C’
era una volta, bambini e bambine (si è scelta questa declinazione di genere, in linea con le indicazioni del governo), un re invisibile.
Dov’era? Nell’ombra proiettata da mille riflettori.
Dal 2023, Gaycs LGBT, associazione di promozione sociale all’interno di AICS (Associazione Italiana Cultura Sport, settore LGBT) organizza i Rainbow Awards, Premio internazionale “Roma per i diritti LGBTQIA+”, una premiazione destinata alla comunità e, soprattutto, agli alleati, distintisi per aver dato visibilità a istanze di giustizia sociale in ottica sessuale: “Un premio alla solidarietà, alla volontà, al coraggio e ai diritti”, recita la loro comunicazione. L’edizione di quest’anno, il 20 gennaio 2025 a Largo Venue, è stata diretta e condotta dal duo drag Karma B e da Vladimir Luxuria, e ha destinato un riconoscimento a Roberto Gualtieri, Bianca Berlinguer, Serena Bortone, Paola Iezzi, Ditonellapiaga, Paolo Camilli, Margherita Ferri, Tommaso Giartosio, Alessio Marzilli e Valentina Petrillo. “Non una data scelta a caso”, il 20 gennaio, leggiamo sul loro sito, “perché è la stessa dell’insediamento di Donald Trump. Nelle stesse ore in cui negli States il nuovo presidente tornerà alla Casa Bianca, avrà inizio l’evento a Roma, non con uno show ma con un ‘assalto’, come solo la comunità LGBTQIA+ sa fare quando si tratta di difendere libertà e diritti”.
A metà dell’evento, uno sciame di drag king (artist3 che giocano, problematizzano e parodizzano la mascolinità in a camp way) ha marciato dal fondo della sala verso il palco con una cassa portatile che suonava “Let Me Entertain You” dei Queen: Savage e Agonia Dickson, Kawaken, Ramon e Pab de la Buena Passion si sono infiltrati nelle maglie strette di un microcosmo aperto all’alterità, purché mi somigli. Come nei film in cui si raccontano le storie dell’orrore sotto le coperte, ciascun performer illumina il viso dell’altro con la propria torcia, scandendo le parti del lipsync collettive e gli assoli. Alla fine della performance, i cinque artisti di cinque diverse coordinate drag, espongono il loro manifesto spiritico:
– Chi siamo?
– Drag king
– Cosa vogliamo?
– Visibilità, spazi e paghe eque
– Altrimenti?
– Vi infestiamo.
Sintomo di un altrove mai presente, di un altro innominabile, gli spettri segnalano le angosce culturali di un tempo sedicente razionale; attraverso la loro infestazione zampilla ciò che sempre sfugge al controllo e alla tassonomia, eppure esiste. Lo spettro è la rivelazione dell’ultima illusione: che la naturalizzazione della mascolinità, sacra e neutra, e della femminilità, ornamentale e performativa, è solo un altro gioco a cui ci siamo dimenticati di star partecipando.
Il medium ideatore della protesta viene chiamato sul palco: “Ignorare cosa sia un drag king non può essere più una scusa”. La rimostranza si sposta nel solco tracciato da una moltitudine di king in tutto il mondo, invisibili nel panorama drag internazionale: “Siamo in un queendom”, confessa il drag king Valentin al Dragcon di Londra, la convention di drag mainstream più grande d’Europa, sintagma di un immaginario di assenze.
Se le drag queen divengono corpi impalpabili, perduti nei riflessi in una stanza di specchi, eretti a simboli ed esempi di una società che guarda loro attraverso, i king si mostrano come le ombre di quegli specchi, invisibilizzati anche all’interno della comunità LGBTQIA+ e drag.
L’iniziativa “Book drag kings” ha fatto esplodere la questione fuori da ogni regionalismo: in Occidente, artisti che giocano con la mascolinità,
drag things,
drag creature e, in generale,
drag being si sono mostrati sui social con cartelli a sostegno della causa, ne hanno favorito la contaminazione con le performance proprie e delle colleghe
queen maggiormente visibili. Sia le
drag queen che i
drag king, in modalità speculari, si collocano in un regime di ipervisibilizzazione spettrale, dove tutto è sovraesposto tanto da essere accecante e invisibile. Se le
drag queen divengono corpi impalpabili, perduti nei riflessi in una stanza di specchi, eretti a simboli ed esempi di una società che guarda loro attraverso, i
king si mostrano come le ombre di quegli specchi, invisibilizzati anche all’interno della comunità LGBTQIA+ e
drag.
In una dinamica di materializzazione ectoplasmatica, l’universo drag ha il potere di rendere materico questo cortocircuito di spazio e visibilità, di dare forma al sistema di invisibilizzazione, di far fuoriuscire dal naso i paradossi in una consistenza analizzabile: la protesta contro l’invisibilizzazione dei drag king è stata, infatti, invisibilizzata. Come si trattasse del periodo pandemico, la performance ha subito una rimozione di massa: nonostante la serata e la giuria del concorso sia stata popolata da attivisti o, addirittura, drag king, nessuno ha pubblicamente espresso il proprio supporto sul palco. Alla fine dell’evento, sono pochissimi i presenti a manifestare interesse, una persona si avvicina, chiede le motivazioni dell’interruzione della scaletta della serata: si tratta di un poliziotto in borghese. Nei giorni successivi, riverbera l’assenza di tracce della protesta tra le foto e tra gli articoli sull’evento, anche tra le pubblicazioni su riviste a tematica LGBTQIA+ come Gay.it.
La performance di Savage Dickson per il proprio format Révolte a Latte Fresco del 25 gennaio 2025 plasma la materia del paradosso in una canzone sull’“uomo cellophane”: dovrebbe essere il loro nome, Mister Cellophane…
Cellophane, Mister Cellophane
Should have been my name, Mister Cellophane
‘Cause you can look right through me
Walk right by me and never know I’m there
Che il re resti nudo, tanto nessuno riesce a vederlo. Cosa succederebbe se i re venissero resi soggetti? Per parafrasare Ahmed, cosa escludiamo dallo sguardo quando occultiamo dei corpi che giocano con la mascolinità? Dalle interviste alla comunità drag, le motivazioni dello squilibrio di spazio tra queen e king sembrano dettate da Dio, dalla natura, calate da qualche principio primo: la mascolinità è più noiosa da inscenare, incarna l’anonimato e, soprattutto, non ci sono drag king in Italia, non capaci quanto le queen almeno. Eppure, come scritto nell’articolo Contro le “bio queen”, desacralizzare la norma, mostrare l’arbitrarietà di ciò che definiamo “naturale” non può che apparire come un’operazione artificiale, perché lo è, come la costruzione identitaria. La profezia autoavverante dell’inesistenza dei king in Italia racconta della paura e del disgusto glamourizzati verso l’organo genitale femminile anche all’interno della comunità omosessuale, mentre tratteggia un’idea essenzialista e seria di mascolinità, mai soggetta a pastiche o a decostruzioni. Non è un caso, invece, che i king indossino spesso quella mascolinità dalla mano destra in aria, inetta e fragile nel suo terrore di essere criticata, falsificata e, infine, smascherata come illusoria.
La profezia autoavverante dell’inesistenza dei king in Italia racconta della paura e del disgusto glamourizzati verso l’organo genitale femminile anche all’interno della comunità omosessuale.
La specificità di questa cancellazione, però, suggerisce anche altri indicibili terrori: della superficie e dell’irrispettabilità. La corporeità ha tradizionalmente costituito il centro delle rivendicazioni della comunità: a un sistema farmacopornografico che modella, controlla e plastifica i corpi, una certa corrente di militanza queer contrappone una corporeità molteplice, ludica e dissidente, una soggettività costruita da strumenti politici, artistici e, in qualche misura,
drag. Pensiamo, ad esempio, alla protesta del 4 luglio 1980 di un gruppo di donne alla piscina pubblica di Piazzale Lotto, vicino San Siro a Milano: i loro documenti esigono certe norme vestiarie che intendono rispettare per dissacrarle. In quanto persone AMAB (
Assigned Male At Birth), non possono indossare il top del bikini; le quindici donne si mostrano, dunque, in topless; “siamo transessuali, basta con le discriminazioni”, recitava lo striscione a margine dei loro corpi. Più recentemente, la stessa strumentazione di
guerrilla è stata utilizzata dalle persone AFAB (
Assigned Female At Birth) contro la
policy discriminatoria di Miss Italia che esclude le “donne non biologiche” dalla competizione. Consci del cortocircuito tra corpi, burocrazia e potere, molti uomini trans si sono iscritti al concorso sulla scia di Federico Barbarossa, primo ad aver attuato la strategia dissacratoria. Tra gli uomini che si sono potuti iscrivere al concorso, alcuni hanno deciso di manifestare virtualmente, altri attivisti si sono presentati alle selezioni, altri ancora hanno scelto di fare il provino; tra queste modalità di praticare il dissenso, Marte Pezzatini ha scelto di giocare con gli strumenti
drag e di indossare un’apparenza femminile per il casting.
A un sistema farmacopornografico che modella, controlla e plastifica i corpi, una certa corrente di militanza queer contrappone una corporeità molteplice, ludica e dissidente, una soggettività costruita da strumenti politici, artistici e, in qualche misura, drag.
Ed è a questo punto che la coesione di un segmento della comunità si frammenta, un gruppo di attivisti si dissocia dalla partecipazione al concorso di Marte in
drag perché una parte dei suoi documenti risulta già rettificata, in una conflagrazione di senso per cui la burocrazia contro cui si manifesta diviene la modalità d’accesso all’atto di manifestare. L’episodio fa ipotizzare anche che esista una buona e una cattiva protesta, che per “buono”, però, s’intenda “rispettabile”, uno dei valori che ha orientato le ingiustizie dicotomiche del contemporaneo. Le storiografie queer stanno dissotterrando, sotto il macigno della Storia, le storie delle non rispettabili, come le medium riscoperte da Mariano Tomatis, mentre lasciano implodere il concetto di linearità e teleologia storiche. Attraverso archivi privati e materiali effimeri, il cinema queer documentaristico contemporaneo sta tracciando i contorni di esistenze queer fuori dall’asse manicheo buono/cattivo, facendo rilucere le zone d’ombra dell’essere viventi. A riprova dello scollamento tra pratiche, immaginari e teorie, per l’attivismo non vale lo stesso discorso. Nella pratica politica, si fa fatica, bisogna fare sul serio per venir presi sul serio. La retorica sembra replicare la condanna di una fetta della comunità alla festa del Pride perché “non c’è bisogno di fare queste carnevalate per i propri diritti”. Una rivoluzione educata prevede, invece, il rispetto delle regolamentazioni che s’intende rivoluzionare, anche se negano l’esistenza dei corpi in rivolta. Il
drag, così come alcune linee di militanza queer, disconosce la legittimità del valore della rispettabilità, puntando il dito verso ciò che nasconde, le controversie e le contraddizioni delle esperienze umane, e la sostituisce con il gioco e la molteplicità.
A human being’s made of more than air
With all that bulk, you’re bound to see him there
Unless that human being next to you
Is unimpressive, undistinguished, you know who
Should have been my name, Mister Cellophane
‘Cause you can look right through me
Walk right by me and never know I’m there
I tell ya Cellophane, Mister Cellophane
Should have been my name, Mister Cellophane
‘Cause you can look right through me
Walk right by me and never know I’m there
Never even know I’m there
I hope, I haven’t taken too much of your time.