

P er i più distratti Steven Soderbergh è un regista che gira molti film, forse troppi. Che cambia genere da un film all’altro, dirige bene gli attori, sa tenere avvinti alla trama. Il prototipo del regista medio americano, una categoria che apparteneva al secolo scorso e che oggi sembra una specie protetta, destinata a essere fagocitata dalle piattaforme e dagli altri supercattivi digitali a cui ci piace attribuire ogni colpa.
Non è così. Soderbergh per primo sembra essere disinteressato a come viene percepito da pubblico e critica, libero di svolazzare da un ambito all’altro e mescolare il gioco e l’esercizio intellettuale, il romanzo e l’analisi sociologica e psicologica, l’alto e il basso. La sua è un’interpretazione del cinema e delle sue infinite potenzialità – che ancora sono tali – che si potrebbe definire hitchcockiana e che non è in contraddizione con il ricorrente annuncio di voler girare un ultimo film e abbandonare tutto. Perché Soderbergh è come quegli atleti che annunciano più volte il ritiro, ma poi ci ripensano e regalano un’ultima prodezza (da piccolo ricordo di aver assistito ad almeno tre partite di calcio per celebrare un argentino di nome Ardiles, che evidentemente era solito ripensarci).
Più è tentato dal desiderio di smettere, più sembra che lo stimolo intellettuale lo porti in direzione di uno sforzo ulteriore per studiare la natura umana e offrire qualcosa di unico. L’oggetto ricorrente del cinema di Steven Soderbergh è l’homo sapiens e come la sua complessità cerebrale si mescoli con la sua sostanza ferina; con la sua capacità di costruire sovrastrutture in cui smarrirsi e soffrire, come il capitalismo, e la sua volontà di uscirne e ritrovare la libertà. Quando parla di rapine, di spogliarellisti, di spie, di stalker o di fantasmi, Soderbergh racconta sempre di questo, di uomini e donne in fuga dalla gabbia che si sono costruiti. Lo fa al ritmo di un film abbondante all’anno, instancabile, e nell’ultimo caso, con Black Bag – Doppio gioco (2025) ha realizzato quella che appare quasi come una summa di questo pensiero e di questa poetica.
La sovrastruttura è il racconto di spionaggio nell’epoca della post-verità, che si incastra con un’altra, quella della relazione di coppia e della conseguente necessità di fiducia reciproca, in un presente in cui ogni unione sembra vicina al punto di rottura. È il terzo film di un sodalizio che ha visto Soderbergh avvalersi della sceneggiatura di David Koepp (in curriculum Carlito’s Way, Mission: Impossible e lo Spider-Man di Sam Raimi, 2002, quello del “da un grande potere derivano grandi responsabilità”): i precedenti sono Kimi – Qualcuno in ascolto (2022), il film definitivo sulla pandemia (quella vissuta, ma Soderbergh aveva girato già il film precognitivo sul vaticinio della medesima, Contagion, 2011), e Presence (2024), esperimento in soggettiva dove il punto di vista è quello del fantasma che infesta una dimora.
La sovrastruttura di Black Bag è il racconto di spionaggio nell’epoca della post-verità, che si incastra con un’altra, quella della relazione di coppia e della conseguente necessità di fiducia reciproca, in un presente in cui ogni unione sembra vicina al punto di rottura.
Come Soderbergh sia giunto qui è un percorso troppo lungo da raccontare in poco spazio, ma gli inizi li ricordiamo tutti: con Sesso, bugie e videotape (1989), intuisce in anticipo di un decennio la crisi della virilità e del machismo, il potere dell’immagine filtrata dai media, l’erotismo della sessualità suggerita e osservata più che esperita. Con quel film si suole dire che nasca il cinema indipendente. E se gli anni successivi al debutto saranno un tentativo di trovare una propria identità nell’incertezza, sarà il seguito della storia a rendere Soderbergh l’autore elettrizzante che oggi sa fotografare la contemporaneità come nessun altro. Dopo il successo di Ocean’s Eleven – Fate il vostro gioco (2001) e seguiti vari, una volta che la critica sembra poter nuovamente accantonare Soderbergh come un regista medio, come un incidente di percorso sopravvalutato dai più, ecco che il cineasta di Atlanta scava nel torbido ed estrae dal cilindro alcune B-side destinate a diventare titoli di culto. Cose come Effetti collaterali (2013) o The Girlfriend Experience (2009) – che sdogana l’uso di una pornostar, in apparente controcasting – e prima ancora Out of Sight (1998) o L’inglese (1999), sottovalutati lavori destinati a influenzare decenni di cinema.
Ma è il Soderbergh del terzo millennio quello che forse rimarrà, per la capacità sfacciata di concentrarsi sul cash flow, sull’intelligenza di “seguire il denaro” per arrivare in fondo alla tana del Bianconiglio, dove si cela il segreto profondo del sogno americano. Un film come Panama Papers (2019), quasi didascalico nella sua meccanica rappresentazione di cosa significhi “seguire il denaro”, è la teoria pura, esternata senza sotterfugi. Ma è nel simbolico e dove meno ce lo si può attendere che le regole espresse in Panama Papers trovano la realizzazione più compiuta, rimanendo nella struttura del cinema americano classico ma raccontando una società che con il classico e il secolo breve non ha più nulla a che fare. La stella polare della ricerca dell’ultimo Soderbergh è il denaro, il Capitale, the root of all evil itself. Nessuno come lui ha saputo negli ultimi trent’anni raccontare l’ossessione dell’America per il denaro e come quest’ultimo si accumuli o sparisca, transiti da una tasca all’altra, crei e distrugga vite intere. Ocean’s Eleven, The Girlfriend Experience, Effetti collaterali o l’esplicitamente teorico Panama Papers non sono che circonlocuzioni attorno al biglietto verde; variazioni minime, quasi intercambiabili, di una struttura portante, come lo erano principi, streghe e principesse nelle fiabe dei fratelli Grimm.
La stella polare della ricerca dell’ultimo Soderbergh è il denaro, il Capitale, the root of all evil itself. Nessuno come lui ha saputo negli ultimi trent’anni raccontare l’ossessione dell’America per il denaro e come quest’ultimo si accumuli o sparisca, transiti da una tasca all’altra, crei e distrugga vite intere.
Nel 2021, data che significa immediato post-Covid, in mezzo a una miriade di opere onanistiche di cineasti che si riprendono e si raccontano nei giorni del lockdown, Soderbergh stringe una collaborazione che diverrà sodalizio con David Koepp. L’esito è Kimi, visto da pochi, un dispositivo thriller impeccabile che racconta la pandemia all’interno di una cornice di genere. I primi minuti, in cui il CEO di una startup conduce una call di Zoom in mutande, ma mostrando a favore di webcam un completo impeccabile, hanno già emesso una sentenza sulla speranza di “diventare migliori” che i soliti ottimisti auspicavano, una volta conclusasi l’esperienza pandemica. Bassezze e sotterfugi di una new economy posticcia e cafona, che chiama un’azienda Amygdala, come il primo utensile inventato dall’uomo, pretendendo di produrre qualcosa di altrettanto indispensabile per la collettività. Ma dove l’amigdala permise all’uomo del Neolitico di vincere gli ostacoli dell’ambiente circostante, Kimi – un’intelligenza artificiale sul modello di Alexa ‒ è un dispositivo nato per ascoltare, registrare e affinarsi. Siamo noi uomini a essere le amigdale di Kimi, a tal punto che sarà la macchina stessa a intrappolare inconsapevolmente il suo creatore.
Senza una cifra stilistica ricorrente né vezzi esoterici atti a compiacere la critica, Soderbergh è autore proprio per la sua capacità di spaziare tra mainstream e indie, pur di aderire al presente e intuire il futuro prossimo. È un camaleonte che muta in continuazione, per potersi mimetizzare in una società deideologizzata ma fintamente specializzata, ossessionata dalla verticalità e smarrita in mille rivoli non comunicanti. Una realtà complicata da interpretare, anche quando spesso non vale la pena farlo. Ma per Soderbergh vale sempre la pena. È nella sua metodica e maniacale ricerca, degna di George Woodhouse, il protagonista di Black Bag, che sta tutta la differenza rispetto ai colleghi. Dove gli altri sono fragili, George è impermeabile; dove gli altri si lasciano andare, George ragiona, senza smarrire mai la lucidità. Inserito nel contesto del servizio segreto britannico, che è locus cinematografico per definizione, e con un capo come Pierce Brosnan, de facto ex James Bond, George è addestrato a scovare la verità sotto vari strati di menzogne e senza ricorrere a macchine apposite, benché non disdegni farlo occasionalmente. Il metodo George è tale anche quando è costretto ad applicarlo alla moglie e spia, di cui è profondamente innamorato e geloso, come un monogamo fedele di altri tempi.
Senza una cifra stilistica ricorrente né vezzi esoterici atti a compiacere la critica, Soderbergh è autore proprio per la sua capacità di spaziare tra mainstream e indie, pur di aderire al presente e intuire il futuro prossimo.
Il piano-sequenza iniziale, che segue “scorsesianamente” la nuca di Michael Fassbender nell’attraversamento di locali notturni per incontrare un collega, trasmette senza ricorso alle parole il disagio di George di fronte a un contesto alieno. Ma la necessità di intraprendere il viaggio è guidata da un obiettivo più elevato: il senso del dovere e la ricerca della verità, che, per George, sono sinonimi. La sequenza successiva, ancor più strabiliante, pone di fronte a un tavolo sei personaggi e li sottopone a un gioco al massacro di rivelazioni e menzogne. Le seduzioni incrociate, e la costante tensione sessuale che trasmettono, transitano in seguito da sedute di terapia della psicologa dei servizi segreti, lei stessa al centro di un triangolo scaleno di relazioni e tradimenti. Si delineano due rami paralleli: il tema principale e apparente, la trama spionistica, seguita con meticolosa attenzione; e il tema, sotterraneo ma non troppo, della fiducia in una relazione coniugale nell’era degli avatar e della doppiezza sistematica.
George vuole andare fino in fondo a ogni cosa, come la macchina da presa impazzita di Soderbergh: anche quando questo non è possibile e la razionalità è costretta ad arrendersi di fronte all’irraggiungibilità dell’onniscienza. La montagna del Purgatorio di Ulisse o il piano metafisico e inaccessibile per Virgilio sono per George i non detti del sentimento d’amore, che obbligano a fidarsi, senza conoscere. “In passato c’erano gli artisti e i filosofi che ci aiutavano a distinguere. Ora no” dice Soderbergh stesso di fronte alla complessità interpretativa del presente e la similitudine tra autore e alter ego si fa fusione pura e semplice. La scelta di affidare il ruolo di George a Michael Fassbender è semplicemente perfetta: la sua graduale trasformazione in androide risale già a Prometheus (2012) di Ridley Scott, ma anche The Killer (2023) di David Fincher insisteva su questo repertorio attoriale, qui ulteriormente affinato.
Nelle mani di Soderbergh, l’attore diviene l’unico 007 possibile per questi tempi incerti: la capacità di rendere credibile l’unemotional George è tanto più straordinaria quanto è percepibile l’unico momento in cui il suo aplomb vacilla. Nella scena dell’inatteso svelamento della talpa interna ai servizi segreti George è scosso da un brivido, dal sospetto che Kathryn (Cate Blanchett) possa essere implicata e che lui possa essere al centro di una cospirazione. Il castello di certezze sembra sul punto di crollare e ogni emozione è visibile sul volto e nella gestualità di Fassbender, maniaco della pianificazione minacciato da una rotella dell’ingranaggio che non è dove dovrebbe essere. Come un bambino che non trova il pezzo dei Lego necessario per seguire le istruzioni, così George deve resettare la propria concezione del mondo per ripartire da zero nella sua indagine. E noi con lui, con un affidabile Virgilio di nome Soderbergh a guidarci fin dove potrà.