

D isponibile sulla piattaforma Prime Video di Amazon dall’ottobre scorso, Citadel: Diana è uno spin off della serie statunitense Citadel diretta e pensata da Josh Appelbaum, Bryan Oh e David Weil e che vede tra i suoi produttori Anthony e Joe Russo, già acclamati registi di quattro film della serie Marvel tra cui Avengers: Endgame del 2019 che ha ottenuto a oggi il maggior incasso della storia del cinema.
L’obiettivo dei fratelli Russo è quello di creare con Citadel e i suoi vari spin off quello che chiamano uno spyverse internazionale. Uno strumento narrativo capace di parlare globalmente attraverso contenuti inediti e con un immaginario in grado di sciogliersi nelle diverse sensibilità. Un progetto che non può dunque basarsi su contenuti preesistenti (come nel caso delle serie Avengers), ma che deve in qualche modo cogliere una sensibilità strettamente contemporanea, ma ovviamente lontana da un presente attuale che renderebbe il prodotto di breve scadenza. Così dopo Citadel: Diana a novembre era già la volta di Citadel: Honey Bunny, lo spin off indiano. Il tema centrale è sempre quello di un conflitto tra agenti segreti e organizzazioni spionistiche più o meno legali, dunque, in sintesi, quello del complotto. Tema ultraglobale che diviene una sorta di enorme ombrello sotto al quale agiscono i personaggi e prendono corpo le dinamiche narrative. Non si tratta infatti di svelare il complotto, ma di accettarlo come dato di fatto: non esiste il vero o il falso, ma solo lealtà e tradimento. Ogni azione vive sotto questa cappa. Il complotto è infatti inizialmente frutto della guerra fredda nel secondo Novecento, che oggi pare essersi trasformato da strumento di controllo a strumento di confusione.
L’estetica di Citadel è quella di un’urbanità priva di colori: imperano i toni del grigio e un azzurro metallico. L’aspetto minimale è frutto di anni di rielaborazione dell’immaginario di Matrix delle sorelle Lana e Lilly Wachowski, tuttavia la produzione per quanto ricca e capace d’intuizioni non banali deve comunque offrire un prodotto per un mercato di massa e così quello che vorrebbe essere, diciamo così, Armani ci mette davvero poco a rivelarsi essere uscito da uno store di Zara. Non tutti i toni di grigio sono uguali e si vede. E anche la Milano del 2030 messa in scena in Citadel: Diana assomiglia più a un capoluogo svizzero che a una capitale europea, nonostante il malconcio e riconoscibilissimo duomo, su cui troneggia ancora ‒ forse per scaramanzia ‒ la “Madunina”. Il che sembra rivelare più che un limite dell’immaginario filmico, quello reale di una città che si crede, ma non è. Al punto che messa davanti a una telecamera non appare poi così realmente fotogenica, ma anzi dimostra un limite che è tutto nella sua ambizione e non, in verità nella sua realtà.
Citadel: Diana prova a portare in Italia un genere fanta-crime-complottistico con dei tratti che oggi, spesso con un eccesso di entusiasmo un po’ facilone, vengono definiti “distopici”. Uno script su cui installare una sceneggiatura che declini all’italiana i temi del complottismo.
Citadel: Diana ideata da Alessandro Fabbri e diretta da Arnaldo Catinari prova quindi a portare in Italia un genere fanta-crime-complottistico con dei tratti che oggi, spesso con un eccesso di entusiasmo un po’ facilone, vengono definiti “distopici”. Uno script su cui installare una sceneggiatura che declini all’italiana ‒ seppure in un “elvetico futuro” ‒ i temi del complottismo. Uno spettacolo dunque principalmente televisivo fatto di lotta, scontri a fuoco e non poco sentimentalismo, ma comunque attraversato da una tensione perenne, anche nei momenti più innocui. Diana (interpretata da Matilda De Angelis) attraversa sempre con passo svelto e teso la scena, le sue espressioni sono ridotte al minimo e ogni emozione è preceduta da un fastidio che trova traccia nelle minime pieghe del viso come della bocca. Ogni emozione per Diana sembra avere la declinazione di inevitabile errore. Tutto deve essere sempre estremamente efficiente e controllato, eppure tutto è miseramente decadente.
In una logica sempre più estrema di ampliamento dei pubblici, gli spettatori divengono essi stessi corpi ampi e attraversabili, ma capaci di vedere senza aver realmente visto. Una miniaturizzazione della visione che è del tutto complementare agli schermi privati sempre più ampi e invadenti.
Citadel: Diana offre così una forma inedita di standardizzazione che non vuol dire solo un appiattimento dei contenuti per accedere a un pubblico più ampio possibile, ma fornire una visione che per ogni spettatore dia corpo a veri e propri clash difficili da rimuovere. La serie non si accontenta di dare la possibilità di godersi uno spettacolo televisivo, ma prova ad agganciare i pubblici direttamente partendo dalle loro paure più recondite e nemmeno per esplicitarle, ma solo per tenerle accese. Perché in fondo una fine, una conclusione liberatoria di Citadel non c’è e soprattutto non ci deve essere. È un gioco pericoloso e complicato soprattutto a livello narrativo che può facilmente incorrere in cadute o anche in vertiginose elucubrazioni che sarebbero difficilmente comprensibili in quel contesto e che non può non tenere conto della frammentazione della visione indotta dallo strumento in sé (la televisione nella sua più ampia accezione, che va dagli smartphone alle smartTV) e dalla forma della narrazione (la serie è di per sé infinitamente replicabile e recuperabile).
In una logica sempre più estrema di ampliamento dei pubblici, gli spettatori divengono essi stessi corpi ampi e attraversabili, ma capaci di vedere senza aver realmente visto. Una miniaturizzazione della visione che è del tutto complementare agli schermi privati sempre più ampi e invadenti. Ogni immagine perde così il proprio movimento e contesto divenendo un insieme disordinatissimo e privato (per ogni spettatore) di sequenze riconducibili a diverse, ma ininfluenti, fonti. Una “memestetica”, come l’ha definita Valentina Tanni che va oltre l’opera in sé e oltre la sua interpretazione. In particolare non può non colpire, verso la fine della serie, la scena di sesso che vede coinvolti Diana con Edo (interpretato da Lorenzo Cervasio). Nulla da eccepire sulla scena, almeno fino a quando non si viene sommersi dalla musica di By This River di Brian Eno. E davvero c’è da domandarsi come sia possibile che si sia scelta proprio quella musica lì. Una canzone così fortemente incisa nella memoria che non può non ricondurre direttamente a una delle scene più strazianti di La stanza del figlio di Nanni Moretti.
By This River, il cui testo in qualche modo sarebbe pure aderente al senso della scena di Citadel: Diana, invade però il campo creando una distorsione visiva in un certo senso pornografica. Perché inevitabilmente si assommano due sentimenti in teoria lontani tra loro: una scena eroticamente esplicita con quella di un padre in cerca in qualche modo della memoria e della presenza del figlio scomparso, ed è come se quei due mondi lontani si guardassero all’improvviso. Due generazioni e due movimenti, un cinquantenne disperato che vede la propria famiglia perdersi e un mondo ugualmente disperato dentro al quale due ragazzi provano a trovare un po’ di felicità e di godimento. Questo clash è frutto di un elemento apparentemente minimo che per uno spettatore contemporaneo però entra in forte contrasto, quasi in collisione, con una memoria precisa. Ovviamente, al cospetto della complessità produttiva di una serie “globale” come Citadel: Diana aspira a essere, questo dettaglio potrebbe risultare quasi impercettibile, ed è impossibile attribuirlo a una scelta in qualche maniera voluta. Così come non è voluto ‒ evidentemente ‒ il contatto possibile che si crea proprio con la forma di montaggio di La stanza del figlio che vede Giovanni (Nanni Moretti) ricordare il figlio e soprattutto immaginarlo in un futuro possibile e reale. Qualcosa che riporta inevitabilmente ai due ragazzi che in un tempo e in una città morta fanno l’amore, ostinatamente verrebbe da dire.
Ogni immagine perde così il proprio movimento e contesto divenendo un insieme disordinatissimo e privato (per ogni spettatore) di sequenze riconducibili a diverse, ma ininfluenti, fonti.
Ecco allora che la canzone di Brian Eno, e non casualmente, riesce a connettere due situazioni cinematografiche così lontane nelle ambizioni come nel tempo; connette sinceramente ed efficacemente lo sguardo profondo di Matilda De Angelis, che resta però sempre in qualche modo opaco, come rassegnato all’evidenza della superficie quanto all’inutilità della profondità, con quello di Nanni Moretti che insegue invece la superficie come scivolando su un lago ghiacciato, tra una disperata impenetrabilità e un senso di perdita non più rimarginabile. Entrambi mostrano una forma di divertimento e di godimento (Giovanni disperatamente sulle giostre), ma sempre più obbligata a una consapevolezza di fine. Una parentesi e nulla più come può essere l’innesto della musica di Biran Eno. Poi i rumori della strada risalgono e anche l’ultimo sussulto dei corpi si esaurisce.
L’opera oggi è scomposta e ricomposta, spesso prima ancora che si abbia la possibilità non solo di vederla nella sua compiuta origine, ma anche di comprenderla.
Dal punto di vista dello spettatore si tratta di un innesto che in questo caso è particolarmente evidente nei suoi punti di origine, ma che è in verità quotidiano, continuo e figlio di un’esplosione dei contenuti in frammenti oggi visti e rivisti, letti e riletti, interpretati e spesso mal compresi che ci portano ad annegare in quel continuo scorrere di immagini e video che allucinano i nostri sguardi. L’opera oggi è scomposta e ricomposta, spesso prima ancora che si abbia la possibilità non solo di vederla nella sua compiuta origine, ma anche di comprenderla. Non si tratta più di una visione casuale che si oppone a una visione diciamo competente, ma di un flusso e di una vera e propria deriva che coinvolge chiunque non si chiami fuori da ogni strumento di comunicazione contemporaneo.
Nella scena di sesso di Citadel: Diana così come nella passeggiata de La stanza del figlio si connettono due momenti cinematografici estremamente diversi, ma che ora vengono in qualche modo obbligati a comunicare all’interno di una distonia restando totalmente aderenti l’uno all’altro. Una forma di montaggio immateriale che vive nella mente di ogni spettatore e che non si basa però più solo sul ricordo e su una memoria stabilizzata, che è frutto di un’esperienza acquisita, ma di una perpetrazione data da una visione distratta, imposta, casuale, e però continua e ossessiva. Un vedere che non solo si allontana dal comprendere (in questo caso l’opera) e dall’interpretare, ma che restituisce attraverso una giustapposizione un oggetto pubblico prodotto dall’inconscio privato.
Alla base della formazione di ogni cinefilo c’è il rivedere come gesto fondativo, che s’impone sul vedere, ma oggi questo gesto, compiuto non più all’interno di una sala cinematografica, dà invece corpo a uno stato emotivo, per l’appunto privato, che deforma e crea sintonie totalmente autoriferite, che non solo danneggiano il ricordo in sé rendendolo inesplicabile all’altro e quindi incomunicabile all’esterno, come avveniva durante il rito collettivo della sala, ma che elidono in parte o totalmente la forza espressiva dell’opera. Lo spettatore appare così ridotto a una macchina celibe: incapace di tutto se non di generare un pensiero che non sia altro che il frutto di una continua sovrapposizione priva però di alcuna reale elaborazione. Così Matilda De Angelis che fa sesso è ormai aderente a Nanni Moretti che vaga disperato. Una visione automatica che diviene totalmente surrealista nel momento in cui la finzione cade nella realtà quotidiana sotto forma di clip, frammento, episodio sempre recuperabile, tornando poi all’interno della messa in scena che vive però solo nella mente individuale. Il tutto attraverso un automatismo assolutamente inedito. La riproducibilità dell’opera diviene ora contestuale alla sua distruzione o meglio alla sua esplosione.
Alla base della formazione di ogni cinefilo c’è il rivedere come gesto fondativo, che s’impone sul vedere, ma oggi questo gesto, compiuto non più all’interno di una sala cinematografica, dà invece corpo a uno stato emotivo, per l’appunto privato, che deforma e crea sintonie totalmente autoriferite.
Citadel ‒ e in generale una produzione che si pretende globale e quindi in un certo senso assoluta ‒ non è solo un progetto che si basa sulla teoria del complotto, ma basandosene ne diviene parte integrante costruendo un immaginario confondente attraverso cui nessuno spettatore è messo nella posizione di godere realmente di un’opera artistica o d’intrattenimento con il giusto grado d’evasione così come d’impegno. Una libertà che un tempo era sì limitata dall’ideologia e dalla conoscenza di ogni singolo spettatore, ma che ora vive serrata all’interno di un pregiudizio figlio di un bombardamento mediatico assurdo e continuo, scomposto e quasi sempre fuori luogo, capace però sempre di una forza devastante e corrosiva. Una deformazione sostanziale della memoria e del suo uso che non solo danneggia il presente caricandolo d’ansia e di una capacità di giudizio tanto violenta quanto assurdamente convinta, ma che trasforma il futuro in un’ipotesi pericolosa. Un campo minato dentro al quale non si può più pretendere di avere alcuno spazio e alcun futuro.