U
ltimamente è molto facile trovare qualcuno che parla di “podcast”, ma basta fermarsi a chiedere “scusa, cosa intendi tu per podcast?” che ci si ritrova davanti a una moltitudine di risposte che rende molto difficile capire di che cosa si stia parlando. Per andare alla ricerca di un significato di questo termine, partiamo dalla sua esistenza materiale, fisica, che ci consente almeno di riconoscerlo e individuarlo all’interno del panorama dei mezzi di comunicazione.
Il “podcast” è anzitutto una tecnologia che permette l’ascolto di file audio su internet attraverso la distribuzione di aggiornamenti chiamati “feed RSS”, a cui un utente si può iscrivere. Proviamo a capire meglio come funziona questa tecnologia confrontandola alla sua sorella maggiore, la radio. Alla base della radio tradizionale c’è l’invenzione della “radio audizione circolare”, che consente la diffusione di un segnale sonoro via etere, senza passare dai cavi. Perché avvenga bisogna creare una catena tra un trasduttore che trasformi il suono in segnale elettromagnetico (un microfono, ad esempio), un’emittente che invii quel segnale nell’etere, un ricevente che catturi quel segnale e un altro trasduttore (il cono di una cassa) che ritrasformi quel segnale in suono, che le nostre orecchie possano sentire. Con il “podcasting”, invece, il segnale elettromagnetico viene sostituito da una elaborazione in numeri del suono. Questo insieme di numeri diventano un file audio, che viene posizionato su un server. L’indirizzo di posizionamento di quel file viene inserito in un database, il “feed RSS”, una sorta di lista della spesa nella quale è possibile inserire una serie di informazioni legate a quel file audio, e che si aggiorna automaticamente ogni volta che carichiamo un nuovo file. Il “ricevente”, o meglio, l’ascoltatore, deve raggiungere quell’indirizzo, scaricare un file su un proprio elaboratore (computer, lettore mp3 o smartphone), avviarlo e iniziare l’ascolto.
Conoscere la tecnologia alla base di un podcast non esaurisce certo una sua possibile definizione, così come la radioaudizione circolare non basta a descrivere cosa sia stata e cosa sia ancora oggi la “radio” come fenomeno di massa, come mezzo e come linguaggio. Le caratteristiche fisiche però ci danno già alcune informazioni che ci possono aiutare a definire il carattere semiologico di questo nuovo fenomeno. Innanzitutto nel podcasting non possiamo trasmettere un suono dal vivo, ma dobbiamo caricare in rete un prodotto audio che deve esistere già, essere già finito e pronto per essere ascoltato. E questo sposta su un altro piano il rapporto tra podcast e radio. Se pensiamo a un qualsiasi programma della radio tradizionale, dove un conduttore parla tra un brano musicale e un altro, il podcast ha decisamente più a che fare con il brano musicale che non con un parlato più o meno improvvisato. Un altro aspetto che ci è utile sottolineare è che il file audio non viene diffuso come se fosse un flusso di acqua nelle tubature, dove all’ascoltatore basta girare la manopola come se fosse un rubinetto per poter sentire la radio che scorre in quel momento nell’etere. L’audio è parcheggiato su un server, deve essere individuato dall’ascoltatore, scaricato e avviato con il tasto play. Quando parliamo di podcast, quindi, stiamo parlando di “radio on demand”, dove l’ascoltatore è l’assoluto protagonista di quello che decide di scaricare e ascoltare.
Ma come è nata la parola podcast, e com’è che abbiamo iniziato a usarla nel nostro linguaggio comune? Il termine è la combinazione tra “pod” e “cast”, due particelle della lingua inglese che fanno di nuovo riferimento alla natura tecnologica di questo mezzo. “Cast” vuol dire letteralmente “spargere, diffondere”, ed era già stato usato un secolo prima per fondare il termine “broadcast”, ovvero la trasmissione radiofonica “di massa” via etere. Il termine “pod”, che letteralmente vuol dire “baccello”, fa riferimento in realtà al supporto fisico che per un decennio ha avuto il monopolio assoluto sulla distribuzione dell’audio digitale, ovvero l’iPod di Apple. Ma per capire come è nato il nome, bisogna guardare prima al momento storico e al territorio geografico che hanno fatto da scenario alla nascita di questo fenomeno. Sul finire degli anni ‘90 fanno la loro comparsa sul mercato tre importanti innovazioni tecnologiche che inducono la nascita del “podcasting”: la distribuzione di una rete internet in grado di trasferire una mole significativa di dati (sono gli anni di Napster, per intenderci), la commercializzazione dei primi lettori mp3 portatili (il primo iPod arriverà nell’autunno del 2001) e la digitalizzazione della strumentazione per la produzione audio, con novità come il software di editing Protools e registratori portatili come il Sony Minidisc.
La natura on-demand del podcast fa emergere tutti quei programmi narrativi “di nicchia” che si basano su una storia con “qualcosa da raccontare” grazie a un alto livello di registrazione e di montaggio.
Da quel momento in poi, produrre e diffondere audio, fosse esso musica o un programma radiofonico, costava circa un decimo di quanto poteva costare anche solo cinque anni prima, e molti pionieri del web iniziano a realizzare e distribuire autonomamente il loro programma radiofonico. Nel 2004 il giornalista Ben Hammersley parla del fenomeno in un articolo del The Guardian, suggerendo alcuni nomi per identificare questa nuova moda: “Ma come possiamo chiamarla? Audioblogging? Podcasting? GuerillaMedia?”. Il podcasting inizia a diffondersi in quegli anni quasi esclusivamente negli Stati Uniti, per un motivo molto semplice: l’assenza totale di una radio di stato con copertura nazionale. La famosa “npr”, che viene spesso definita erroneamente “radio pubblica”, è in realtà una realtà privata, non-profit, che riceve anche alcuni finanziamenti pubblici, ma che per la maggioranza vive di donazione private. È un network formato da una costellazione complessa di radio locali che rendeva all’epoca molto articolata la distribuzione dei programmi su scala nazionale. Per fare un esempio, è come se un programma di Radio RAI come “Radio anch’io” venisse prodotto dalla RAI di Roma che trasmette solo a Roma, e che poi ogni radio locale di ogni singola città decidesse o meno di acquistare quel programma e di metterlo nei loro palinsesti a orari differenti. Un inferno. Il podcasting dava l’opportunità a questi programmi di essere caricati online nello stesso momento e avere così una distribuzione nazionale, anche se via internet anziché via radio.
Nel 2005 Steve Jobs consacra e al tempo stesso ipoteca la parola “podcasting”: da un lato annuncia che i nuovi iPod avranno una funzione specifica che consente di navigare e collezionare podcast all’interno di iTunes sul proprio iPod. Dall’altro, minaccia di fare causa a qualsiasi sviluppatore o azienda che tenti di utilizzare il termine “pod” nella commercializzazione dei loro prodotti. Nel giro di un anno, i programmi radiofonici disponibili in podcast esplodono.
La natura on-demand del podcast, il fatto che un programma possa essere custodito in un lettore mp3, e ascoltato avviandolo con il tasto play, fa emergere tutti quei programmi narrativi “di nicchia” che si basavano su “una storia”, con “qualcosa da raccontare”, e con un alto livello di registrazione e di montaggio. Inoltre erano tutti programmi poco legati alla stretta attualità (un podcast lo posso ascoltare anche tra un mese, quindi è un problema se affronta “i fatti del giorno”), caratterizzati da una scrittura molto narrativa e uno “speakeraggio” molto più vicino alla lettura di un libro che all’improvvisazione – spesso demente – delle radio private. La possibilità di pubblicare on-line il proprio programma consente un’inaspettata e improvvisa libertà da parte degli autori: si possono affrontare temi che in radio non era possibile affrontare prima, come sessualità, povertà, discriminazione di razza o di genere. Si possono usare parole e contenuti espliciti; il podcasting inizia così ad affascinare un pubblico molto giovane.
Quando nel 2007 Apple presenta iPhone, che mette insieme telefono cellulare e lettore mp3, la tecnologia che consente la diffusione del podcast arriva al suo massimo. Il fenomeno cresce, fino a quando nel 2014 arriva anche il caso editoriale che rende il podcasting un fenomeno di massa: Serial. Un podcast “seriale”, dove ogni puntata è legata a quella successiva, che è arrivato ad oggi a un totale di circa 250 milioni di ascolti, accompagnati da una esplosione di blog, altri podcast che parlano del podcast e parodie televisive in prima serata. Serial è una storia noir-giudiziaria, dove una giornalista segue un vero caso di omicidio portando alla luce molte lacune nell’operato della polizia, degli avvocati e dei giudici. Il successo di Serial negli Stati Uniti fa diventare l’ascolto dei podcast una fenomeno “di tendenza”. Sempre più ascoltatori chiedono di avere nuovi programmi, sempre più aziende chiedono di poterli sponsorizzare, e l’esplosione dei numeri è così grande che si è inizia a parlare, non a torto, di Radio Revolution.
Il fenomeno cresce, fino a quando nel 2014 arriva anche il caso editoriale che rende il podcasting un fenomeno di massa: Serial.
Fuori dagli Stati Uniti è accaduto tutt’altro. Dal 2000 fino a Serial, le radio di stato Europee e Canadesi da un lato sono rimaste a guardare il fenomeno con un misto di invidia, terrore e disgusto, dall’altro hanno iniziato a tagliare proprio quelle produzione che rendevano il nostro sistema pubblico “differente”, compiendo, dietro la scusa della crisi e dei costi elevati, un vero e proprio genocidio della produzione di documentari, di radiodrammi e della radio sperimentale in genere. Fino a un paio di anni fa il podcasting è stato utilizzato dalle radio pubbliche semplicemente come tecnologia per rendere disponibili i programmi tradizionali anche on-demand al di fuori degli orari di messa in onda, ma non è mai stata pensata una produzione originale in grado di raggiungere quella fetta sempre più ampia di ascoltatori che sono sempre incollati allo smartphone. Gli autori indipendenti si sono organizzati al di fuori dei palazzi delle radio di stato, e hanno iniziato una loro produzione originale, con alcuni casi degni di nota: il collettivo danese Third Ear ad esempio riempie una volta al mese un cinema con mille posti a sedere per delle semplici serate di ascolto; il podcast svedese Spår è arrivato a un milione di download in un paese di dieci milioni di abitanti, e ha persino cambiato il destino giudiziario del protagonista del podcast. Dopo il successo di Serial, le radio pubbliche hanno cominciato a inseguire disperatamente, ma l’impressione generale è che siano oramai troppo in ritardo per essere davvero innovativi e competitivi.
Il termine podcast ha appena tredici anni di vita, è nella sua piena adolescenza. Conoscendo il suo funzionamento tecnologico e la sua cornice storica e geografica, possiamo già dire che è un servizio di radio on-demand e che per le sue caratteristiche valorizza maggiormente i format molto narrativi, sperimentali nella forma e nei contenuti, e che costruiscono un rapporto molto intimo con gli ascoltatori, che in questa relazione giocano un ruolo molto più attivo che in passato. Ma ancora non è possibile sancire un significato unico di podcast. Ho provato a chiedere ad alcuni tra i principali protagonisti del mondo dei podcast, con diversi ruoli all’interno del mercato, e la varietà di risposte rispecchia il crocevia di possibilità che il podcasting si ritrova oggi ad avere davanti a sé. Per Tim Hinman, direttore creativo della casa di produzione danese “Third Ear”, un podcast “è la possibilità di ascoltare qualcosa che si ha voglia di ascoltare, anziché subire quello che sta andando in onda in quel momento”.
Secondo Kerry Hoffman, a capo della piattaforma di distribuzione PRX che ha tra le sue offerte la piattaforma di podcast Radiotopia, il podcast è “un palinsesto radiofonico che ti porti in tasca, con le storie che ami che ti seguono ovunque”. Mira Burt-Wintonick, co-autrice del podcast della radio pubblica canadese CBC Love Me, pensa più alle infinite possibilità offerte dalla scelta dei contenuti: “il podcast è un ponte per raggiungere la vita di qualcuno che non si conosce, o per esplorare nuovi territori che non ci sono familiari”. Per Eleanor McDowall, curatrice del programma BBC Short Cuts e del portale Radio Atlas, è invece importante non limitare le possibilità di sperimentare ogni genere possibile, tenendo presente che “il podcasting è un mezzo di comunicazione e non un genere narrativo, così come lo sono la radio e la televisione.”
Ci sono ancora molte definizioni che il termine podcast potrà assumere nel futuro, sia quello prossimo che quello remoto. Per ora, quello che possiamo dire è che un podcast è una produzione originale fatta per essere ascoltata quando più ce la sentiamo, e che tanto più è efficace quanto più coinvolge gli ascoltatori sperimentando forme e affrontando contenuti che la radiofonia tradizionale ha dimenticato dietro di sé.