A ppellarsi alla natura per legittimare una posizione filosofica, politica o di qualsiasi altro genere è una tentazione a cui è difficile resistere. Nessuno saprebbe definire in maniera esaustiva la nozione di “natura” eppure chiunque, in qualche circostanza, vi ha fatto ricorso per argomentare e giustificare le proprie idee. Prima che un insieme di processi e di oggetti la natura è un potente strumento retorico, un rifugio del pensiero, e un balsamo per la coscienza. Se è naturale allora è giusto, se è naturale allora è vero, se è naturale allora è rassicurante.
Perché ci ostiniamo tanto a chiamare in causa quest’analogia tra la sfera morale e quella naturale è l’oggetto di Contro natura, il saggio di Lorraine Daston pubblicato da Timeo e tradotto da Assunta Martinese. Lorrain Daston “una delle figure più importanti della storia della scienza degli ultimi decenni” come scrive Paolo Pecere nella sua introduzione, è autrice di ponderosi volumi come Wonders and the Order of Nature (Zone books 2001, con Katharine Park) e Objectivity (Zone books 2010) che ancora attendono di essere tradotti in italiano. Contro natura, più snello e divulgativo, costituisce un piccolo ma efficace strumento di riflessione sull’uso discorsivo di quello che appare a tutti gli effetti come un trending topic della filosofia e della pubblicistica degli ultimi anni, appunto “la natura”.
L’umano ha bisogno di norme e la natura è il più grande fornitore di modelli e di norme a cui abbiamo avuto accesso finora.
Una delle peculiarità dell’essere umano, secondo Daston, è quella di “comprendere la forza del ‘dovrebbe essere così’ e sentire una fitta di dispiacere tra le cose come sono e le cose come dovrebbero essere”. Insomma, l’umano ha bisogno di norme e la natura, a quanto pare, è il più grande fornitore di modelli e di norme a cui abbiamo avuto accesso finora. Non stupisce perciò che l’appello all’ordine naturale venga formulato dalle posizioni più disparate: che si tratti di giustificare i diritti universali o il razzismo, l’omosessualità o l’eterosessualità, la democrazia o l’autoritarismo. Le norme implicano infatti “un orizzonte temporale che si estende per un certo lasso di tempo nel passato e, ancora più importante, nel futuro” e siccome la natura “ha sempre superato per durata anche il più impressionante manufatto umano” eccola diventare l’origine stessa del concetto di norma, della normatività. Questa disponibilità argomentativa, come spiega Daston, è stata corroborata (ma non istituita) nel corso della storia del pensiero occidentale dal fatto che la natura venisse considerata in termini teologici: se un’autorità sovrumana l’ha fatta così, allora dev’essere giusta.
In tempi di risorgente conservatorismo la questione potrebbe sembrare particolarmente delicata: “se le norme derivano dalla natura, e la natura è immutabile, allora anche le norme sono immutabili”. Norme immutabili ereditate dalla tradizione si trovano ipso facto giustificate dalla loro (presunta) somiglianza con l’ordine naturale. Eppure, almeno su un piano filosofico, Daston non sembra inquietarsi troppo per chi ancora considera l’aborto, l’omosessualità o la PMA come qualcosa di innaturale, che quindi dovrebbe essere proibito dalla legge. Lo sguardo distaccato della storica non vuole sporcarsi le mani con l’attualità. Il lavoro militante dei decostruzionisti che hanno smontato le naturalizzazioni per mostrarne i presupposti ideologici non è neppure chiamato in causa. All’autrice interessa piuttosto rilevare come la limitata razionalità umana abbia bisogno di figurarsi dei modelli e come la natura sia sempre stato un fonte inesauribile di norme e modelli. La “fallacia naturalistica” sembra dunque inevitabile.
Al contempo, lungi dall’essere un tutto compatto ed omogeneo, la natura somiglia piuttosto a un mosaico di ordini disparati, come le wunderkammer naturalistiche del rinascimento con le loro collezioni di “specimen” prelevati dai vari ambiti del mondo naturale, un mosaico dal quale ognuno può raccogliere il tassello che preferisce. “Combattere il relativismo con la strategia della naturalizzazione” quindi, secondo Daston “è una guerra persa in partenza”: a tesi opposte corrisponderanno opposti naturalismi. Il conflitto delle posizioni si traduce facilmente in una competizione tra diversi ordini naturali, tra diverse metafore naturalistiche. Il pluralismo degli ordini naturali sembrerebbe dunque garantire, almeno teoricamente, un pluralismo degli ordini morali e a un pensatore liberale potrebbe bastare così.
Nel suo saggio Daston si diletta anche a tratteggiare una rassegna di passioni dell’innaturale, secondo una lunga tradizione filosofica di analisi degli affetti: le reazioni di orrore, stupore e terrore sorgono quando un’immagine della natura che consideriamo normativa viene trasgredita. La psicologia ci insegna che anche alcune nostre comuni reazioni emotive postulano una qualche fallacia naturalistica. C’è un punto in cui Contro natura sembra però indicarci una crepa nella sua stessa struttura teorica, una crepa che la studiosa preferisce, almeno in questa sede, non approfondire. Verso le ultime pagine, scrive:
Gli ordini naturali sono, in effetti, più ordinati degli ordini umani, il che può darci un indizio sul perché gli ordini naturali vengano invocati per suffragare gli ordini umani e non viceversa. Oggi, nell’era dell’ingegneria genetica e del cambiamento climatico antropogenico, questo squilibrio potrebbe spostarsi in una direzione opposta.
È probabile che la natura sia adatta a costituire metafore convincenti dell’ordine solo nella misura in cui esiste indipendentemente dall’uomo. Una natura completamente antropizzata (se mai fosse possibile) è una natura che non risponde più al proprio (o ai propri) ordini, ma che dipende per la sua stessa esistenza dai più precari ordini umani e quindi faticherà a porsi come fonte di normatività. Solo la “natura selvaggia” possiede l’autorevolezza dell’origine, di ciò che è sempre stato e sarà, la solidità pre-umana di un fondamento su cui tutto poggia.
A questo tipo di natura guarda l’ultimo libro di David Quammen intitolato Il cuore selvaggio della natura (Adelphi, trad. di Milena Zemira Ciccimarra). Autore dell’acclamato Spillover (Adelphi), Quammen raccoglie in questo volume i reportage che ha pubblicato nel corso degli anni sulla rivista National Geographic, e alcuni di questi sono pregevoli pezzi di scrittura oltre che fonti di conoscenza e strumenti di militanza ecologista. Già in Spillover, pubblicato nel 2012, Quammen rifletteva sull’origine antropogenica delle pandemie e in un certo senso preconizzava il Covid19, o quanto meno metteva in guardia dalla possibilità che qualcosa del genere potesse accadere. L’aumento delle pandemie è uno dei risultati dell’ordine (o del disordine) umano che interferisce sugli ordini naturali.
A tesi opposte corrisponderanno opposti naturalismi.
Quammen è mosso romanticamente da un’attrazione viscerale per quella che chiama “natura selvaggia”, e che identifica all’incrocio di quattro elementi caratteristici: estensione, connessione, diversità e processi, vale a dire un sistema di grandi dimensioni e grande complessità, caratterizzato da un numero altissimo di interazioni e da elevata biodiversità. Nei suoi viaggi ai quattro angoli del pianeta si trova per lo più ad ammirare nature selvagge insularizzate e in pericolo. Africa, Asia, Siberia, Sud America, ovunque si sposti l’autore incontra ecologisti, scienziati, popolazioni autoctone, muovendosi alla ricerca di “isole ecologiche in mezzo a oceani di impatto umano” e ovunque vada si sforza di districare la complessa matassa degli interessi economici, delle relazioni politiche e sociali che avvolgono il “cuore pulsante” della natura, rischiando di soffocarlo.
Non è e non poteva essere altro che un’immagine tormentata dei rapporti tra specie umana ed ecosistemi naturali quella che emerge da questo libro il quale, come scrive lo stesso Quammen, somiglia “a un serie di dispacci da una battaglia all’ultimo sangue”. Eppure l’autore si sforza ottimisticamente di raccogliere testimonianze di pratiche virtuose, consapevole del fatto che le uniche speranze di mantenere in vita la natura selvaggia sono legate a un approccio ecologico di tipo conservazionista e che quindi, sia pure facendo “passi indietro”, l’uomo sarà pur sempre se non il padrone, comunque il responsabile, l’amministratore più o meno illuminato di ciò che resta della natura: “L’essere umano è il problema, su questo pianeta, ma è anche l’unica soluzione”.
Il recente diffondersi di testi divulgativi che riflettono sulla natura è probabilmente legato a questa crescente consapevolezza. Se l’uomo, dopo avere colonizzato il cosmo naturale, possa continuare a vederlo come qualcosa che lo trascende e che lo fonda, e come possa farlo (per esempio difendendo come Quammen quanto resta della natura selvaggia), è una delle grandi questioni della contemporaneità.
La natura somiglia a un mosaico di ordini disparati dal quale ognuno può raccogliere il tassello che preferisce.
Esiste tuttavia una temperie di carattere diverso, e per certi versi opposto, che alimenta lo spirito della nostra epoca e che scorre sottotraccia nella storia della cultura occidentale, una tradizione che vede piuttosto nell’accelerazione dei processi antropici una frontiera destinata a modificare e forse superare per sempre qualsiasi forma di naturalismo. Questa visione non teme ma semmai si augura il pieno compimento della tecnologizzazione del mondo. Techgnosis. Mito, magia e misticismo nell’era dell’informazione, libro di culto per molti teorici dei media e della tecnologia pubblicato per la prima volta in italiano da Not (la traduzione è di Francesca Massarenti) esplora questo immaginario.
L’autore, lo statunitense Eric Davis, ci propone una storia della scienza che approfondisce in maniera quasi vertiginosa quella crepa indicata da Daston, una sorta di storia segreta del progresso umano. Dagli alchimisti rinascimentali fino ai tecnoentusiasti della Silicon Valley esiste, secondo Davis, una forte e profonda tendenza a immaginare la conoscenza e il lavoro scientifico come qualcosa di contra naturam, la capacità di “accelerare artificialmente il potenziale evolutivo del mondo”. Anche qua, similmente all’autorità teologica che presiede secondo Daston all’immagine di una natura normativa, fa da sfondo uno scenario religioso ma di segno opposto rispetto a quello ortodosso che vede il cosmo naturale come un prodotto divino e quindi fonte di verità assoluta.
Tra i crogioli alchemici e le unità d’informazione, ci spiega Davis, scorre la linfa dello gnosticismo, inteso più come pulsione subculturale, come elemento dell’inconscio tecnologico che come setta o corrente filosofico-religiosa in senso stretto. Dal corpus hermeticum ai protagonisti dell’era elettrica, dai pionieri della genetica agli inventori di internet e dell’intelligenza artificiale Davis (scavando nella vita dei personaggi, mostrandone le influenze culturali e le ambizioni spirituali) costruisce una narrazione avvincente di come molti scienziati, inventori, teorici e imprenditori occidentali hanno filosoficamente giustificato il progresso facendo riferimento più o meno consapevolmente a categorie metafisico-religiose di tipo gnostico. In particolare il pensiero gnostico avrebbe nutrito il progresso umano esaltando una concezione di origine platonica che vede la materia e la natura come il prodotto di un’entità malevola – il “demiurgo” – contro la quale è giusto ribellarsi per raggiungere, mediante la conoscenza, un livello superiore, più astratto, più metafisico. L’uomo avrebbe dunque il diritto, e il dovere, attraverso il sapere e la tecnica di farsi padrone del mondo e di andare oltre la natura, compresa la propria natura biologica, autotrascendendosi e infine “autodivinizzandosi”.
Solo la ‘natura selvaggia’ possiede l’autorevolezza dell’origine, di ciò che è sempre stato e sarà, la solidità pre-umana di un fondamento su cui tutto poggia.
In questo libro, per molti versi straordinario perché capace di tenere insieme, non senza ironia, ambiti di ricerca e registri discorsivi diversissimi (tra erudizione e cultura di massa, tra competenze accademiche e scrittura pop), Davis sostiene che oggi (parla della fine degli anni Novanta ma il discorso vale a maggior ragione per i giorni nostri) il sogno gnostico sembra realizzarsi o manifestarsi chiaramente nel modo in cui pensiamo la tecnologia e il nostro posto nel mondo. Accanto alle distopie apocalittiche degli ambientalisti convivono le utopie radiose dei profeti del progresso. In Techgnosis sono osservate controluce le radici culturali di quell’atteggiamento incredibilmente fiducioso rispetto alle possibilità di travalicamento dell’ordine naturale da parte dello sviluppo tecnoscientifico che alcuni chiamano transumanismo e che, come mostra lo scrittore, fa parte di tutti noi, è per così dire iscritto nel mondo in cui accogliamo l’innovazione, la incorporiamo, la integriamo nella nostra vita trasformandoci senza troppi pensieri in ibridi tecnobiologici, in cyborg.
“Noi non cerchiamo nessuna matrice naturale [corsivo mio] di unità” scriveva Donna Haraway nel seminale Manifesto cyborg (1985) un testo ampiamente citato e usato nel saggio di Davis: “Il nostro sogno” ha scritto Haraway “è un tragitto che porta da una società organica a un sistema informatico polimorfo”. La tecnologia dell’informazione è al centro sia del Manifesto cyborg che di Techgnosis: quella che un tempo veniva chiamata cibernetica, nelle parole di Davis “ha eroso molte delle tradizionali distinzioni tra mente e macchina, organico e meccanico, naturale e artificiale.” Insomma per molti oggi la natura non è più un fondo sconosciuto, ma un terreno di programmazione. Ancora secondo Haraway: “le scienze della comunicazione e la moderna biologia si costituiscono attraverso lo stesso procedimento, la traduzione del mondo in un problema di codifica”. Per il sogno transumanista l’ecologismo e l’ambientalismo, con la loro “natura selvaggia” da conservare e il loro culto del “dato” biologico sono il male in quanto predicano la limitazione delle possibilità umane (e transumane). Nessun passo indietro. Al limite la natura selvaggia andrà tracciata, modellata e infine riprodotta o meglio simulata.
Esiste una tendenza a immaginare la conoscenza e il lavoro scientifico come qualcosa di capace di ‘accelerare artificialmente il potenziale evolutivo del mondo’.
Leggendo Davis ci rendiamo conto di come l’idea futuristica che la natura biologica sarà sempre più mutante e infine forse interamente modificata dalle capacità di manipolazione umana è parte del nostro DNA culturale, e una parte che emerge in maniera sempre più imponente. La dimensione artificiale che ingabbia quella naturale, sia per quanto riguarda l’uomo che gli ecosistemi nei quali si trova a vivere, non è più l’incubo di qualche scienziato pazzo frankensteiniano ma il sogno delle masse e dei loro guru tecnoidolatri chiamati Bill Gates o Elon Musk. L’idea del superamento del nostro vecchio e ingombrante bagaglio naturale la troviamo espressa nelle visioni dei profeti tecnologici ma anche nei corpi infarciti di steroidi, nelle menti accelerate dagli stimolanti, nella proliferazione dei deepfake e nelle aspirazioni post o neobiologiche della cultura queer. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Se questa è davvero la strada che stiamo percorrendo, allora forse l’uso del termine “naturale” per giustificare una presa di posizione rimarrà soltanto come una inveterata abitudine mentale, un riflesso involontario depositato nella nostra memoria linguistica come quando diciamo che abbiamo “riagganciato” il telefono, e alla fine sparirà per sempre.