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l 2025 è l’anno di Napoli: ovviamente il pensiero passa per la festa di un sudato scudetto, con inarrestabili canti e balli per strada. Ma Napoli non balla solo per questi eventi: il ballo è l’essenza stessa di Napoli. Il dancefloor partenopeo sta diventando – più che un’area adibita allo “slego” ‒ un personaggio popolare, un Pulcinella del Tremila che non teme la tradizione ma la scavalca portandosela sulle spalle. Gennaro Ascione (prolifico autore di saggi, romanzi, scrittore per teatro cinema e insegnante di studi culturali all’Orientale di Napoli, nonché una delle eminenze grigie del fenomeno Napoli segreta) ha deciso dunque di “percorrere le sottoculture musicali della città dagli anni Settanta ad oggi”, analizzando la storia del suo ballare come storia di decolonizzazione e di sguardo aperto al mondo, con un libro dal titolo semplice ma efficace: Napoli balla (2025). Ci facciamo quindi una chiacchierata con l’autore per fare il punto sul manifesto di intenzioni che tale libello suggerisce.
Allora Gennaro, abbiamo tra le mani questo bel libro: adesso tu mi devi dire come ti è venuto in mente di scriverlo? Perché io ti riconosco in varie fogge, però in veste di critico musicale… Diciamo che questo è un po’ il tuo debutto in questo senso. O dico una fesseria?
No, dici bene: è veramente un debutto. il libro nasce come proposta per un soggetto di un documentario che mi è stato chiesto nel 2019. E mi era stato detto: la vogliamo fare una cosa su Napoli con una chiave che sia diversa dalle solite narrazioni? E io siccome, come sai, sono appassionato di musica ma anche di tecnologia e di sottoculture, avevo proposto una docufiction, una docuserie in quattro puntate.
Con quale casa di produzione?
Con Anemone, che sarebbe la casa di produzione dei video di Liberato. Tra le altre cose hanno vinto anche il premio a Venezia per una giovane regia l’anno scorso, cioè per il film
Le mosche di Edgardo Pistone. E poi, come sai, queste cose a volte non vanno in porto dal punto di vista dello sviluppo. Quindi mi era rimasto questo soggetto e avevo sviluppato anche delle cose divise in quattro capitoli che analizzavano però quattro periodi temporali. Poi… in mezzo c’è stato Napoli segreta, il mio libro
Vendi Napoli e poi muori (2018). Quindi era un po’ che mi balenava in testa questa idea di utilizzare gli strumenti degli studi culturali per fare un “non saggio”… non so se sei d’accordo, però non si può dire che questo libro sia un saggio.
Sicuramente è un ibrido, però sì: secondo me c’è anche l’aspetto del saggio.
E infatti ho pensato: troviamo una scrittura ibrida che mi consenta di attraversare queste sottoculture, prendendole non soltanto come periodi storici che stanno uno dietro all’altro ma permettendo anche ogni tanto di ritornare indietro. Per dire, nello stesso momento in cui abbiamo raccontato la Napoli di James Senese poi stavano succedendo anche altre cose. Mentre stiamo raccontando la Napoli dei punk dobbiamo un attimo riprendere un filo per andare in direzione dell’underground: quindi l’idea era di arrivare fino ad oggi per raccontare la Napoli di adesso, attraverso la voce di certi protagonisti. Però quando arrivi alla fine della lettura si sono accumulati così tanti strati che è come se le cose che leggi dell’ultimo capitolo prendano un senso completamente diverso da prima perché diciamo: “ma guarda che ‘sta cosa viene da un percorso antico!”
Ma infatti è sintomatico che tu l’abbia scritto prima ancora dell’esplosione di Napoli segreta: in realtà è come se tu analizzassi Napoli filtrando il punto di vista sociologico, antropologico direttamente col suo discorso musicale, che poi è anche uno dei grandi fondamenti del popolo napoletano. E in effetti tu la prendi da lontanissimo, addirittura da O’ sole mio, da quando cioè inizia l’esportazione del “Napoli sound” all’estero, grazie al fatto di essere una città coloniale o postcoloniale, come la chiami tu.
Esatto, sì.
Vuoi spiegare un po’ questo discorso? Secondo te Napoli ancora adesso è una città postcoloniale?
Forse adesso lo è in maniera evidente: come dici tu giustamente lo è dalle origini, perché postcoloniale non significa che viene dopo la colonia ma che nei 500 anni di modernità e colonialismo tu acquisti consapevolezza e ragioni attraverso i movimenti di persone, di idee e di cultura: quindi è postcoloniale perché storicamente è stata colonizzata, ed è postcoloniale perché le emigrazioni ‒ come da tutto il resto dell’Italia verso altri posti ‒ creano questi doppi legami per cui la musica di O’ sole mio, e in generale della canzone napoletana, viaggia appresso ai migranti, dalla Crimea agli Stati Uniti al Sud America: però di ritorno arriva la musica dei 78 giri, che comincia a girare sui grammofoni e poi arriva il jazz, un fenomeno che penso tu conosca meglio di me nel modo in cui dall’Atlantico nero torna in Europa. C’è tutto un movimento che oggi è evidente, perché magari ‒ a differenza di una città come Londra o come Parigi ‒ adesso qui abbiamo seconde e terze generazioni di afrodiscendenti che però sono a tutti gli effetti proprio napoletani. E quelli si costituiscono il loro dancefloor, la loro musica che non passa più per le metropoli del nord, ma magari dal wolof della Nigeria, dall’afrobeats contemporanea, e parla direttamente con l’amapiano che è la house music sudafricana. Quindi adesso è postcoloniale in una maniera ancora più evidente, però è una costruzione storica.
Da questo punto di vista è cruciale la storia di James Senese e Mario Musella, gli Showmen, che sono appunto i figli della guerra: e quindi anche il meticciato, per cui da una parte sono napoletani e dall’altra sono americani figli di neri, figli di pellerossa. Dunque già da là diciamo che la città musicalmente prende degli aspetti che probabilmente sono di un clash culturale notevole…
Guarda, sulla musica in particolare secondo me è proprio una dialettica più che un clash: primo perché dal punto di vista storico quella che pensiamo essere la canzone classica napoletana è già una forma ibrida di tante cose, in quanto dentro ci sono già tante influenze che poi vengono codificate nel dialetto napoletano.
In questo senso c’è da dire che Napoli ha questa capacità musicale di fare suoi dei linguaggi altri, come i giapponesi quando prendono qualsiasi tipo di roba e poi pensi che l’abbiano inventata loro. Semplicemente ne hanno fatta una versione talmente personale che poi diventa peculiare.
È certamente una via, quella che dici tu, il fatto di ritradurre in una chiave ‒ chiamiamola napoletana o comunque etnica ‒ dei fenomeni che stanno succedendo in giro per il mondo. Quindi sia nella canzone napoletana sia dagli Showmen fino ai Napoli Centrale di Senese, a
Pino Daniele c’è questo movimento. Come dire: ritraduciamo la fusion, il blues, il rhythm and blues e lo facciamo in napoletano. Ma c’è anche un’altra via che invece è come se prendesse la direzione opposta, e forse Napoli segreta si avvicina di più a questa cosa: la disco funk fatta a Napoli tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta esce proprio all’ombra di Pino Daniele e di Napoli Centrale. Perché fanno un discorso del tipo: noi vogliamo fare la disco music, e il fatto che la facciamo in napoletano è perché alla fine cantiamo in napoletano, ma noi vogliamo andare verso quella cosa, no? Non la vogliamo riportare a casa.
Questo è uno dei tanti motivi per cui l’operazione Napoli segreta ha funzionato.
Sì, perché se prendi i pezzi che tu conosci bene di Tony Iglio, tipo
Luci a New York lui sta prendendo
Gershwin e la sta semplicemente risuonando: e lui è napoletano ma non ci sta mettendo il mandolino dentro, no? Quindi è affascinante come già negli anni Settanta queste diverse modalità aprano la possibilità di narrare tante Napoli: per cui non c’è Napoli come città, ci stanno tante città dentro a questo calderone, e ognuna interagisce in modo diverso rispetto a quello che sta succedendo. Se prendi per esempio le culture del
dancefloor degli anni Ottanta-Novanta, di napoletano c’è solo il fatto che si faceva a Napoli.
Infatti tu fai anche una lettura storica del cambiamento del dancefloor, del ballo a Napoli: ma dal punto di vista della fisicità, sulla pista Napoli è diversa magari da altre città molto più fredde come potrebbe essere Londra o similia? A Napoli non c’è forse un altro tipo di approccio?
Napoli, dal punto di vista del ballo, è uguale alle altre città secondo me: questa è una tesi centrale del libro.
Sei sicuro di questa cosa?
Sì, perché comunque se sei andato a ballare nel resto del mondo ti sei reso conto che i dancefloor della musica underground sono gli stessi, anzi ci sono dei dancefloor molto più esplosivi di Napoli, no? Io ho cercato proprio una via che fosse quella di dire: Napoli come metropoli, così come lo sono le altre, ha sviluppato in modo proprio dei linguaggi che però sono universali rispetto alla Napoli che canta e suona, in cui magari si vede una differenza. Ma se io prendo, che ne so… la scena rave di inizio anni Novanta a Napoli e prendo la scena rave di inizio anni Novanta a Roma, io non posso più utilizzare il filtro della specificità culturale per raccontare quella storia. A Roma c’era Lory D che faceva “Antisystem” e a Napoli non c’era una scena rave, per cui si andava a ballare a Roma o ai Technival. E quindi i raver napoletani, come hai letto, a un certo punto si devono inventare un posto addirittura completamente illegale sotto lo stadio San Paolo. Però il linguaggio che stanno cercando di utilizzare in maniera quasi disperata è un linguaggio universale: in questo Napoli non è differente da altri posti, secondo me, e questo è importante.
Però forse c’è una tensione all’universale molto più che a Roma per dire, ad aprirsi molto di più all’innovazione, e probabilmente è così da sempre. Per esempio nel libro dici che Totò praticamente si “inventa” la breakdance, con le sue movenze, in tempi chiaramente non sospetti.
Beh, lui la inventa a sua insaputa, si muove con il corpo già negli anni Trenta come si muove
Marcel Marceau perché magari qualcosa però gli è arrivata, quindi lui nel fare la marionetta utilizza dei codici: questo è il bello dei fenomeni culturali, perché quando vuoi stabilire chi ha inventato cosa ti vai a lanciare in un ginepraio. Per questo il discorso sull’autenticità, secondo me, fa un po’ ridere: perché se prendi
Carosone, che io ho raccontato, come fai a stabilire nei pezzi di Carosone dove comincia il napoletano e dove comincia invece tutto questo milieu che lui ha attraversato quando era ragazzo? Lo puoi vedere nelle forme espressive: puoi dire che Carosone sta utilizzando la chiave di lettura dell’esotico per fare delle cose ballabili, ma stabilire se lui sta facendo boogie oppure swing diventa forse la parte meno interessante della faccenda.
Certamente: sono più interessanti cose come Caravan petrol, questi esotismi che forse vengono approcciati nella stessa maniera più avanti, quando il synth pop degli anni Ottanta, e quindi l’elettronica, entra nella musica napoletana. Ad esempio Computer di Enzo Di Domenico, questi grandissimi brani di Napoli segreta in cui la tecnologia viene trasformata e declinata anche nel linguaggio testuale, perché in effetti poi il napoletano credo che sia come l’inglese, che sia migliore per fare quel determinato tipo di musica; si riescono a fare dei pezzi più interessanti dal punto di vista sonoro.
Oppure semplicemente diversi no? Perché pensiamo all’hip hop: l’hip hop col napoletano ha trovato subito un gancio, perché utilizzando molte parole tronche; quando è arrivato l’hip hop suonava già con degli appoggi ritmici che hanno permesso alla lingua napoletana di trovare una potenza espressiva. Però se io penso al rap di Dj Gruff non è che posso dire che il rap in napoletano sia migliore di quello che ha fatto lui, che utilizza l’italiano come se fosse Dante, no?
Chiaro, però indubbiamente è riconoscibile, personale, lo specchio di un popolo; e ovviamente nessuno può fare rap in napoletano se non i napoletani. Ma in effetti tu fai un discorso molto più sottile, che è quello delle grandi conversioni musicali interne a uno stesso linguaggio musicale di Napoli. Tipo il metallaro che si converte alla house, il giovane post punk che poi cambia e diventa paladino della dance, no? Le grandi citazioni dei Bisca che infatti partono a fare la no wave e poi si ritrovano in un contesto più funky collaborando pure con i 99 Posse, in un ambiente crossover con l’hip hop. Parlando con i protagonisti come ti hanno raccontato queste conversioni? Come se le sono vissute?
Loro se le sono vissute in maniera completamente inconsapevole, perché quando tu stai dentro il fenomeno musicale, specialmente se stai suonando, segui il tuo istinto: quindi per esempio i Bisca si chiamavano Bisca con la ‘k’ all’inizio, perché facevano ska: poi è durato due mesi e un amico loro, chitarrista, torna da un’estate a Londra e porta dei dischi. Tra questi dischi c’è No New York, quindi loro sentono James Chance e dicono: “Ma che è questa roba? Vogliamo fare questa cosa qua!”. E il fatto che io abbia potuto raccontare più che analizzare i passaggi clamorosi da un genere all’altro di cui parli tu, è perché il protagonista del libro non è un umano e non è un gruppo di umani, ma è il dancefloor come spazio sociale in rapporto alle sottoculture: quindi io l’ho visto nascere nei cafè chantant dove suonava Carosone, facendosi spazio piano piano tra i tavolini e arrivando fino ai locali della Napoli Underground. Perché effettivamente la storia dell’underground è particolare a Napoli: la città è terremotata, quindi piena di eroinomani in superficie, e questi soggetti post punk scendono nelle caverne, in queste cave di tufo, club storici come il KGB, il Diamond Dogs, lo ZX. Loro cominciano a sperimentare questa forma di liberazione del corpo in maniera individuale, non di ballo coreografico ‒ io faccio un passetto e tu ne fai un altro ‒ e neanche di ballo acrobatico ma semplicemente un approccio post punk in cui ognuno si muove in maniera quasi solitaria sul dancefloor.
Ora che ci penso la tua sembra la descrizione che Edoardo Bennato fa in La città trema nel 1983, con questo sottobosco “contorto”, diciamo…
Beh, i Contortions di James Chance ce l’hanno proprio nel nome: l’idea è che sei solo tu e ti contorci mentre balli a volumi spropositati di musica nuova, con chitarre distorte però, già con un’idea di groove. È una cosa proprio che spezza il movimento, perché sono talmente sincopati la batteria e il basso di quella roba, che non ci stai più dentro in come si ballava l’afrobeat: e questa cosa secondo me è stata fondamentale nel costruire un primo momento di liberazione dei corpi come singoli, che poi sui dancefloor successivi si sono incontrati con altri corpi liberati e hanno trovato nuovi codici di interazione che non passavano per le forme già codificate di movimento. Questa cosa a Napoli avviene in modo interessante, perché a differenza di quanto succede con la forma discoteca, avviene in dei club underground che si chiamano “discoteche” per approssimazione merceologica. Perché in tutti e due i posti si balla, però a Napoli c’era già il Kiss Kiss, che era la discoteca un po’ sull’idea della Riviera romagnola: quindi la macchina per il fumo, il glitter ball, i tavolini, tutti quanti un po’ bellini e si balla la domenica pomeriggio oppure si fa festa la sera un po’ come le realtà che ha raccontato Claudio Coccoluto riguardo le prime esperienze con Marco Trani. Una scena disco superscintillante in cui Marco Trani faceva la superstar e Coccoluto in qualche modo si doveva ricavare uno spazietto. Poi quello spazietto comincia a diventare una sottocultura underground in cui il club è vissuto in posti scuri, in cui si ascolta musica ossessiva e ripetitiva, si comincia a prendere un nuovo tipo di droga che è l’ecstasy, perché questa storia non sta in piedi senza passare per l’utilizzo di sostanze: comincia a diventare una cultura urbana con dei propri codici che nella discoteca normale della domenica pomeriggio, con quelli con le Timberland al piede, non ha proprio niente a che fare.
Coccoluto diceva anche che il dancefloor napoletano è l’unico che applaude quando fai un missaggio fatto bene, questo sta nel libro.
Sì, è l’intervista che lui ha rilasciato per un documentario l’anno scorso: quasi con le lacrime, lui si ricorda che alla fine di un set in cui davanti aveva duecento persone mette We Are Family delle Sister Sledge e la gente fa l’applauso al mixaggio, perché comunque stava nascendo una cultura tutta nuova, senza istruzioni per l’uso. Perché magari l’hip hop, il rythm & blues erano passati attraverso i mass media, quindi tu avevi visto un codice e provavi a replicarlo. Invece questi movimenti underground che partono da Londra, Ibiza, ma anche da Berlino, arrivano tramite dei pionieri che cominciano a raccontare le cose come vanno: ma chiaramente il racconto è meno codificato. Se io non accompagno il racconto con delle immagini, tu devi usare il tuo cinema interno per produrre delle immagini nuove: e questa cosa crea i veri e propri movimenti dal basso delle culture underground, che a Napoli sono fatte proprio dai metallari. Un manipolo di metallari che avevano una band che si chiamavano Skizo, che erano stati i primi a fare il trash metal, poi a un certo punto hanno come un’illuminazione: anche io sono stato metallaro, come tu ben sai, perché secondo me si mantiene un’idea che nel metal è forte, cioè il fatto di portare avanti un discorso radicale. Se sei stato metallaro è come aver fatto il militare insieme: c’è quell’idea di mantenere una linea dritta con della musica tosta che ascolti, e ascolti solo quella. E a Napoli viene fatto quel discorso per cui si importa la primissima acid house, la house music fatta coi campioni a gruppo che si ripetono, prodotta da gente che non ha né arte né parte da un punto di vista musicale, quindi è molto intuitiva: però quella roba deve essere tosta e prolungata per tutta la notte.
Pura questione di attitudine, insomma.
Esatto: questo secondo me è il mash che solo il dancefloor poteva realizzare, perché sono due sottoculture così esteticamente diverse quelle della house e dell’heavy metal, che si poteva avverare soltanto su un piano non estetico, non musicale…
Prima parlavi dell’importanza della droga nel clubbing, ma nel libro scrivi anche – di conseguenza ‒ dei problemi con la malavita organizzata. Cosa che mi ha ricordato molto quando intervistai Peter Hook dei New Order e mi raccontò appunto dei problemi che ha attraversato la Factory in quel senso. All’interno di questo discorso del libro, l’avanzare delle mafie nel clubbing ha cambiato molto la sua forma e anche la qualità delle droghe…
Sì, io per raccontare questa storia mi sono domandato: ok, va bene ragionare per i movimenti culturali, la tecnica, la musica, cosa sta andando. Però che cosa significa fare un locale notturno a Napoli? O in un altro tessuto metropolitano? Significa comunque che l’esperienza di produrre il dancefloor come spazio sociale da parte delle crew che organizzano è mediata anche da tante situazioni. E che significa? Che in quel locale ci comincia a entrare innanzitutto ogni classe sociale, quindi molti ragazzi presi bene che fanno esperienza col fatto che viene il dj dall’estero e magari lo vanno a prendere all’aeroporto: è un momento di grande emancipazione sociale perché cominciano ad arrivare dei movimenti culturali che parlano un linguaggio di apertura, di internazionalizzazione, però in una situazione che è quella della festa. Quindi nella festa si beve, ci si droga, e diventa una miscela umana praticamente quasi esplosiva, che tu appena la muovi un po’ più forte può esplodere tipo nitroglicerina. Quindi, ovviamente, quando si cominciano a generare i profitti, come in tutte le realtà e non soltanto a Napoli, la gente ci comincia a mettere gli occhi addosso, perché tra l’altro i locali sono in territori comunque controllati dalla malavita. Quindi in qualche modo devi avere a che fare con i rampolli che vogliono entrare nel locale, quelli che vogliono gestire il traffico perché capiscono che là c’è un business che sta partendo e quindi cominciano a tagliare le gambe ai freerider.
E questo cosa comporta?
Rispetto all’inizio, in cui magari arrivava la droga buona perché veniva scelta dai freerider e portata in città, comporta che tutto peggiora. Tutti raccontano di storie per cui ai bei tempi bastava un quarto in una pasticca per stare fatti tutta la notte… il che taglia anche le gambe al bar però, no? Sai, nell’organizzazione dei club il bar lo fai a livello del locale, ma se quello non guadagna una lira perché tutti quanti hanno preso una sola pasticca e stanno a posto tutta la notte, il meccanismo della mercificazione mette delle pressioni: quindi queste varie pressioni cominciano a far abbassare il livello medio della qualità delle sostanze. Io le varie interviste del libro le ho chiuse quasi tutte domandando a ciascuno dei protagonisti delle varie epoche: ti ricordi la prima pasticca che hai visto? E da là viene fuori l’elenco che leggiamo nel libro, e non ti dico come si illuminavano gli occhi a tutti quanti! [ride]
E poi improvvisamente tutto questo aspetto della dark side non dico che sparisce però diventa più che altro trovare nella dark side la luce: secondo me Napoli segreta ha tirato fuori queste solarizzazioni all’interno magari di un periodo storico “hardcore”, rivelando l’altra faccia nascosta di una stessa medaglia: Napoli segreta nasce da una grande ricerca di recupero, di digging e tu ne fai parte, sei un po’ l’ideologo. Ma ecco: nel libro tu non ti scrivi, parli in terza persona quando parli di Napoli segreta… come mai?
No ego, no ego! [ride]. In realtà ho fatto così perché quando in un libro parti da O’ sole mio fino a Carosone a Pino Daniele… poi c’è una fase intermedia tra Napoli segreta e Napoli Centrale: perché a un certo punto De Piscopo e Tony Esposito cominciano ad andare verso il dancefloor… O ad esempio prendi Enzo Avitabile, che forse è quello che ha l’intuizione fin da subito: Avitabile infatti sta pure nella compilation Balearic Beats, Soul express… C’erano già, all’ombra del fenomeno Pino Daniele, delle forme intermedie che andavano verso il dancefloor, quindi rispetto a questa storia io mi sentivo proprio inutile. Io lo potevo soltanto raccontare a modo mio, però effettivamente Napoli segreta come periodo non esiste come tale: abbiamo ricostruito a ritroso questa scena che non esisteva. Quindi i collegamenti li abbiamo fatti ex post dopo una ricerca fatta da Lorenzo Sannino e Gianpaolo Della Noce: anche i Nu Genea, li abbiamo messi in comunicazione noi. Noi siamo andati a recuperarli.
Ma gli autori di quella roba all’epoca erano consapevoli di fare qualcosa di potenzialmente clamoroso?
Tu prima parlavi del synthpop di Enzo Di Domenico: ecco, quando noi siamo andati a chiedere a Enzo Di Domenico di
Computer (che a te fa impazzire per il verso “sto computer che ‘bbuo / sono un missile o sono un robot”), o di
Robot…Voglio dire, loro ci hanno detto che erano tutte idee che venivano in qualche modo da turnisti che erano andati al concerto dei
Kraftwerk nel 1981, e che cominciavano ad ascoltare le cose un po’ più spinte. E questa cosa nasce dal fatto che si dovevano produrre molti dischi tentando di piazzare la hit: perché la logica qual è?
Alan Sorrenti ha spaccato con
Figli delle stelle nel 1977. E tutta la gente che comunque è a Napoli dice: “Scusami ma perché non proviamo a farla anche noi questa cosa, no? Creiamo un’industria interna!”. Ma l’idea è: facciamo molte uscite, ma con una tiratura di dischi molto bassa. Perché se piazziamo la hit, bene: ma non è che poi possiamo produrre tanti dischi di questa roba se nessuno se la ascolta. Quindi quei prodotti sono rimasti effettivamente e completamente inascoltati. È stata veramente una meteora. Una bolla. Col senno di poi abbiamo incrociato quelle produzioni che stavano avanti, perché che ne so… Ara Macao aveva tutto un sound quasi caraibico, Tony Iglio era jazz stile New York City. Poi c’era il synthpop che fa capolino, oppure la wave, delle chitarre applicate a dei groove che vanno comunque sul
dancefloor. Senza parlare poi delle produzioni più propriamente disco-music, come quelle di Tonica e Dominante, con
Gennarino o’ Sioux o
Cicogna, gli Oro che si convertono, no? Perché erano gli Antico castagno, una band progressive: loro sapevano suonare, ma a un certo punto dicono “Basta, facciamo i Bee Gees!” [ride].
Hai citato Alan Sorrenti, però credo che in questo sviluppo della non-scena ci sia anche Nino Bonocore, che è importantissimo, no?
Sì, il Bonocore di Palinuro Bar, che poi ha creato tutto il format, diciamo, del nostro programma. Poi anche Tony Cicco da Formula 3. Era un po’ come con le sigle dei cartoni animati. Tutta gente che, o per pudore o per altre ragioni, non voleva forse neanche essere associata a quelle produzioni che faceva. Infatti le pubblicava su delle microetichette che erano “darkroom di darkroom”. Quindi c’era ad esempio la BBB, Black Beautiful Butterfly, che aveva la ATA Records come sottoetichetta. Stiamo parlando proprio di scivolare nell’abisso della produzione discografica. Lo stesso Avitabile che pubblica con lo pesudonimo Waterbank scrivendo il nome al contrario per non essere riconosciuto: pieno satanismo discografico [ride].
Da questo arriviamo alla Napoli di oggi descritta nel libro, che ha degli aspetti inediti: all’interno di questo vario miscuglio di cose, ci trovi anche appunto delle serate in cui magari trovi il dj bianco napoletano che deve mettere musica afro per vari africani di varie zone dell’Africa, che magari non si riscontrano musicalmente tra di loro. Quindi devi in qualche modo fare un set che metta d’accordo tutti. Spiegami un po’ cosa succede.
Questo è un momento interessante da questo punto di vista, Sei la prima persona con cui riesco a parlare di questa cosa, quindi innanzitutto grazie. Secondo me già le interviste della parte finale del libro aprono proprio a delle questioni che io ho cercato di costruire passo dopo passo, che poi alla fine esplodono. Perché quando io dico afrobeats in testa ho l’Africa, ma se tu parli con un ragazzo afrodiscendente, quello interpreta il genere come se io dicessi eurodance: anzi molto meno. Musica dance europea che cosa significa?
Moroder? E chiaramente questa cosa sul
dancefloor contemporaneo è così perché ci sono i ragazzi magari del Gambia che sono legati a un’idea più
dancefloor reggae; ci sono i nigeriani che invece sono la New York dell’afrobeats con la”s”, non l’afrobeat di Fela Kuti, ma questo genere nuovo che fondamentalmente viene dal rythm & blues anche un po’ più commerciale, però cantato in wolof ad esempio, tutto con dei ritmi e dei suoni legati a un certo approccio al
dancefloor. Poi c’è l’amapiano, che è la house music molto soft e cantata che viene dal Sudafrica… quindi questa cosa ha a che fare con Napoli perché succede anche a Napoli: ma non è napoletana nel senso in cui nel palinsesto nazionale abbiamo costruito le caselle in cui prima c’è Senese, poi ci mettiamo Pino Daniele poi dopo ci mettiamo Nu Genea, no? è una cosa di una complessità metropolitana differente. Per capirci: se parlassimo di cinema,
Sorrentino non potrebbe fare un film su questa roba. Infatti nel contratto ho fatto inserire una clausola anti-Sorrentino.
Ahahah, si chiama proprio così? Non ci credo.
È vero! Ho parlato al mio avvocato, ho detto dobbiamo fare una clausola anti-Sorrentino per qualsiasi eventuale adattamento cinematografico: lo dobbiamo decidere noi, perché non può passare per una forma di pittoresco con cui si racconta Napoli. Questa che ho descritto è Napoli come metropoli in mezzo ad altre metropoli più grandi, più piccole, ma il linguaggio è quello della periferia, non quello del centro: anche esteticamente è il fatto che tu vedi dei palazzoni che quando ti muovi sono in sync, quindi li vedi come le barre di un sequencer che si spostano avanti e indietro.
In questo contesto c’è anche il cambio di nome dei Nu Guinea a Nu Genea: molti si sono chiesti il perché di questo, io per primo perché non mi sembrava particolarmente grave la cosa. Però rientra anche nell’autocoscienza del rischio dell’appropriazione culturale, giusto?
Sì, certo. A Napoli l’abbiamo maturata questa consapevolezza perché di solito l’abbiamo subita: la storia precedente qual era? Era che noi sapevamo che Paul Oakenfold e Danny Ramplin si erano appropriati di quello che stava succedendo a Ibiza nel 1987-88 e l’avevano chiamato loro Balearic Sound: se parli con Leo Mas lui racconta: “A un certo punto Paul Oakenfold venne dove stavo suonando con in mano questa cassetta e mi dice ’ho fatto la compilation’”; e Leo lo guarda e esclama: “Ma di che stai parlando? Perché, tu stavi a Ibiza?”. È la stessa cosa un po’ con il Napoli sound; a un certo punto qualcuno di cui non possiamo fare il nome ci contatta e comincia dire che vuole fare una compilation ‒ e siamo nel 2016-2017 ‒, perché ha sentito che si fanno delle feste con il sound disco-funk napoletano. Insiste, insiste, insiste e lui vuole venire a una festa a tutti i costi…
Nel libro c’è scritto chi è, no?
Uno l’abbiamo scritto ma l’altro non lo diciamo chi è, ma l’abbiamo mandato in un posto sconosciuto! [ride]: c’è stata una riunione del soviet di Napoli segreta ed è stato deciso “quel nome sì, quell’altro no”, e la compilation la facciamo noi perché non vogliamo che qualcuno si appropri di questo sound. Però contemporaneamente i Nu Genea si sono resi conto che il nome che stavano utilizzando era una forma di appropriazione culturale a loro volta, perché la Nuova Guinea è un posto in cui loro non sono mai stati, e quindi si sono posti il problema, con una maturità molto contemporanea rispetto a questa questione: quindi di questo vado orgoglioso. Napoli, se la vogliamo prendere rispetto a questo movimento musicale contemporaneo, ha la maturità per ragionare sulla questione dell’appropriazione culturale in tutti e due i versi: cioè non vogliamo seguirla ma non vogliamo neanche realizzarla per parte nostra.
Ho notato che all’inizio del libro c’è un capitolo con una citazione di un altro tuo libro o sbaglio? È una autoappropriazione culturale forse?
[ride] Il libro Napoli balla comincia con un estratto di Vendi Napoli e poi muori, che abbiamo già citato: un mio libro del 2018 che narra una distopia in cui la città è invasa e dominata da gabbiani cyborg e succedono una serie di omicidi seriali legati alla turistificazione della città; poi mi sono fatto prendere la mano e finisce tutto in strage [ride]. Ho voluto cominciare con quella cosa perché è come aprire una porta sul piano della narrazione poetico-letteraria. Ho personificato un loop di basso e una scarica di percussioni che sono state separate nell’Africa durante le deportazioni degli schiavi e poi attraversano i percorsi che vanno dal blues alla house al funk alla techno Detroit, per un verso: e di là dal Mediterraneo verso la musica microtonale fino ai madrigali, alla musica popolare, e poi si rincontrano a Napoli e questo incontro avviene dopo secoli nelle cuffie di un dj. In questa storia il dj è protagonista perché comunque è una figura nuova se ci pensi: anche lì è una figura di musicista propria del periodo della decolonizzazione, è una cosa nuova nella storia dell’umanità. Quindi secondo me è centrale dargli il giusto peso, perché lui ha dovuto lottare per affermarsi come qualcuno che avesse a che fare con la musica, dato che all’inizio è stato snobbato.
Certo: poi chiaramente nel libro c’è anche il discorso del dj che diventa superstar vs. il dj che invece sta in mezzo al dancefloor come tutti gli altri, quindi una differenza anche di stile e approccio che nel tempo sono cambiati.
Sì, questione di prossemica. Perché il dancefloor nasce come rivoluzione contro la prossemica del palcoscenico, in quanto il palcoscenico riproduce la band che suona sul palco e riproduce la prossemica del proselitismo: io sto in una posizione gerarchica superiore e tutti quanti dovete guardare me che faccio qualcosa. Il dancefloor nasce invece come possibilità di rimescolare le carte, di guardarsi in faccia l’uno con l’altro indipendentemente da chi sta facendo cosa. Poi, per ragioni anche di mercificazione, il dj è diventato una star come una rock star, quindi adesso stanno tutti quanti con i telefonini a riprendere il dj che non fa quasi niente perché le tracce vanno da sole e lui fa finta di muovere manopole; quindi io spero che si possa tornare a un’idea di dancefloor come possibilità di guardarsi in maniera egualitaria, di stare insieme con il corpo indipendentemente dalle divisioni e dalle gerarchie esterne. Se fosse una seduta di psicoterapia si parlerebbe di integrare l’esperienza comunitaria del dancefloor nella società invece di portare le divisioni della società dentro al dancefloor, come ad esempio fare i tavolini dei vip, le restricted areas ecc. ecc.
E come lo vedi il dancefloor nel futuro di Napoli? Questa cosa nel libro non c’è: si parla nel presente però non ci sono delle ipotesi di futuro….
Come avrai letto, è volutamente esclusa la dimensione underground contemporanea, perché è stata proprio una scelta autoriale deontologica: se voglio preservare in qualche modo l’underground lo devo mantenere segreto, ed è lo stesso discorso che abbiamo fatto con Napoli segreta, no? Noi abbiamo dichiarato fin dal primo disco che quell’operazione era un diversivo, perché mentre voi guardate le tracce che abbiamo pubblicato, noi ce ne sentiamo tutt’altre che non pubblicheremo mai. Il discorso è esattamente questo, se vuoi mantenere qualcosa underground, keep it secret. Semplicemente non se ne deve parlare: l’unica cosa, l’unica regola del segreto è… l’omertà [ride]