Freestyle su un monumento poco monumentale, cinquant’anni dopo.
Luca Martignani è professore associato di Sociologia presso l’Università di Bologna. La sua produzione accademica esplora temi diversi, accomunati da un approccio critico e orientato alla comprensione dei prodotti dell’industria culturale. I suoi studi indagano i meccanismi di produzione e ricezione di contenuti culturali, con particolare attenzione al cinema, alle serie TV e alla letteratura.
Matteo Bortolini è sociologo all’Università di Padova. Studia gli intellettuali e la produzione di idee fuori e dentro le istituzioni. Ha pubblicato A Joyfully Serious Man. The Life of Robert Bellah (Princeton UP, 2021) e sta lavorando a una biografia di Clifford Geertz. Un suo articolo sul rapporto tra Pier Paolo Pasolini e i sociologi italiani, “Gli indifferenti”, è stato pubblicato su Studi culturali nel 2012.
Serena Dibiase è ricercatrice indipendente attiva trasversalmente nel campo della performance, sound art e poesia (Erbario da bocca, MC ed. ’24). È trainer bioenergetica con esperienza in contesti del disagio (carcere, comunità) e insegnante di yoga in formazione. Ha lavorato, in questi ultimi anni, per Biennale teatro e presentando la sua ricerca in festival italiani e internazionali.
C’
è, sempre, un prima e un dopo. Prima di incontrarti, dopo averti incontrato. Prima di vedere, dopo aver visto. Prima di sapere… no, questo no. You’ll never know. In questo prima, nel posto dov’è stato ammazzato Pasolini non ci siamo mai stati. Anche se, ovviamente, non è vero. Ci siamo già stati. Lo abbiamo già visto di persona. “È vero. Figuratevi che non ci pensavo. Grazie” (J. Derrida, Lo spergiuro). Come autori però non abbiamo l’obbligo né di veridicità né, se Dio vuole, di verità. Qui, ora, ci poniamo in un come se. Ne conseguono un paio (di cose).
I
Il fatto, semplice, che nell’immaginario il monumento e il suo paesaggio apparissero innanzitutto devastati – il tondino di ferro scoperto, la palizzata crollata, le sterpaglie, la porta senza rete – faceva dimenticare quanto è brutto, quel cazzo di monumento, quanto lo fosse fin dall’inizio, in quel suo modo didascalico, da scuola elementare, di mettere in scena segni svuotati di ogni celarsi, di ogni frattura. “È un tronco verticale […] sinonimo di una vita spezzata. Intorno due colombe spiegano le ali in segno di libertà e una luna piena sovrasta il gruppo”. L’e(ste)tica si sovrappone alla cosa. Dong an sich. Dovrebbe, potrebbe, dovrà, potrà. Ma l’immagine è chiara. Non deve, non può. È così e basta. Vedere il luogo, questo è sottinteso, è come rivedere un sogno, lo sapevamo già prima di andarci. La questione, direbbe la prof., è quella della memoria, del ricordare.
II
In Orgia c’è un passaggio, molto presto, che segna tutto il resto. È il momento in cui i due protagonisti – che vedremo poi destituirsi di ogni protagonismo, what else? – parlano di voci senza parole. “Nessuno in quel mondo aveva qualcosa da dire a un altro: eppure era tutto un risuonare di voci. E tu come hai imparato a parlare? Ascoltando quelle voci. Ma ti dicevano qualcosa? E cosa? Oh no, erano soltanto voci. Esse, è vero, facevano il mio nome, e indicavano tutte le cose che ci circondavano e ci servivano, in quel mondo: MA NON PARLAVANO. E allora cosa hai imparato?”. Oltre le voci e le parole, però c’è qualcosa che si rispecchia senza parlare. “Là noi comunicavamo tra noi solo facendo qualcosa”. Onora il padre e la madre. “Mia madre faceva il pollo con la salvia, e la torta di farina gialla, sotto la cenere. Un padre faceva la strada dell’ufficio; un altro padre faceva il tetto di tegole nuove; un altro ancora faceva le marce coi soldati. E così si comprendevano fra loro” (P.P. Pasolini, Orgia; qui come altrove modifichiamo il ritmo e la forma dei testi che citiamo ‒ come autori non abbiamo né l’obbligo della filologia né, se Dio vuole, del culto). Pier Paolo e l’immediatezza del cascherino col suo fischiettare, la solita paccottiglia dell’immensità contadina disprezzata dagli amanti delle apericene a cui piace piuttosto il Pasolini supereroico di “Io so i nomi” – quello che però nascondeva, come sempre, una verità che sta dove le parole non arrivano.
III
Il problema è che noi, chi scrive ma anche la gran parte del noi che legge (ancora Derrida, Lo spergiuro) lavoriamo sui testi per produrre altri testi. O almeno così pensiamo, speriamo, sogniamo. Smontiamo le parole per mettere in fila altre parole. Il nostro fare si deposita, si apre e si stratifica solo mediante il testo, la lingua e la parola. A volte con più attenzione, a volte (se Dio vuole) in modo veloce, intuitivo, aforistico (C. Ginzburg, Miti emblemi spie). Ma così il gioco dei corpi rimane invisibile. Invisibile la sofferenza, invisibile il suono. Invisibili gli abiti, che pure tanto ci segnano, per esempio quando parliamo di buone maniere a una platea di cento e più bambini esilarati. “Mio nonno fava i mattoni, mio babbo fava i mattoni”. Non costruiamo tetti e già l’idea di camminare verso l’ufficio ci disgusta – l’ufficio, proprio, in entrambi i sensi della parola. E allora produciamo testi. In casa, spesso, al tavolo, con la matita su taccuini fitti di idee che verranno, senza dubbio, scartate subito dopo. Da trenta a due pagine. Forse una e mezza. “Faccio i mattoni anche me, ma la casa mia dov’è che l’è?”. Testi che producono testi che producono altri testi e via così, per sempre. Appena appena. “La pietra stordita di linguaggio si secca si contrae come se essendo pietra non potesse lacrimare” (S. Dibiase, Erbario da bocca). Al testo sfugge la lacrima, e sfugge l’odore che fa una pietra d’estate, quel profumo di polvere dimenticata che sta sulle siepi o la liquerizia delle pinete e delle dune prima di arrivare al mare. Nel testo tutto questo si perde nell’illusione di avere una voce. E invece. “Che le voci fossero modulate come in un rustico medioevo, passato attraverso il buon senso dell’Ottocento, oppure fossero in lingua (una lingua male adottata), su questo punto non ci sono dubbi: NESSUNO PARLAVA”. E nessuno parla. Superare il testo. Dirlo in un testo. Destituirsi di ogni autorialità. Rinunciare. “Ecco, il bonzo è pronto” (ancora Pasolini, Orgia).
Il problema è che noi, chi scrive ma anche la gran parte del noi che legge lavoriamo sui testi per produrre altri testi. Smontiamo le parole per mettere in fila altre parole. Il nostro fare si deposita, si apre e si stratifica solo mediante il testo, la lingua e la parola.
IV
Se ha ragione Giorgio Agamben, non potremo mai farci un’idea di chi sia stato Pasolini. “Lo stile tardo dei poeti e degli artisti, per quanto fuori dal tempo e vicino alla notte, è, invece, impareggiabile e sovrano. Rompe non solo le forme precedentemente elaborate, ma le strutture stesse della lingua” (G. Agamben, L’ultima mano all’ebbrezza). Sarà vero? Difficile dirlo. La storia di qualcuno è sempre raccontata da qualcun altro, diceva Frau Arendt, così che il cerchio, alla fine, in qualche modo va a chiudersi. C’è chi scrive lettere, chi fa film, chi danza, chi pretende di rammemorare. Anche quando dice di no. “Un pensiero mai scontato lucido feroce visionario. Un intellettuale che non va monumentalizzato ma, anzi, va evidenziata la sua contemporaneità, la sua presenza costante nella vita e nella cultura italiana”. Ma quale sarebbe, oggi, la presenza di Pasolini? La risposta, per una volta, è facile. Nessuna, ma molto rumorosa. La sterpaglia, la porta senza rete, tutto ciò che c’era di derelitto o di abusivo – e dunque di vivo – ha lasciato il posto a un museo a cielo aperto e a un’oasi gestita dalla LIPU. Al posto del monumento in cemento, col suo tondino esposto, sta il suo simulacro in marmo travertino (un monumento al monumento). “L’innocenza peccatrice è un materiale prezioso” (P.P. Pasolini, Orgia). Come le voci che dicono di Pasolini, così la voce di Pasolini risuona ma non parla. E nessuno ci fa nulla.
V
Che poi il cinema di Pasolini, in sé, parlerebbe. Perché non restituisce soltanto la robustezza dell’ideologia e della critica – pezzi che uno magari potrebbe vedere come ingenui o passati o altre scemenze di questo tipo. È un cinema che non scrive del piccolo borghese – e d’altronde “la cultura media è sempre corruttrice” – ma dedica l’immagine a ciò che gli è più caro. “Martha, my dear”. Ascrive al cinema la realtà e un personale giudizio sul vero: la bellezza nella bruttezza (e il disallineamento dal conformismo), l’innocenza del popolare e dell’analfabeta, ma “non ci metta della retorica in questa mia affermazione” (Pasolini in Pier Paolo Pasolini. Una visione nuova di Giancarlo Scarchilli). Niente retorica. Voci che parlano, semmai, facendo. Cambia la prospettiva e tutto cambia: i foruncoli di Davoli, l’asimmetria dei sorrisi, una finestra aperta sui giudizi e chiusa alla chiusura dei canoni. Soltanto la prostituta può immaginare un riscatto e Mamma Roma diventa accogliente (un carretto di verdure). Soltanto l’innocenza che invade la famiglia come ospite inatteso può formare un teorema, evanescendo ogni struttura precedente. “Claudio, Claudio, la sciarpa!” (P.P. Pasolini, Salò).
VI
Anche Salò parla. Dice che non abbiamo compreso le immagini della vita: i profumi del Fiore delle mille e una notte, il tuffo nella merda di Andreuccio da Perugia nel Decameron. La merda, soprattutto. “Prendi il cucchiaio”. Salò è sangue, merda e manie. La cultura piccolo-borghese non può cogliere il senso liberatorio del tuffo, di Andreuccio come di Accattone nel Tevere. Resta solo la merda. “Eva, non ne posso più”. La presenza della merda ricorda l’intimo mistero del sesso – non più solo immaginato – impossibile da racchiudere in una forma perfetta imposta dalla cultura. Imposizione è accecamento, tortura, perversione raccontata ridendo. Signora Vaccari, signora Maggi, signora Castelli. Salò non racconta, ma ritrae (il fascismo è allegoria, anarchia al potere, estrema conseguenza dell’illuminismo oscuro, struttura dantesca e controllo, ma anche pugni chiusi e perdita di controllo). “È follia supporre che si debba qualcosa alla propria madre” (ancora Pasolini, Salò).
Quale sarebbe, oggi, la presenza di Pasolini? La risposta, per una volta, è facile. Nessuna, ma molto rumorosa.
VII
Ma così la merda si secca. Pasolini resta, ma come embrione essiccato: una eredità che non nasce, non nasce mai. I luoghi sono ormai dimentichi di qualsivoglia significato simbolico, ma senza piagnistei. Le periferie di Accattone letteralmente andate: non c’è spazio né tempo per romanticizzare. “Il treno dei desideri nei miei pensieri uacciuari uari uà”. Vengono in mente due scenari. Uno porta da Milano a Liverpool. Marco Tullio Giordana. L’altro è proprio lì, sul monumento dell’Idroscalo di Ostia. Caligari.
VIII
Primo scenario. Maledetti vi amerò e/o Appuntamento a Liverpool. Lo scenario è il teatro del senso di colpa iconico. Svitol-Flavio Bucci è tornato dal Sud America. Ma a Milano ha solo una guardia, “per chiacchierar”. È intrappolato in un futuro che non comincia costellato di spettri (di Marx) e di gente: immagini ritagliate di morti ammazzati, Espresso e Panorama, umanizzate a forza in un presente che ha già superato parole, immagini, ideologie. In una Milano “ottimista e di sinistra” si fronteggiano un funzionario e un reduce, Max Weber e Alfred Schütz, nel disincanto della città (non ancora) da bere. “Tagigacigadà, ci ho un rapporto” canta Riondino in una comune che è già privatismo, sesso libero alluso in canzone, mentre il menestrello serve da bere e finisce in convento. Ma se Svitol si chiede cosa ne direbbe di tutto ciò Pasolini, il commissario lo interrompe. “Pasolini è morto. Una storia di froci”. A Liverpool arriva invece Isabella Ferrari, sulle tracce dell’uomo che ha ucciso suo padre. Lo stadio, la notte, Sandro Penna. Le manca il coraggio e getta la pistola. “Amore, gioventù, vane parole. Che resta di voi, e vi dissecca? Resta un odore come merda secca sopra le siepi cariche di sole” (a proposito di poesie imparate a memoria). Anche la periferia di Liverpool non è quella che cercava. I ricordi non tornano allo stesso modo: non ci sono più i Beatles, non c’è Pasolini. Non c’è salvezza nella vendetta. Resta un odore. Come merda secca.
IX
Secondo scenario. Amore tossico. Michela e Cesare sul monumento dell’Idroscalo. Stanno morendo senza sapere. OVERDOSE. I tossici: paradigmi di un cinema che documenta e non spiega. “Oddio, Miché… Oddio, Michela”. Se Marco Tullio Giordana interpreta il corpo come luogo della nostalgia, per Claudio Caligari è territorio dell’irruzione.
Amore tossico = Accattone + eroina.
Ma l’eroina è già arrivata, la ricotta è finita e le voci dicono ma non parlano. Nessuno rimpiange. Nessuno parlava – c’è solo il rumore di una pala, che scava. Nel rischiare di morire sul monumento c’è tutta l’ammissione (onesta, vera) dell’oblio e del non sapere. Non c’è redenzione nell’ignoranza (sublime). Accattone sa ancora immaginare un altrove. Loro no. E quel monumento al non ricordo, per una volta, parla. Ha senso. Caligari non ammicca, non spiega e non piange. Capito Pasolini, capiti gli anni Ottanta, capito il simulacro
Non essere cattivo = Amore tossico + ecstasy + attori professionisti.
Un teddy bear regalato (residuo di umanità) a una nipote che non può sopravvivere (confisca di umanità). Il giocattolo ora è una eredità capovolta, epitaffio di una innocenza perduta. Un totem sbagliato. Un altro monumento, nell’Ostia ostile dell’Idroscalo che mi porto dentro (vuole te). Tu muori. Io muoio. E anche questo mi nuoce. Il monumento è (un monumento al) disincanto. I libri sono muti se non li cartografi un po’ (Giordana). L’eroina irrompe, non importa come arriva (Caligari). “Resta un odore come merda secca sopra le siepi cariche di sole”.
[Intermezzo: Sul molo di Ostia c’è un uomo con un microfono. “Amore bello come il cielo, bello come il giorno, bello come il mare amore, ma non lo so dire”. La spiaggia è lunga e stretta, barricata sotto il sole di metà gennaio, gli spaghetti alle vongole buoni, il cielo strepitoso. L’acqua riluce, S. sorride. Un uomo passa camminando svelto leggendo un foglio con su scritto “Analisi cliniche”. Tornano alla mente i Dentisti Dantisti di Uccellacci e uccellini. Chi ha bisogno di Dante e di Dentisti in una Magliana che si fa quartiere già malato? Chi di analisi cliniche in un futuro che assegna poche speranze? Cultura e medicina si autocelebrano, così distanti dall’uomo che fa e non pensa. Nella vecchia colonia c’è una biblioteca dedicata a Elsa Morante. L’impressione di questo posto è che non si sappia dire, che non si possa dire molto. Prendiamo la Cinquecento blu dell’Eni (ironia) e ci avviamo all’Idroscalo. Arriviamo in fondo alla strada, raggiungiamo il capolinea degli autobus e torniamo indietro. Una ragazza con una bottiglia in mano ci guarda con aria di sfida e solleva la manica per farci vedere i buchi sul braccio. Sulle colonne dei portici di Bologna scriveremmo Pensati libera. Qui pensiamo rappresentati: ma come? Raccontati coi segni, senza parlare. Non c’è bisogno. Torniamo indietro e parcheggiamo fuori dal cancello. Il giardino è ben curato, lo si vede anche da fuori, ma di fronte, intorno a Tor San Michele, ci sono baracche e polizia che sgombera. Entriamo. La cosa che colpisce di più, all’impronta, sono i cartelli. “È vietato entrare nel cancello dell’oasi LIPU; allontanarsi dal parco e vagare nei sentieri dell’oasi LIPU; introdurre cani senza gunziaglio (sic); produrre rumori molesti; abbandonare rifiuti (riporre rifiuti nell’apposito cestino)”. Divieti, corde, catene, cancelli. Ordine. Piccola borghesia. Ma questo luogo ha almeno il pregio di essere come ce lo aspettavamo. A terra placche di plastica ormai illeggibili ricordano i vari campi in cui si cimentava il de cuius: cinema, letteratura, poesia. E le pietre con le lapidi che portano frasi di Pasolini, frasi troppo lunghe. Una corona, anch’essa secca, abbandonata da una parte. Un olivo giovane ricoperto di licheni gialli. S. scatta foto, io cammino intorno al monumento. È così come l’hai visto, come te lo aspetti – e qui come al solito ti chiedi a cosa serva viaggiare se tutto è come già sai. A fare esperienza, ti rispondi, ma esperienza di che? A produrre un’immagine per il proprio profilo, a celebrare che noi che sappiamo, fotografiamo e stiamo: diversi da quelli che guardano e passano, ignari di PPP. Lui avrebbe guardato loro, noi guardiamo noi: specchiati in un compiacimento che non è cultura, se non nel senso della scrittura di una personale Moleskine per immagini (ordine, piccola borghesia). Giro intorno al monumento, lo tocco, passo le dita nei punti in cui la natura sta riprendendo il suo spazio. A terra un tale Luca Capulli ha lasciato una poesia dentro un foglio di plastica (ordine, piccola borghesia). Finisce così:
Se esiste una giusta morte per un apostolo,
per un profeta in patria,
la tua lo fu,
perché nel fango, rattrappito e fradicio,
dimostrasti che nato tra i primi,
ti spogliasti del privilegio,
e calato tra gli ultimi,
conservasti, rendendole loro, con l’ultimo sacrificio,
tutte le idee.
Che è tutto quello che abbiamo.
Proprio mentre ci abbracciamo arrivano tre visitatori, un uomo, una donna, una ragazza preadolescente. Paolo vive a Ostia da sempre e ogni tanto porta amici e conoscenti a vedere questo posto. Si ricorda il due novembre del Settantacinque (“Stavamo andando a giocare a basket e arrivò la notizia che era morto Pasolini, proprio qui”), sa molte cose e il suo riferimento principale è la puntata di “Una giornata particolare” di Aldo Cazzullo (ordine, piccola borghesia). La signora è perplessa, non capisce le frasi sulle lapidi, si rivolge alla figlia, le dice: “Magari tu le hai studiate a scuola”. La ragazza non dà soddisfazioni: “No, magari più avanti, finora abbiamo fatto solo Leopardi e Verga”. La sera prima, al Testaccio, abbiamo parlato di Miss Italia con un professore di letteratura italiana, esperto di Montale. A cosa serve viaggiare se tutto è come già sai? Saluto i tre, ma ho perso di vista S. Rimaniamo ancora qualche minuto. Il monumento è il monumento, privo di qualunque scarto o riflessione (A. Pinotti, Nonumento). È sovrabbondante, ha una dedica, una frase, una placca sul retro. La colonna, le colombe, la luna. S. mi fotografa le mani mentre provo a pulire un frammento di corona che porterò a casa (ordine, piccola borghesia). Alloro secco.]
X
L’incuria aveva il pregio di incarnare, senza rappresentarla, la disseccazione. Oggi la LIPU “si prende cura” del parco, ma è più sterilizzazione o musealizzazione, cioè la morte, un simulacro doppiamente privo di sostanza. Difficile non notare che il simbolo della LIPU è l’upupa, il lugubre uccello notturno del Foscolo. Ma qui non ci sono né cipressi, né ombre, né urne, ci sono solo aforismi nel luogo della memoria smemorata. Ma per Pasolini l’aforisma – “un tentativo di formulare giudizi sull’uomo e sulla società sulla base di sintomi, di indizi” (Ancora Ginzburg, Miti emblemi spie) – non funziona. Non è un pensatore rapido o breve. È verboso (poesia), pesante (cinema e saggistica). Documenta leggero i comizi d’amore. Ma parla greve di intelligenza senza peso. La Guinea e i Comizi sono leggeri perché pesante è il mondo senza amore e sapere. «La mente è un pugno» (ancora Dibiase, Erbario da bocca).
L’incuria aveva il pregio di incarnare, senza rappresentarla, la disseccazione. Oggi la LIPU “si prende cura” del parco, ma è più sterilizzazione o musealizzazione, cioè la morte, un simulacro doppiamente privo di sostanza.
XI
Disseccati, frammentati sono i luoghi della memoria pasoliniana. Fisicamente, a ritroso: il monumento alla (non) memoria, l’aula di tribunale, il deposito della questura, Termini, i ristoranti dell’ultima notte. Culturalmente, in simultanea: poesia (in forma di rosa), romanzo, cinema, saggistica (in forma di romanzo). “Ho sbagliato tutto”. Trasversalmente: il corpo. Parlare di Pasolini è parlare di luoghi. La cartografia di una identità. Una morte che ha generato tanto cinema e letteratura, inchieste giudiziarie, documentari – Caligari, Giordana e Lucarelli, Leosini e Ferrara. Quanti prodotti da una morte sola. Maledetti vi amerò riassume intorno all’icona il senso della tragedia umana oltre le tracce politiche o ideologiche. Mostra il protagonista che ricalca da riviste le sagome dei morti degli anni di piombo, riflettendo sulla comune umanità. Una vita violenta. Ma privata della prospettiva violenta, nella Milano che si apre agli anni Ottanta, cos’è la vita? Normalizzazione (ordine, piccola borghesia). Pasolini, un delitto italiano di Giordana utilizza le immagini per ricostruire le circostanze della morte del poeta, e le ricostruzioni documentaristiche per rivelare che l’intellettuale (parole sue) è sempre una contraddizione vivente. Amore tossico mostra senza dire. È la dinamica di una overdose sul monumento dell’Idroscalo. Come in un quadro rinascimentale facciamo esperienza della tragica condizione dei personaggi, che ispira un senso religioso di pietà, proprio mentre ne osserviamo la nuda vita nell’atto di abbandonarli. Roberto Longhi, i quadri della memoria pasoliniana. Non essere cattivo è un monito scritto sulla t-shirt che veste un orsetto di pezza. Sarebbe un regalo dello zio a una nipote che non può più vivere. Disposto sulla tomba della bambina l’orsetto diventa il simbolo di una eredità capovolta (F. La Cecla, Non è cosa), in cui lo zio sopravvive per mangiare (la merda, di nuovo) la distanza dei giorni a venire. E infine, o all’inizio, Accattone è distante. Nessun tuffo nel Tevere può redimere la condizione di chi ha perduto la sfrontatezza per un futuro non immaginato ma nemmeno temuto. E neanche Andreuccio c’è più. Il Decameron è un libro chiuso prima della parola fine. Ormai la merda è secca.
XII
[Che poi, non c’è nulla di osceno nella merda, se non il potere che ne inibisce l’espulsione e muta l’assenza d’immagine in pornografia. La negazione dell’uomo che non è più uomo perché non può cagare: atto elementare di liberazione. Certo le circostanze non sono favorevoli, e quando mai? Immagina, mentre leggi, di non poter cagare. Di guardare il monumento, e dover dire mi piace perché ancheio so.]
XIII
Si potrebbe allora pensare alla ricostruzione a partire da ciò che manca. Dal senza che è sostanza. Gli oggetti contundenti che lo hanno ucciso come luoghi: monumenti veri alla verità. Le opinioni degli amici di Pelosi sulla morte: fu interrogata la cultura che conta, la stampa militante, la procura generale che chiude. La narrazione fatta dagli eruditi. “Sono difficili i particolari, non la sostanza” (P.P. Pasolini, L’odore dell’India). Se c’è una alternativa è nei luoghi, non nelle parole. O, forse, nelle parole sui luoghi, così che l’immagine mentale si fissi. Pasolini su Roma e dintorni è immagini di luoghi: dal documentario su Orte e la speculazione che deturpa l’Urbe alla poesia che Adriana Asti legge nel carcere minorile. Roma: contare i soldi con mani esperte, affrontare gli altri senza tremare. Roma: Accattone si tuffa nel Tevere, un battesimo che è rinascita in periferia. Ora possiamo riposare e, almeno fino a domani, trattenerci dal pensare. Senza tornare all’Idroscalo, a questo punto. Senza fare. Continuiamo a scrivere – “disponibili, allegri, curiosi come scimmie, con tutti gli strumenti dell’intelligenza pronti all’uso, voraci, goderecci e spietati” (ancora Pasolini, L’odore dell’India) – e proviamo a parlare.
Bibliografia
G. Agamben, Homo sacer, Torino, Einaudi, 2005
G. Agamben, L’ultima mano all’ebbrezza, Pesaro, Portatori d’acqua, 2023
J. Derrida, Lo spergiuro, Roma, Castelvecchi, 2006
J. Derrida, Spettri di Marx. Milano, Raffaello Cortina 1994
S. Dibiase, Erbario da bocca, Milano, MC Edizioni, 2024
C. Ginzburg, Miti emblemi spie, Milano, Adelphi, 2023
F. La Cecla, Non è cosa, Roma, Eleuthera, 2013
L. Martignani, Estetica sovversiva, Verona, Ombrecorte, 2022
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972
P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1972P.P. Pasolini, Scritti corsari. Milano, Garzanti, 1975
P.P. Pasolini, L’odore dell’India, Milano, Garzanti, 2009
P.P. Pasolini, Porcile. Orgia. Bestia da stile, Milano, Garzanti, 2019
A. Pinotti, Nonumento, Milano, Johan & Levi 2024
A. Schütz, Lo straniero. Trieste, Asterios, 2013