

U na camera fissa su un tramonto dalle striature bordeaux, arancioni, violacee. In sottofondo il voiceover di un ragazzo che si chiede se esiste un posto per gli strani come lui; è stanco di sentirsi diverso, “qualunque posto è meglio di Wiley, bisogna avere solo il coraggio di andare dall’altra parte” dice. La camera inizia a muoversi, come se una mano tremula creasse piccole sovrimpressioni della stessa immagine, per qualche secondo il tramonto si sdoppia. La sequenza successiva è diurna, una ragazza corre dentro una struttura decadente che si affaccia su un fiume, poi una serie di riprese con una telecamera a mano, la grana è sporca, tanti sono i close-up e gli zoom repentini: volti di ragazzi e ragazze in costume e pantaloncini che si arrampicano nella struttura, si tuffano nel fiume o escono dall’acqua. Immaginiamo che il punto di vista sia quello del ragazzo della voce iniziale, è lui che riprende i suoi amici, è lui che documenta la sua giovinezza. La storia di Gasoline Rainbow (2023), diretto dai fratelli Ross e distribuito da Mubi, racconta il viaggio post-maturità di un gruppo di ragazzi e ragazze da Wiley (Oregon) alla West Coast. Di seguito appariranno: un camper vintage, foto scattate da Polaroid, una lunghissima sequela di tramonti, feste improvvisate, pantaloncini a vita alta per le ragazze e baggy per i ragazzi. Se non apparissero i telefoni e si citasse Amazon Music si faticherebbe a capire l’epoca in cui è ambientato.
Il set sembra lo stesso di Kids (1995) di Larry Clark ma la differenza è che i protagonisti di Gasoline Rainbow non sono stati raccattati a Washington Park negli anni Novanta e nonostante non siano attori professionisti, la messa in scena è ben presto svelata. Il punto di vista incarnato è una scelta registica precisa, si vuole creare uno spazio di prossimità tra i ragazzi e il pubblico. La sensazione che il film lascia è quella di una nostalgia pervasiva, che sembra frutto di un nuovo laboratorio algoritmico di un certo cinema che sta colonizzando l’immaginario del cinema indipendente. Tra l’altro in un momento storico in cui è sempre più difficile capire cosa voglia dire cinema indipendente (budget? estetica? narrazione?). Gasoline Rainbow è un perfetto esempio di una nuova ondata di cinema della nostalgia con un’estetica precisa che potremmo chiamare “estetica Mubi”: punto di vista del protagonista incarnato, falsa prossimità con il reale, ambientazione durante periodi sospesi e irripetibili (l’estate, la vacanza, la festa di compleanno), epoca non ben esplicitata, capacità di comunicare al pubblico attraverso la creazione di un dispositivo nostalgico e ricattatorio.
La sensazione che Gasoline Rainbow lascia è quella di una nostalgia pervasiva, che sembra frutto di un nuovo laboratorio algoritmico di un certo cinema che sta colonizzando l’immaginario del cinema indipendente.
Un altro esempio lo possiamo trarre da Aftersun (2022) diretto da Charlotte Walls e sempre distribuito da Mubi. Il film inizia con un buio protratto per tutti i titoli di testa, sentiamo solo il rumore metallico di una videocamera che si sta accendendo. Poi appare l’immagine amatoriale e asimmetrica di un uomo che scherza e saltella sulla soglia tra stanza da letto e balcone, sentiamo la voce della bambina che sta riprendendo, lo prende in giro, poi chiede di intervistarlo, lui ormai è fuori in balcone e sta ritirando i panni stesi, si incupisce insieme all’immagine stessa che vira verso una scala di neri. La bambina gira la camera, riprende sé stessa e fa al padre una domanda specifica: “Io ho undici anni, tu come ti immaginavi da grande quando avevi undici anni?”. Ritroviamo tutte le caratteristiche dell’estetica Mubi: punto di vista del protagonista incarnato dalla bambina che crea una falsa prossimità con il reale, l’epoca non ben esplicitata (che è un generico passato, poi si intuisce siano gli anni Novanta per il vestiario e per l’assenza di telefoni) e l’ambientazione in un tempo sospeso, quello della vacanza estiva tra un padre e una figlia in un villaggio turistico in Turchia (indicativa anche qui l’arena chiusa in cui si muovono i personaggi).
Aftersun come Gasoline Rainbow lascia addosso una sensazione di forte nostalgia mediale che è duplice: da una parte è legata alla visione di oggetti di massa (l’handycam anni Novanta, le Polaroid, il camper); dall’altra è legata al modo con il quale è mediata l’immagine che vediamo. Se il discorso di scatenamento della nostalgia legato a oggetti di massa è più evidente, meno studiato è il rapporto tra le nuove forme di nostalgia e i mezzi con cui rappresentiamo la nostalgia stessa.
Aftersun come Gasoline Rainbow lascia addosso una sensazione di forte nostalgia mediale che è duplice: da una parte è legata alla visione di oggetti di massa (l’handycam anni Novanta, le Polaroid, il camper); dall’altra è legata al modo con il quale è mediata l’immagine che vediamo.
la nostalgia non è più solo legata a un insieme di eventi, ma si collega ai mezzi stessi con cui li ricordiamo: la pellicola in bianco e nero degli anni Cinquanta, il super8 degli anni Sessanta e Settanta, il video a bassa definizione degli anni Ottanta. A questi supporti si aggiungono oggetti materiali – automobili, abiti, manifesti cinematografici – che si mescolano con i ricordi, diventando una vera e propria merce visiva. La nostalgia si fonde così con il consumismo, e ciò che viene evocato non è più solo il contenuto delle esperienze, ma anche il “corpo” stesso di quelle esperienze: gli oggetti e le immagini di epoche passate che, come merce, sono pronti per essere consumati e riprodotti. […] Inoltre non è difficile incontrare persone che provano nostalgia “genuina” per periodi che non hanno conosciuto. O meglio: per periodi che hanno conosciuto solo nella loro trasfigurazione mediatica.
Fred Davis, nel suo Yearning for Yesterday: A sociology of nostalgia (1979, ripreso sempre da Morreale), sottolinea come i media abbiano sviluppato una relazione di sfruttamento con la nostalgia, arrivando a “divorare” le proprie creazioni passate. Così facendo, l’intimità del ricordo, quello che una volta sembrava un territorio esclusivo delle memorie personali – come i tramonti, i compleanni, le riunioni familiari – è diventato qualcosa di condivisibile che amplifica e trasforma ciò che era una sfera privata in una merce culturale. La separazione tra pubblico e privato, una volta nettamente definita, si è sfumata, e con essa anche il carattere distintivo e unico delle nostre nostalgie individuali.
In entrambi i film la dinamica nostalgica è innescata e riverberata dalla scelta di creare degli home movies fittizi. In Aftersun il contrasto visivo tra le scene girate con l’handycam dalla bambina e le immagini pulite della camera è molto forte, è come se ci fosse una divisione tra una visione narrativa e una visione emotiva (che non porta avanti la storia, ma ne irraggia le sensazioni). Ma cosa hanno in comune i falsi home movies e quelli reali? E perché c’è stata questa scelta registica? Sicuramente il punto di vista incarnato (quindi la possibilità di vivere un ricordo in prima persona); il fatto che la realtà rappresentata è ulteriormente mediata quindi sembra più reale e prossima (la camera è visibile e ci coinvolge nel suo processo di mediazione); la grana consumata che segna un’estetica precisa. Gli home movies che vediamo in entrambi i film sono scritti, interpretati e editati, non c’è l’imprevisto del cinema amatoriale.
L’intimità del ricordo, quello che una volta sembrava un territorio esclusivo delle memorie personali – come i tramonti, i compleanni, le riunioni familiari – è diventato qualcosa di condivisibile che amplifica e trasforma ciò che era una sfera privata in una merce culturale.
A fondare le identità generazionali sono momenti, frammenti delle esperienze individuali. […] A costruire l’identità personale nel tempo è un tipo particolare di esperienza (o inesperienza), quella di consumatori, e particolarmente di consumatori di prodotti di massa. […] L’identità collettiva “giovani”, in questo senso, non risulta definita tanto da gerghi e subculture, quanto alla condivisione di un repertorio (vissuto individualmente, ma uniforme) di merci visive e sonore. E, inversamente, la cosa può anche esser vista così: quel che si crede costituire il proprio patrimonio più intimo e individuale è in realtà quanto di più impersonale e condivisibile si possiede.