

I l terzo numero di Lucky Peach, la rivoluzionaria rivista sulle cose del cibo nata dalla collaborazione tra lo chef David Chang e i food writer Chris Ying e Peter Meehan, pubblicata da McSweeney’s, si propone di indagare, nel solito modo irriverente e vagamente allucinato, la figura dei cuochi e degli chef nella mediasfera contemporanea. È il 2012, la televisione americana è satura di talent show culinari – il canale Food Network inaugura nel 1993 – gli chef sono sulle copertine delle riviste, vengono riconosciuti anche fuori dagli spazi della cucina, possiedono un loro specifico fandom: i clienti che frequentano i ristoranti come fossero mete di pellegrinaggio si aspettano di incontrarvi lo Chef-Famoso, di vederlo chino e concentrato sul piatto che verrà loro servito, ma anche di parlarci, per complimentarsi, ovviamente, e allo stesso tempo dare sfoggio di cultura culinaria e persino, con tono scherzoso, si intende, suggerirgli qualche piccola modifica sulle portate. I cuochi sono stati catapultati nel firmamento luccicante e patinato dell’idolatria della cultura pop.
Il culto della personalità dello chef, adorato e temuto allo stesso tempo, è stato reso possibile da una ridefinizione, complici i media e una nuova cultura del mangiare fuori, del paradigma del cuoco: figura non più legata (solo) alla dimensione del fare ma a quella ‒ e soprattutto a quella ‒ del pensare. Si è verificato nel fine dining un passaggio analogo a quello che ha coinvolto la figura dell’artista durante il Rinascimento, che passa dall’essere artigiano a intellettuale. Gli chef sono diventati artisti e venerati come tali, vicini all’archetipo del genio tormentato, di cui si tollerano, e quasi si ricercano, le intemperanze, gli umori e le bizzarrie, come novelli Caravaggio che si torturano per esprimere con i menù la loro visione. Gli chef sono nuove rockstar dal temperamento instabile e i ristoranti hanno assunto una inedita centralità, finendo per porsi come barometri della vitalità culturale di un’epoca, strumenti e spazi di rilevamento dello spirito del tempo. Lucky Peach immagina che questa tendenza sia arrivata al termine e si interroga su quali declinazioni potrebbe assumere la professione del cuoco una volta detronizzato il celebrity chef.
Oggi sappiamo che non c’è niente di più lontano dal vero di questa previsione. Che l’aura sacrale di cui è circonfusa la figura dello chef brilli sempre più luminosa lo rivela la terza stagione della serie The Bear: pur ponendosi in stretta continuità temporale con la seconda, mostra già dal primo episodio una rottura in termini di tono e di stile rispetto alle precedenti. Più che un prodotto audiovisivo di finzione, sembra spesso di guardare un documentario o una docuserie simile per certi aspetti a Chef’s table di Netflix, in cui ogni episodio è dedicato a uno chef che, con accenti emotivamente connotati riflette sulla sua visione di cucina e, soprattutto, si propone di raccontare la sua storia personale attraverso i suoi piatti. Se questa aderenza al reale, questa tendenza al disvelamento del behind the kitchen doors ha caratterizzato la serie sin dagli esordi, contribuendo a farne un prodotto così di successo – tutti nutriamo una sottile e un po’ pruriginosa curiosità su chi ci sta preparando la cena; tutti siamo ancora un po’ attratti dalle scenate in cucina che tanta televisione ci ha abituati a riconoscere come la norma – la terza stagione esaspera ancora di più il tono rapsodico della serie, frantuma e sfilaccia i già frammentati lacerti di narrazione che muta di segno per trasformarsi in metanarrazione.
The Bear, soprattutto la terza stagione, si inscrive pienamente nel narrative turn che ha coinvolto il racconto delle dinamiche della ristorazione e della figura dello chef.
The Bear, soprattutto la terza stagione, si inscrive pienamente nel narrative turn che ha coinvolto il racconto delle dinamiche della ristorazione e della figura dello chef. In questo nuovo ordine narrativo, non solo innumerevoli sono i racconti del mondo ma, come sostiene Peter Brooks, la narrazione stessa è diventata l’unica forma accettata di conoscenza e di discorso. Le micronarrazioni sono ovunque, i pezzi del New Yorker iniziano sempre con aneddoti personali di chi scrive, le aziende, le università, i partiti politici, finanche le panetterie – potremmo aggiungere al campione individuato da Brooks anche i ristoranti – costruiscono e comunicano la loro identità attraverso il ricorso a una buona storia. Credo che l’intromissione del reale – attraverso la presenza dei veri chef; le discussioni così minuziose intorno ai costi di gestione di un ristorante; cosa sia sacrificabile, il piatto extra, e cosa no, il pastry chef; la lista stilata da Carmy, subito imitato da diversi chef, dei non-negotiables, – abbia conferito alla terza stagione di The Bear un livello più complesso e stratificato di narratività rispetto alle precedenti.
Se all’inizio una delle premesse della serie è stata quella di mostrare con audace schiettezza il dietro le quinte delle cucine e, soprattutto, di chi cucina, in una sorta di Kitchen Confidential al sapore di Italian Beef, l’apertura nella seconda stagione del ristorante fine dining The Bear ha stravolto le modalità di narrazione. Non solo a livello tematico: sono cambiate le relazioni tra i personaggi, il loro rapporto nei confronti del lavoro, è ovviamente cambiata la proposta gastronomica, sono cambiate le parole stesse – ora ci sono hamachi e mirepoix al posto di giardiniera e salsa piccante ‒, ma anche a livello linguistico. Al posto delle sequenze sincopate e dei dialoghi dal ritmo incessante della prima stagione, ci sono ora lunghi flashback e molto silenzio.
Per restituire l’atmosfera e i toni di un ristorante fine dining si rende necessario attingere alle strategie di messa in immagine di quelle atmosfere. Ecco allora che già nel primo episodio, che si svolge il giorno successivo al soft opening del ristorante, le scene in cui Carmy assemblea un nuovo menù, tutto preso dalla fase di Research & Development, sembrano provenire da Chef’s Table. Come nella serie, i piatti sono presentati in successione rallentata, inquadrati frontalmente, con chiarezza cristallina. Attingendo ai ricordi di Carmy, il montaggio mette insieme e compone una tassonomia dei gesti della cucina: mani che affettano, sbollentano, incidono, rosolano, essiccano, impastano, impiattano, assaggiano. Mani che scrivono, cancellano, appuntano e che sfogliano libri.
Nel primo episodio il racconto dell’educazione sentimentale e della formazione da chef di Carmy diventa esemplare per tracciare la traiettoria dell’evoluzione del panorama del fine dining negli Stati Uniti, in uno sconfinamento continuo tra forme diaristiche e documentaristiche. Vediamo Carmy muoversi tra diverse cucine di veri ristoranti: quella del Daniel di New York, quella del French Laundry in California e quella del Noma a Copenaghen. La successione non è casuale. A New York apprende da Daniel Boulud – chef lionese, formatosi nella temperie culturale della Nouvelle cuisine e, dopo il trasferimento negli Stati Uniti, figura di mediazione tra civiltà culinaria francese e americana ‒ le tecniche classiche della cucina francese. Un analogo processo di mediazione è quello portato avanti da Thomas Keller che nei suoi ristoranti French Laundry e Per Se, entrambi premiati, caso unico per uno chef americano, con tre stelle sulla guida Michelin, ha inventato una forma di modernismo gastronomico che combina la sperimentazione tecnica all’approccio farm-to-table, nato proprio in California intorno al ristorante Chez Panisse di Alice Waters. Keller è figura imprescindibile per qualsiasi discorso che riguardi i cambiamenti nel modo di intendere la ristorazione di fascia alta. Ha inoltre assolto un ruolo essenziale di mentore, formando alcuni degli chef più talentuosi della generazione successiva, come Grant Achatz, Corey Lee e René Redzepi.
Nel primo episodio il racconto dell’educazione sentimentale e della formazione da chef di Carmy diventa esemplare per tracciare la traiettoria dell’evoluzione del panorama del fine dining negli Stati Uniti, in uno sconfinamento continuo tra forme diaristiche e documentaristiche.
Tra tutti gli chef che compaiono nella serie quello che sembra assumere una particolare centralità nel percorso di Carmy è Thomas Keller. Keller agisce come un padre, si rivolge a lui, al suo primo giorno con parole ferme ma affettuose, lo incoraggia, lo guida nella mansione più “domestica” tra quelle che si svolgono in una cucina professionale: la preparazione del family meal, il pasto per lo staff del ristorante. Keller è figura paterna per tutta la scena del fine dining statunitense, e non solo. Non casualmente prima ancora di apparire nella sua fisicità, compare in forma di traccia, nell’impronta della sua mano, impressa negli spazi del Noma e affiancata dalle sue iniziali, T.K., le stesse che usano i personaggi per riferirsi a lui. Oltre a essere uno dei numerosissimi easter egg disseminati nella serie, l’impronta di Keller introduce la questione sottesa a tutta la terza stagione e di cui i camei degli chef e la presenza dei loro cookbook diventano figure: quella dell’eredità e dell’influenza di uno chef, della sua legacy.
Allo stesso tempo il profilo da chef di Carmy sembra costruirsi attingendo a prelievi della vita e della figura di Keller, in particolare della sua immagine divistica, così come viene restituita dai suoi libri e dai prodotti audovisivi di cui è protagonista. In un dialogo piuttosto teso tra Carmy e Cicero – investitore del ristorante – si fa riferimento a una spesa di 11.000 dollari per il burro Orwell. Quello che Cicero interpreta come un burro distopico è in realtà uno dei tantissimi omaggi a Keller: il burro non ha niente a che fare con lo scrittore George Orwell, è, invece, il preferito di Keller, quello di cui si rifornisce per i suoi ristoranti.
Oltre a essere uno dei numerosissimi easter egg disseminati nella serie, l’impronta di Thomas Keller introduce la questione sottesa a tutta la terza stagione e di cui i camei degli chef e la presenza dei loro cookbook diventano figure: quella dell’eredità e dell’influenza di uno chef, della sua legacy.
I punti di contatto non si limitano a riproposizioni biografiche e aneddotiche. Si misurano piuttosto sul piano della trasmissione di un ethos e di una visione del lavoro in cucina che informano la concezione che del ristorante emerge in The Bear. Il rapporto tra Carmy e Keller ricorda la dialettica padre-figlio declinata nella forma specifica che questa relazione può assumere solo nelle cucine. Lo si percepisce nel loro colloquio. Alla domanda di Keller sul perché i cuochi cucinino, Carmy rimane silenzioso, spingendo così lo chef a fornirgli la sua risposta che proviene in realtà dal suo mentore, lo chef Roland Henin: i cuochi cucinano per nutrire le persone. Quella che sembrerebbe un’affermazione scontata, banale ai limiti dello stucchevole, in realtà sintetizza alcuni dei temi su cui si regge tutta la serie. Persino le nuove disposizioni che regolano il funzionamento del ristorante vengono da Keller: mai ripetere un ingrediente sul menù, pensare al servizio in termini di un cliente alla volta.
La terza stagione è stata accusata di fare propaganda al fine dining, di aver disatteso le aspettative delle precedenti stagioni, di aver riservato troppo tempo alle elucubrazioni sul ristorante, sottraendolo così alle turbolente vicende della famiglia Berzatto. Credo che questi commenti tendano a dimentica che, beh, The Bear è una serie sulla ristorazione. Che Carmy è uno chef, che la sua formazione fine dining è stata resa evidente già dalla prima puntata e che, credo, neanche nelle aspettative dello spettatore più romantico sarebbe stato plausibile immaginarlo servire panini all’infinito. Gli chef sono lì non per puro citazionismo ma per ricordare che le cucine sono spazi che generano filiazioni e che i ristoranti sono luoghi di relazioni.
La loro presenza serve a raccontare in modo efficace il passato di Carmy e le sue prospettive future. Anche se il solipsismo nevrotico e autodistruttivo in cui si chiude lascerebbe supporre il contrario, sottesa a tutta la stagione corre l’idea che in cucina non si è mai soli, non solo per la presenza dei componenti della brigata ma anche perché si è depositari e portatori di un lascito che viene continuamente riformulato, non si è soli perché si è sempre affiancati – nel bene come nel male – da chi è venuto prima e da chi verrà dopo. Credo non sia casuale che le due puntate che più riflettono su questi temi siano la prima e l’ultima, tutta incentrata sul funeral dinner, la cena di commiato del ristorante Ever. La scena della cena vera e proprio è introdotta, come sulla soglia di ingresso al testo, da una serie di articoli, recensioni, profili biografici relativi alle figure degli chef che vi prenderanno parte. Pur riferendosi a personaggi reali non sono articoli realmente esistenti anche se perfettamente verosimili nei toni, ricalcati anzi, nello stile e nel font, su quelli di testate come New Yorker, New York Times e Bon Appétit.
La terza stagione è stata accusata di fare propaganda al fine dining, di aver disatteso le aspettative delle precedenti stagioni, di aver riservato troppo tempo alle elucubrazioni sul ristorante, sottraendolo così alle turbolente vicende della famiglia Berzatto.
Queste relazioni si fanno scoperte proprio nell’episodio del funeral dinner. Christina Tosi, chef e fondatrice della catena di bakery Milk Bar, di cui ha pubblicato diversi cookbook, ha raccontato di essersi sentita onorata dalla proposta di prendere parte all’episodio, elettrizzata dalla prospettiva di condividere uno spazio di riflessione con i suoi colleghi e con il cast della serie. La scena è stata girata quasi del tutto senza sceneggiatura, suggerendo soltanto agli chef di parlare, beh, di cose da chef. Il rischio che queste conversazioni finissero per sembrare troppo “confidenziali”, opache per chi non possiede i codici di lettura ‒ per chi non aspetta con attesa ogni anno l’assegnazione dei James Beard Book Awards o del Food and Wine Best New Chef, per chi non è mai stato sfiorato dal pensiero di spendere 500 euro per il catalogo generale di ElBulli 2005-2011 ‒, viene evitato grazie all’uso dei racconti personali degli chef come dispositivi narrativi. Tutti gli argomenti di cui i veri chef discutono sono funzionali a spiegare le motivazioni dell’agire dei personaggi di finzione.
Quando Tosi dice che la peggior esperienza per chi lavora in cucina è quella di capitare sotto un capo tirannico, Carmy visualizza le vessazioni subite in passato dallo chef David Fields, personaggio di finzione che esibisce ed esaspera tutti i comportamenti tossici che si registrano nelle cucine; al ricordo commosso di Mark Livingston II – ex pastry chef del Noma e modello dichiarato per il personaggio di Marcus – del suo primo piatto, una ganache al cioccolato, accolto con entusiasmo dallo chef de cuisine e inserito in menù, corrisponde quello desolato di Sydney che si è vista più volte rifiutare le proposte da Carmy.
Ogni testimonianza – il progressivo perfezionamento del primo dessert di Anna Posey, pastry chef e proprietaria del ristorante Elske di Chicago; la sindrome dell’impostore lamentata da Genie Kwon, chef e proprietaria di Kasama, il primo ristorante di cucina filippina a essere premiato con una stella Michelin ‒, non si esaurisce nei limiti dell’autobiografismo ma, agisce come un attraversamento che, da una parte stabilisce una continuità e un dialogo con le vicende dei personaggi di finzione, dall’altra procedendo per frammenti e illuminando gli spazi interstiziali di un discorso che siamo abituati a sentire sempre nelle stesse forme, contribuisce a moltiplicare l’orizzonte del dicibile e del raccontabile intorno alle storie di chi abita gli spazi dei ristoranti. Non posso comunque evitare di chiedermi quale sarebbe stata la mia esperienza di visione se fossi stata sprovvista delle coordinate necessarie a leggere e interpretare gli indizi. Immagino che se non avessi conosciuto la ricerca di Grant Achatz, sarei rimasta piuttosto disorientata di fronte a due persone adulte che parlano di palloncini nel contesto di un ristorante.
Ogni testimonianza degli chef reali agisce come un attraversamento che, da una parte stabilisce una continuità e un dialogo con le vicende dei personaggi di finzione, dall’altra contribuisce a moltiplicare l’orizzonte del dicibile e del raccontabile intorno alle storie di chi abita gli spazi dei ristoranti.
In definitiva tutta la terza stagione sembra riflettere su una domanda: lo chef ideale, come dovrebbe essere? Questo interrogativo sollecita i ragionamenti delle persone attive nel mondo della ristorazione ormai da tempo. L’archetipo dello chef geniale ma dispotico è stato ormai demitizzato, gli chef si scusano per i loro comportamenti violenti e umilianti, mettono in discussione le regole che hanno governato per decenni le cucine, aspirano a rendere il lavoro più umano, più improntato a un bilanciamento sano con la vita privata che a una martirizzante etica del sacrificio. Già nel numero Fantasy di Lucky Peach del 2015 tra cene medievali, piatti surrealisti ispirati ai dipinti di Dalì e lisergiche degustazioni nei ristoranti di Disneyland, emerge la fantasia dello chef del Noma René Redzepi, quella, cioè, di una cucina più felice, di uno spazio di lavoro più comunicativo e meno ostile, in cui i cuochi possano finalmente interrompere la coazione a ripetere gli atteggiamenti mortificanti a cui sono stati loro stessi sottoposti per anni. “Chi vuole andare a lavorare ogni giorno arrabbiato?” si chiede Redzepi che, nello spirito di collaborazione più volte auspicato sulla rivista, conclude il suo pezzo invitando i lettori a rispondere con proposte e suggerimenti per cambiare la cultura della ristorazione.
In tempi più recenti, la pressione e la visibilità mediatica che hanno investito gli chef sembrano aver legittimato la categoria a interrogarsi per la prima volta in modo così scoperto e capillare su sé stessa. Gli chef non parlano più solo di piatti: parlano soprattutto di come essere chef. Molti di loro appartengono ormai più alla dimensione del fuori che non del dentro; a quella del davanti – cucinano spesso davanti ai clienti, i loro volti e i loro corpi sono spesso davanti a videocamere e sugli schermi – più che a quella del dietro. Credo che in questo nuovo regime di ipervisibilità oltre a essere più esposti, gli chef siano diventati più vulnerabili. Il cambio di sensibilità ha portato a rifiutare i vecchi paradigmi e a tentare faticosamente di trovarne dei nuovi, in una estenuante e continua negoziazione tra la tendenza a replicare comportamenti malsani e il desiderio di superarli, la stessa in cui è impegnato Carmy nella terza stagione, in un corpo a corpo massacrante con i suoi fantasmi. Credo sia riconducile a questa temperie culturale la pubblicazione di Chef Wise. Life lessons from leading chefs around the world, un curioso volume in cui Shari Bayer, conduttrice e produttrice del podcast All in the Industry, sul disvelamento del dietro le quinte del fine dining, convoca alcuni tra gli chef più celebri nel panorama della ristorazione contemporanea – da Ana Roš a Virgilio Martínez – interrogandoli intorno ad alcune questioni che hanno a che fare con il loro modo di percepirsi come chef.
Il risultato è un libro strutturato per nodi tematici – comunicazione, filosofia, leadership, identità, equilibrio vita-lavoro – affascinante non solo per la pluralità delle voci coinvolte ma anche per la forma stessa in cui si articola. Le diverse testimonianze degli chef, presentate come lacerti di interviste, compongono i frammenti di un’autobiografia collettiva della categoria, in cui si registrano più ricorrenze che eccentricità. Al tempo stesso un libro come questo trascende la funzione documentaristica, non è solo un collage di esperienze e di memorie intorno alla cucina. Sembra piuttosto porsi a metà tra un testo divinatorio da consultare all’occorrenza in cerca di risposte, e un prontuario, un manuale che, disegnando il profilo dello chef ideale, proponga delle coordinate per orientarsi tanto nella scelta dei coltelli quanto nella messa in discussione della vecchia cultura delle cucine.
L’archetipo dello chef geniale ma dispotico è stato ormai demitizzato, gli chef si scusano per i loro comportamenti violenti e umilianti, mettono in discussione le regole che hanno governato per decenni le cucine, aspirano a rendere il lavoro più umano.
I cookbook, infatti, si offrono a una pluralità di letture: funzionano come documentazione di un periodo storico, come manuali di istruzioni, come testi di antropologia e storia culturale. Sono dispositivi che operano secondo una duplice direttrice: da una parte intercettano, cristallizzano e raffigurano i mutamenti del gusto, delle tendenze e delle sensibilità, dall’altra dirigono la curiosità, influenzano quello che cuciniamo, il modo in cui pensiamo al cibo ma anche come ne parliamo e come lo fotografiamo. Sono luoghi di migrazioni transmediali, su cui si stratificano materiali di natura diversa: disegni, foto, sia dei piatti che degli ambienti del ristorante e delle persone che ci lavorano, ma anche mappe, pagine di diario, stralci di appunti. Hanno un’iconografia che li rende immediatamente riconoscibili e riconducibili a uno spirito del tempo specifico: nel 2010 le foto dei piatti erano molto staged, simili ai modelli delle nature morte, nei cookbook di oggi assomigliano più a tranche de vie: non di rado nell’inquadratura compaiono porzioni del corpo di chi li ha preparati.
Nel dopoguerra hanno assolto a un fondamentale compito pedagogico: sono stati strumenti di alfabetizzazione culinaria, di accesso e mediazione verso altre civiltà gastronomiche – basti pensare al lavoro di Elizabeth David (A book of Mediterranean Food, 1950; Italian Food, 1954; French Provincial Cooking, 1960), Claudia Roden (A Book of Middle Eastern Food, 1968; Mediterranean Cookery, 1987; Arabesque. Sumptuous Food from Morocco, Turkey and Lebanon, 2005) e, in tempi più recenti, Fuchsia Dunlop, di cui è da poco arrivato in italiano Invito a un banchetto. Sapori e storie della cucina cinese (2025). Oggi si pongono in dialogo con i recenti orientamenti dell’editoria: hanno spesso un tono memorialistico, sono sempre più apprezzati per la voce degli autori, per quello che emerge della loro vita, spesso sono più personal essay che raccolta di ricette.
In “The Quest” apparso sul New Yorker nel 2005 Jane Kramer muove dalla sua ossessione per i cookbook – pile sparse nel suo appartamento su cui favoleggia pasti che non avrà tempo di preparare: il purè di patate di Joël Robuchon, i ravioli di zucca di Claudia Roden, la polenta rossa e verde di Marcella Hazan – per tracciare una storia della loro fruizione. Basandosi sulla sua esperienza e sulle testimonianze di chef, editori e storici della cucina, Kramer divide i cookbook in due categorie: quelli che non si ha timore di sporcare con schizzi di sugo e macchie di grasso e quelli che considera più simili a coffee table book, non solo per il loro formato, per il loro aspetto patinato, la cura dell’impaginazione e la ricchezza delle stampe fotografiche, ma, soprattutto, perché sembrano aver rimpiazzato i cataloghi d’arte come oggetti identificativi di uno status sociale e culturale che li rende una presenza decorativa irrinunciabile negli appartamenti newyorkesi.
I cookbook funzionano come documentazione di un periodo storico, come manuali di istruzioni, come testi di antropologia e storia culturale e la loro presenza, meno episodica e più costante, nella terza stagione sembra inserirsi nel generale cambio di registro in senso metanarrativo.
Nell’episodio 9 un’inquadratura riprende diverse pile di cookbook affastellati sul pavimento. Sono i libri che Carmy tiene a casa, verosimilmente quelli che sente più vicini, meno legati al ristorante. A corroborare questa tesi sono i titoli stessi. In mezzo ai cookbook dei ristoranti ci sono, infatti, alcune voci dissonanti. Ci sono alcuni libri inquadrabili nel genere del food writing: c’è Medium Raw (2010), ideale seguito del bestseller Kitchen Confidential (2000), in cui Anthony Bourdain traccia una panoramica dell’orizzonte della ristorazione statunitense degli anni Dieci. C’è The Year of Eating Dangerously: A Global Adventure in Search of Culinary Extremes del food journalist Tom Parker Bowles – tra le altre cose figlio della regina Camilla e di Andrew Parker Bowles – che, incuriosito dalle fobie alimentari dei suoi amici, si imbarca in un’esplorazione bourdaniana di tutti quei cibi che, considerati pericolosi dalla sua cultura di appartenenza, fanno parte del canone delle prelibatezze di altre civiltà gastronomiche. Ancora riconducibile al sottogenere della quête culinaria è Serious Eater: A Food Lover’s Perilous Quest for Pizza and Redemption (2019), che racconta la storia di Serious Eats, un blog creato dal giornalista Ed Levine con l’obiettivo di scoprire e recensire il meglio delle più diverse categorie del commestibile: dal menù degustazione di Per Se al ramen istantaneo, dagli hot dog all’omakase di Nobu.
C’è anche un libro piuttosto singolare: Cooking at Home: Or, How I Learned to Stop Worrying about Recipes (And Love My Microwave) (2021), dello chef David Chang e dell’attuale critica gastronomica del New York Times Priya Krishna. Dello stesso Chang mancano i due titoli più noti, il cookbook Momofuku (2009), comprensivo di ricette e storie provenienti dai ristoranti Noodle Bar, Ssam Bar e Momofuku Ko, e il memoir Eat a Peach (2022) in cui lo chef americano affronta la questione della sua salute mentale, soprattutto rispetto al burnout scaturito dal lavoro in cucina e che Carmy dovrebbe decisamente leggere. La scelta non è così bizzarra come sembrerebbe: Cooking At Home, infatti, partendo dall’assunto che raramente gli chef professionisti sono anche bravi cuochi domestici, sia perché affetti da manie di perfezionismo, sia perché non sono quasi mai a casa negli orari di preparazione dei pasti, indica scorciatoie e suggerimenti per ridurre i tempi e mantenere comunque il titolo e la dignità da chef. Una specie di Elena Spagnol versione due stelle Michelin.
La maggior parte della collezione di Carmy è composta da cookbook che rivelano le sue origini – Essentials of Classic Italian Cooking (1992) di Marcella Hazan, che ha introdotto il pubblico americano alla cucina regionale italiana, rendendo popolari piatti come l’ossobuco e ingredienti pressoché sconosciuti tra cui il radicchio – e la sua formazione francese-californiana – The Art of Simple Food: Notes, Lessons, and Recipes from a Delicious Revolution: A Cookbook (2007) di Alice Waters, la prima chef a strutturare la sua proposta sull’uso delle verdure di stagione, teorica della filosofia from farm to table. Una buona parte delle pile è occupata da una categoria specifica di cookbook, quelli legati ai singoli ristoranti e alle singole personalità degli chef. Come rivela Corey Lee, allievo di Thomas Keller, nel cookbook del suo ristorante Benu (2015) – che nella stessa puntata Carmy sfoglia in cerca di suggerimenti – i cookbook dei ristoranti nascono dall’obiettivo di archiviare, documentare e tramandare una materia di per sé necessariamente effimera. In relazione a questi aspetti Lee parla di archiviazione del gusto.
Quelli che compaiono in The Bear appartengono tutti a un ipotetico canone dei libri che ogni chef, indipendentemente dalla direzione della sua ricerca, dovrebbe possedere. Spesso sono libri indicati dagli chef stessi come costitutivi del loro percorso. Alcuni, come Polpo: a Venetian Cookbook (of sorts) di Norman, Russell (2012) sono diventati oggetti di culto anche per la ricchezza dell’apparato iconografico, in questo caso evocative fotografie del paesaggio lagunare e scorci di Venezia. Altri si sono imposti come manifesti di nuovi approcci alla cucina: si pensi, ad esempio, a Nose to Tail Eating. A Kind of British Cooking (1999) in cui Fergus Henderson esprime la filosofia che guida il suo ristorante, St. John a Londra, ovvero l’utilizzo dell’animale in tutte le sue parti.
Accanto a testi così noti, riconoscibili anche da un pubblico di amatori, figurano altri libri, non meno apprezzati, la cui influenza si misura però su un piano più sotterraneo: quei libri che diventano oggetto di collezionismo e di idolatria soprattutto tra gli chef. Mi riferisco a Organum: Nature Texture Intensity Purity (2014) – ad oggi introvabile in formato cartaceo, ma presente nella biblioteca di Carmy – dello chef australiano Peter Gilmore, di cui in The Bear appare anche un altro cookbook, Quay: Food Inspired by Nature (2010). Persino Ken Concepcion, chef e proprietario della libreria specializzata in cookbook Now Serving a Los Angeles, chiamato su Eater a ragionare sulla collezione di Carmy e sullo stato dell’editoria culinaria, definisce la presenza di Organum nella serie un grande flex, proprio a causa della sua irreperibilità. Nello spirito di superamento dei confini tra realtà e finzione che, si è visto essere la cifra stilistica di questa stagione, Concepcion spiega che Carmy potrebbe averlo acquistato solo da Kitchen Arts and Letters a New York o da Omnivore Books a San Francisco. Si vocifera che almeno uno chef newyorkese abbia tatuato sul braccio il calamaro disegnato che compare nelle illustrazioni interne del libro.
Accanto a testi molto noti, riconoscibili anche da un pubblico di amatori, figurano altri libri, non meno apprezzati, la cui influenza si misura però su un piano più sotterraneo: quei libri che diventano oggetto di collezionismo e di idolatria soprattutto tra gli chef.
Io stessa ho una cartella con gli screenshot delle scene in cui compaiono i cookbook, a cui torno quando immagino la mia biblioteca culinaria dei sogni. Su riviste come Eater e Food&Wine tutti gli aspetti di The Bear sono indagati, esaminati, sezionati: dalla famosa t-shirt bianca di Carmy, al tape verde – scuola French Laundry – usato per registrare le preparazioni, dalla collezione di foulard di Sydney ai servizi di ciotole e piatti. Due sono le principali tipologie discorsive emerse nel racconto mediatico della terza stagione: gli articoli che puntano a riconoscere e identificare, che si risolvono spesso in una successione di liste – i ristoranti che appaiono nella serie, i dettagli sulle pentole e gli utensili usati in cucina – e quelli che interrogano professionisti della ristorazione sulla attendibilità della serie: quanto è realistica la lista dei non-negotiables di Carmy? Quanto è verosimile la gestione delle spese del ristorante? Che peso ha, realmente, una recensione? Perché non ci sono gli influencer?
È plausibile che un ristorante fine dining accetti di intrattenere i clienti con sorprese personalizzate e piñate? A quanto pare sì. Sembra che nello staff dell’Eleven Madison Park, tre stelle Michelin, ci siano alcune figure chiamate dreamweaver che si occupano della componente magica della cena. Le probabilità che dietro al modo di intendere il servizio di Richie, tutto improntato sull’importanza di costruire un ambiente che incoraggi a festeggiare e a sognare, ci sia l’influenza del ristorante newyorkese sono molto alte e si spiegano, come al solito, guardando agli easter egg. A dirigere per tanti anni Eleven Madison Park è stato Will Guidara, autore di Un servizio pazzesco. Il potere incredibile di offrire una hospitality al di sopra delle aspettative (che Richie legge con attenzione nella seconda stagione), oltre che marito della pastry chef Christina Tosi, coproduttore della terza stagione e ospite del funeral dinner di Ever.
Dopo l’uscita di The Bear ho letto diversi articoli scritti da professionisti della ristorazione che rivendicavano la loro fruizione della serie come separata, più autentica e intimamente dolorosa rispetto a quella di tutti noi che delle cucine conosciamo solo le dinamiche esterne. Noi che riconosciamo lo chef, sappiamo dove si è formato, qual è il suo piatto signature che non toglie mai dal menù, ma che ignoriamo le frustrazioni, la pressione, il sovvertimento dei ritmi di vita, in definitiva la sofferenza di chi è dietro il piatto. Noi che approdiamo al ristorante per festeggiare, consolarci, sentirci meno soli, entrare nello sguardo dell’altro e che dal ristorante ci allontaniamo quasi sempre solo con ricordi piacevoli. Noi che possiamo assistere con divertita curiosità, senza essere immediatamente assaliti dal panico, alle scene concitate di The Bear in cui le comande si accumulano, i piatti tornano indietro, le ordinazioni si sovrappongono, si modificano, le salse bruciano, i toni si alzano, esplode la rabbia.
Trovo questo punto di osservazione condivisibile. Allo stesso modo penso di poter affermare con sicurezza che la terza stagione si rivolge finalmente a un “noi” in cui mi sento del tutto inclusa. È per noi che ci siamo convinti di non poter vivere senza la prima edizione di White Heat autografata da Marco Pierre White (è sullo scaffale più alto della mia libreria), per noi che leggiamo con devozione tutti gli articoli di Eaten, che facciamo i cruciverba a tema culinario su Vittles, che aspettiamo con ansia i nuovi menù dei ristoranti, che, facendo nostra la massima “Steal the menu” del critico gastronomico Raymond Sokolov, li rubiamo con disinvoltura, li collezioniamo e ora siamo pieni di menu gelosamente custoditi, noi che già a una prima occhiata siamo in grado di dire se quel piatto è troppo 2015, che compulsiamo per ore i subreddit Ask food historian. La nostra scalcagnata, piratesca e ipercitazionista comunità di kitchen geek è finalmente diventata cool.