura della maschera, la verità sulla vita nel suo complesso, comportano lo sgretolamento dell’intera facciata, dietro cui si cela una crudeltà assoluta”.
Secondo Sontag, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro elemento allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della macchina da presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà uniforme e oggettiva.
Una successione simile di fotogrammi disturbanti sull’orrore dell’abisso si può ritrovare nell’ultimo film di Lars von Trier: The House That Jack Built (2018). L’espediente narrativo è quello di entrare nella mente di un serial killer, compiendo una discesa agli inferi, in una catabasi sempre più surreale, dove il protagonista pluriomicida è accompagnato da Virgilio. Il montaggio seziona il film in capitoli, puntellati di sequenze extradiegetiche, dove il tema principale riguarda il precetto classicista del kalòs kai agathós e il ruolo dell’etica nel fare arte. Jack è un narcisista patologico, ossessivo compulsivo e predisposto alle dipendenze. È convinto di essere dotato di eccezionale talento artistico e crede che sarebbe potuto diventare un grande architetto, se solo non glielo avessero impedito. Il suo unico scopo è quello di realizzare un edificio iconico. Nel tentativo di raggiungere la consacrazione artistica, l’ostacolo principale nel quale si imbatte il protagonista dipende dal fatto che la casa costruita da Jack è composta da materiali del tutto inediti nel campo dell’edilizia, dato che quelli solitamente impiegati non lo soddisfacevano abbastanza. Si tratta di cadaveri umani congelati, modellati e assemblati l’uno a l’altro per mano del sedicente architetto.
Rispetto al rapporto fra etica e arte, il punto di vista di Jack risulta particolarmente esplicito in una delle scene finali del film, quando dichiara che “tutte le icone che hanno avuto e avranno sempre un impatto sul mondo sono per me arte stravagante”. L’affermazione, pronunciata in voice over, è sottolineata da una carrellata di filmati e immagini che ritraggono i dittatori del Novecento e le peggiori atrocità, delle quali sono i principali responsabili: mucchi di cadaveri ammassati con una macchina spalatrice, persone ancora vive nelle baracche dei lager nazisti, cadaveri lanciati in fosse comuni, mutilati di guerra, bambini malnutriti ridotti a scheletri. Secondo il protagonista, il suo modo di fare arte è quello di svelare l’indicibile e mostrare il male assoluto, per definirlo nichilisticamente solo come una mera categoria morale, relativa al bene, assente in natura e presente solo nella logica del pensiero umano. Il bene e il male, il bello e il brutto sono artifici. È possibile commettere dei crimini perfetti così come è possibile riconoscere il bello nella decadenza o persino nella decomposizione della materia. Nel dialogare con Virgilio, Jack espone le sue ragioni, paragonando il processo di decomposizione di un essere umano con quelli adottati per la produzione di vini da dessert. Cita il gelo, la disidratazione e l’utilizzo della muffa nobile come le tre più comuni forme di decomposizione degli uvaggi e chiosa: “È il degrado a nobilitare il grappolo vivo, fino a farlo diventare un’opera d’arte”.
In The House That Jack Built, l’estetica della morte e della violenza rappresenta il filo conduttore di tutto il film. Tornando a Bergman, il male, l’abisso e l’orrore si manifestano in Persona a partire da un altro principio nichilista, ovvero la dissoluzione dell’identità delle due protagoniste. Il processo di annullamento e disgregazione della personalità dei due soggetti avviene a partire dalla messa in discussione del ruolo del linguaggio, definito da Sontag come il dispositivo capace di “gettare un ponte sull’abisso”. La parola definisce, mette ordine, crea la norma e stabilisce i confini necessari per significare sia il soggetto che parla, sia l’oggetto di cui si parla. L’autrice non trascura il contesto in seno al quale avviene la contestazione del linguaggio negli ambiti del cinema moderno e della letteratura dell’epoca, citando, fra i tanti, Jean-Luc Godard, Michelangelo Antonioni, Gertrude Stein e Samuel Beckett.
Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”. Se Elisabeth ha deciso scientemente di preferire il mutismo e rinunciare all’oralità, Alma è impegnata nella verbalizzazione del mondo a fini terapeutici, come atto generoso e benefico, compiuto per il benessere della sua paziente. Il dramma o la rottura avviene nel momento in cui il silenzio diviene violento, provocatorio e crudele. Sontag definisce il mutismo di Elisabeth come strumento di inganno, di smascheramento e di autorivelazione. Per tutta la durata del film, la narrazione procede per sottrazione o per “assenze di enunciazione” che, a poco a poco, minano la fiducia riposta nel linguaggio da parte di Alma, portandola a farsi carico dell’angoscia di Elisabeth.
Lo scambio di identità fra le due protagoniste avviene attraverso il vuoto che l’attrice crea in risposta al tentativo dell’infermiera di mostrare il linguaggio come un dispositivo innocuo. Lo sforzo compiuto da Alma le si ritorce contro: la verbalizzazione del mondo, priva di alcun tipo di interlocuzione, rivela l’insensatezza della parola e la sua pericolosa contingenza. In modo analogo, il silenzio attorno alla condizione palestinese ‒ oppure il rumore assordante dei discorsi svuotati di contenuto ‒ riflette la stessa impossibilità di comunicazione autentica. Il linguaggio, anziché fungere da ponte, diventa strumento di esclusione, rimozione, delegittimazione.
Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”.
Il linguaggio filmico adottato dall’autore di Bande à part (1964) è in totale apertura verso il pensiero astratto e il mondo delle idee; pertanto è dissociativo, composto da una colonna sonora intermittente, un montaggio rapido e inquadrature disorientanti. Godard trasgredisce la regola estetica del punto di vista unitario, annullando la distinzione tra narrazione in prima persona e in terza persona, “facendo della persona del cineasta l’elemento strutturale centrale della narrazione cinematografica” e che però non corrisponde “a una lucida intelligenza autoriale”. In altre parole, l’autore fuori campo è dotato di una coscienza turbata e più estesa rispetto ai personaggi del film. Muovendosi nella scena modernista, Godard confonde le prospettive narrative per favorire un maggiore rigore formale, dall’effetto alienante. Si tratta di un metodo che consente l’apertura verso la concettualizzazione astratta di ciò che non può essere espresso attraverso la logica di una narrazione lineare e che consente di esplorare il cinema, facendo cinema.
La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto, fino ad arrivare alla sua totale dissoluzione.
La radicalità del gesto godardiano stava nell’aver previsto, già dagli anni Sessanta, la dissoluzione imminente della parola come veicolo di senso. Il suo cinema, rinunciando programmaticamente alla linearità narrativa, intuiva una condizione di spaesamento cognitivo che oggi si è pienamente realizzata: l’incapacità collettiva di discernere, comunicare e comprendere. In questo scenario, le immagini non raccontano più, ma si accumulano, svuotate di forza semantica; le parole si moltiplicano, ma non incidono.
La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto, fino ad arrivare alla sua totale dissoluzione, alla quale attualmente si assiste. Oggi, di autori come Bergman e Godard, Sontag e Pasolini si sente la mancanza; del logos rimane solo la sua rigida e sadica spietatezza, tale per cui l’intellighenzia occidentale si è interrogata per quasi due anni sull’utilizzo appropriato del termine genocidio, scrollando video e immagini del massacro di un popolo, finanziato con il benestare della sedicente società civile.