N
ella sua versione protosemitica è rappresentata come due rette che non si toccano: dev’essere stato con il contatto, la tangenza, che la Z si è trasformata nell’ultima lettera, e nella lettera degli ultimi. È tutta una questione di intersezioni: con la Z inizia anche la parola zenith, il punto in cui – in astronomia – si incrociano la retta perpendicolare al piano dell’orizzonte, quello in cui si trova lo spettatore, e la superficie dell’emisfero celeste. A Bruxelles, allo stadio Heysel, la sera del 29 maggio del 1985, esattamente quarant’anni fa, “Z” è il nome della tribuna mista in cui convivono i tifosi delle due squadre che stanno per disputarsi la Coppa dei campioni: la Juventus e il Liverpool. È il settore in cui entrano in contatto due rette che non dovrebbero incontrarsi – non si sarebbero dovute incontrare – mai: famiglie, appassionati-non-esaltati, gente che con il mondo dell’esasperazione del tifo – una parabola che negli anni Ottanta si impenna vertiginosamente – non ha niente a che vedere.
I fatti di quella sera, che hanno avuto come teatro la tribuna Z, avrebbero cambiato per sempre la storia del calcio come eravamo abituati a conoscerlo, segnandone una delle pagine più buie. Gli hoolingans del Liverpool, armati di mazze e coltelli, costrinsero i tifosi pacifici ad arretrare verso il muro alle loro spalle, che implose su sé stesso. Nella calca moriranno 39 persone – 32 delle quali italiane, altre 600 ne usciranno ferite. A rendere ancora più cupa la serata, però, non sarà solo il lugubre bilancio, ma la prosecuzione di una farsa obbediente al principio taylor-fordista del “the show must go on”: la partita si terrà, nonostante tutto. La Juventus vincerà, ci saranno festeggiamenti, giri di campo, la commedia dell’arte: un sabba in cui va in scena la celebrazione della fine dell’innocenza.
A rendere ancora più cupa la serata del 29 maggio, però, non sarà solo il lugubre bilancio, ma la prosecuzione di una farsa obbediente al principio taylor-fordista del “the show must go on”: la partita si terrà, nonostante tutto.
Il
nonsense di quella serata è narrato in (e sviscerato da) una pletora di libri: in
La notte dell’innocenza, uscito nel 2015 per Rizzoli e nuovamente nelle librerie in questi giorni per Einaudi,
Mario Desiati scrive: “I fili d’erba di quel prato hanno visto guerra e sangue fino a pochi minuti fa, come possono adesso piegarsi sotto i tacchetti di ferro di ventidue calciatori?”. Il dilemma se lo pone un Desiati bambino, mentre guarda lo spettacolo in TV. Ma è lo stesso nodo gordiano attorno al quale si arrovella la riflessione di un già adulto Pol Vandromme, scrittore belga nativo di Charleroi (che si definiva «belga di passaggio e provinciale di Parigi»), Grand prix de l’Académie française nel 1982, in un testo scritto immediatamente dopo la tragedia, di getto, di pancia, “in un’unica presa di fiato, pervaso da timore e tremore”, e arrivato in Italia grazie a un minuscolo editore marchigiano, Vydia Edizioni d’arte, nella traduzione superba di Massimo Raffaeli (traduttore, tra gli altri, di
Céline e
Artaud):
Le gradinate dell’Heysel. Una morale per il calcio (2025). Le gradinate cui allude Vandromme sono il luogo mitico, etereo, in cui si trova l’osservatore sull’ideale piano dell’orizzonte, mentre sulla sua testa sfavilla e implode lo zenith.
Incredulità
“Il calcio è un racconto”, scrive Vandromme in apertura. “La memoria me lo ha recitato ancor prima che avessi l’età della ragione. È una memoria d’infanzia. Bisogna crederci. Bisogna credermi. L’Heysel, un mercoledì sera, ci ha resi increduli”. La sospensione dell’incredulità è una condizione necessaria in ogni patto tra scrittore e lettore, e lo è stato a maggior ragione quella sera del 29 maggio tra spettatore e protagonisti. Dal dramma che si inscena sotto gli occhi di Vandromme, di tutti, sgorga un flusso di coscienza tanto acuto quanto contrito, che si arrampica come edera tra le pagine con una scrittura “deragliante”, come scrive Raffaeli, pieno sì di rimpianti per l’arcadia mitica di un calcio-che-muore-quella-sera, ma soprattutto attento a dipingere, nelle sue sfumature più ferine, il calcio come macelleria (anche sociale), come calamità naturale, come Bestia. Un calcio come Méduse gericaultiana in balia delle onde dei tempi, dell’ipocrisia dei tempi.
In un’intervista concessa ad Adalberto Scemma, Raffaeli dice di aver fatto un’immensa fatica a tradurre questo libro, con buona probabilità al di là della lingua rigogliosa. “Era lì da dieci anni perché grandi editori, con cui pure collaboro, solo a sentir parlare dell’Heysel hanno sempre detto di no, inorriditi”. C’è da intendere che il blocco si origini non tanto dal tema in sé, quanto dalla maniera in cui Vandromme, con una lucidità che si spinge ai confini del cinismo, senza troppi giri di parole ci mette di fronte alla desacralizzazione di un profano sacralizzato: se Pasolini definiva il calcio “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, quella che prende vita all’Heysel è un pandemonio, una tregenda, la resa incondizionata alla Bestia “che colpiva per il piacere di distruggere”.
Vandromme, con una lucidità che si spinge ai confini del cinismo, senza troppi giri di parole ci mette di fronte alla desacralizzazione di un profano sacralizzato.
La posizione di Vandromme – uomo di una destra libertina,
buisonnière, anticonformista ma non a-tutti-i-costi – è quella che oggi ascriveremmo ai movimenti di pensiero che si scagliano contro-il-calcio-moderno, figlio del mercantilismo esasperato, del risultato per il risultato, della mutazione del tifo, “da fenomeno individualmente passionale e mitemente identitario a credo fondamentalista, parareligioso e xenofobo, chissà paramilitare”. Nel “glaciale silenzio successivo alla strage dell’Heysel” Vandromme vede la traduzione in emblema dell’eclissi di una vicenda secolare, che prendeva ad assumere – e che ha ancora – “i tratti di un’involontaria e nera parodia”. Il suo
voyage au bout de la nuit, tanto per rimanere “céliniani”, è anche un viaggio
à rebours, verso le origini del processo di incancrenimento: “Non mancavano segni che annunciavano il disastro”, scrive Vandromme: “I giocatori, nelle loro tenute coperte di reliquie pubblicitarie, erano i re di una preistorica negritudine. La corte tribale che li adulava […] brandiva stendardi e raganelle come i loro antenati le teste sulla picca”; “Era il mercante in fiera, un concerto di sonagli al passo dei buffoni. Il calcio era sempre un racconto, ma da jungla nera”.
Il teatro dell’abbrutimento e i suoi attori
Quel che vede Vandromme, quella sera di maggio all’Heysel, è “l’apoteosi della Bestia”: la sublimazione di una brutalità innata che, libera dalle costrizioni, può scatenarsi fagocitante, “ghul e gorgone insieme”: una brutalità “parossistica, da lanzichenecchi. Una brutalità quintessenziale, un’orchessa da topaia e latrina”. Un maelstrom che risucchia ed ammalia, un canto di sirena irresistibile tanto più perché normalizzato. Anzi, peggio: solennizzato. Nel descrivere i tifosi che irrompono sulla scena del disastro televisivizzato, Desiati nel suo La notte dell’innocenza scrive che sono diversi da come vengono iconografizzati oggi: “sono secchi, magri, scavati, non sembrano mastodontici, muscolosi o robusti”. Sono però, nondimeno, specie gli inglesi, nelle parole di Vandromme, “materia shakespeariana senza Shakespeare”, che girano “con la pece bollente e il tizzone in mano”.
Quel che vede Vandromme, quella sera di maggio all’Heysel, è “l’apoteosi della Bestia”: la sublimazione di una brutalità innata che, libera dalle costrizioni, può scatenarsi fagocitante, “ghul e gorgone insieme”.
Quella che si cristallizza all’Heysel, in effetti, è la congiunzione astrale dei tre satelliti che oscurano il sole calcistico che batte sul Regno Unito negli anni Ottanta: la difficoltà di controllare il pubblico (sebbene nella gestione dell’ordine pubblico, a Bruxelles, quella sera, ci sarebbe da scrivere molto), la fatiscenza degli stadi e soprattutto l’inarrestabilità dell’onda di rabbia sociale racchiusa in quello che per facilità, non senza un pizzico di riduzionismo, chiameremo
hooliganismo. L’Inghilterra aveva già avuto, diciotto giorni prima della tragedia di Bruxelles, il suo Heysel intimo: l’11 maggio al Valley Parade di Bradford era divampato un incendio, cinquantasei persone avevano perso la vita, eppure quel disastro avvenuto ai bordi dell’Impero non era riuscito ad avere la risonanza – e a indurre a una rilettura delle criticità – che avrebbe invece avuto una finale di coppa, trasmessa in mondovisione. Il calcio, per Vandromme, è alla stregua di “un ciclone, un tifone, un’eruzione vulcanica: noi eravamo lì, e ci stavamo accomodando”. A danzare sull’orlo del cratere un’entità complicata da contenere, pericolosa nella sua indefinitezza, forte dell’armonia dell’uniformità, quell’aggrumarsi organico che è sempre stato, nel Novecento soprattutto, il campanello d’allarme della sciagura: la folla.
“Ogni folla è spaventosa”, scrive Vandromme, “tutto in essa si confonde e si dissolve […], l’unione confusa e gregaria, l’unità del contronatura”. All’Heysel la folla caratterizzata (quella che fa della brutalità da stadio qualcosa di sistematico) e la folla indefinita (che si trova mescolata “intorno a un bivacco, tanti biglietti per il jamboree, tutti venduti, mercato nero in funzione, una pacchia”) entrano in combutta, si compenetrano: e la loro scissione atomica mette a nudo un principio tanto quintessenziale quanto difficile da accettare, cioè che “la ferocia è la nostra natura, se non altro una sua parte, tuttavia la più imperiosa”. La folla è sempre foriera di disastro. Noi siamo il disastro.
“All’Heysel abbiamo ricevuto le ultime notizie sull’uomo”, ammette mestamente Vandromme, “Ce le ha date la folla”.
Quando cade l’acrobata entrano i clown
La nostalgia per gli Auld lang syne è sempre un termometro pericoloso: messo a confronto con l’Arcadia perduta, il dipanarsi degli eventi che costellano la nostra quotidianità vive nel costante rischio della disattesa, della delusione. Nell’estetica borghese “vandrommiana” dello sport-come-diporto, è evidente che la visione della tregenda Heyseliana sia la macchia di muffa all’improvviso visibile sul muro, insostenibile agli occhi. Che non è però solo figlia della degenerazione sociale degli spettatori dello show calcistico, ma anche della nuova (depauperata) etica degli attori. Nell’infanzia di Vandromme “i giocatori avevano un mestiere, alcuni battevano il ferro, altri estraevano carbone nei pozzi”: erano figli della loro terra e dei loro tempi, e da loro profondeva la fatamorgana virtuosa di un uomo vecchio che si denudava per vestire i panni, allo stadio, dell’uomo nuovo. “Sai, è un avvocato” gli dicevano di Jean Capelle, l’eroe della sua infanzia: il fatto che fosse intelligente rafforzava l’apprezzamento del genio in campo. I calciatori moderni, invece, per Vandromme, Michel Platini, Zbigniew Boniek, Phil Neal, Kenny Dalglish, non sono che “flatus vocis dentro al sinistro orgasmo della Bestia insaziabile”. Phil Neal, il capitano del Liverpool, negli istanti immediatamente successivi alla tragedia prese la parola: parlò ai tifosi, richiamandoli alla calma, così come parlò allo stadio Gaetano Scirea, capitano della Juventus, che con la voce rauca disse “La partita verrà giocata per consentire alla polizia di organizzare la protezione durante l’uscita dallo stadio”. “Restate calmi”, chiosò, “giochiamo per voi”.
Quella partita non sarà che “la messa solenne dopo il sabba”, certo imposta dai più alti vertici della Curia calcistica, ma della cui celebrazione, nondimeno, i calciatori saranno in qualche modo complici, chissà quanto inconsapevoli.
Ma quella partita non sarà che “la messa solenne dopo il sabba”, certo imposta dai più alti vertici della Curia calcistica, ma della cui celebrazione, nondimeno, i calciatori saranno in qualche modo complici, chissà quanto inconsapevoli; proprio quei calciatori che “avevano carezzato la Bestia per il verso del pelo, e mormorato all’Insaziabile le parole che invitano alla calma”; “Platini al colmo della gioia dopo il calcio di rigore vincente, il tumulto di una felicità dirompente, i bengala e le luminarie, il giro d’onore sotto gli evviva, l’isteria, la scempiaggine infernale”. Di fronte alla nausea, ai corpi senza vita ancora caldi, alla “putrefazione che colava sui vivi”. Per cercare di spiegare il
nonsense di quella serata, Vandromme usa una metafora che tornerà nelle parole di Michel Platini durante un’intervista concessa a
Marguerite Duras per
Libération, nel 1987: Platini disse “quando cade l’acrobata, entrano i clown”; Vandromme, due anni prima, scrive “al circo, quando l’acrobata manca il trapezio, lo spettacolo continua. Il cadavere dietro le quinte, i clown in scena”.
Cosa ci lascia l’Heysel
A quarant’anni di distanza, l’isteria collettiva con la quale il calcio ha saputo reinventare modi di gettare la polvere sotto il tappeto persiste. Ci sarebbero state altre tragedie (Hillsborough), altre nonchalance, altri asservimenti-al-male-minore, alla tecnocrazia televisiva, alla mercificazione (il Mondiale qatariota, su tutti, e quello prossimo a venire in Arabia Saudita). La chiave di lettura di Vandromme suona oggi magari un po’ demagoga, con leggere venature riduzioniste, classiste e razziste (“un calcio si giudica dalla teppacrazia che ingombra le gradinate degli stadi, e un popolo dalla sua plebaglia”, ma anche “ogni lembo di terra ha il suo frumento e la sua gramigna”): nondimeno, con la sua lingua pomposa, prendendoci per mano in un viaggio alle radici di una brutalità sempre più accettata, normalizzata, Vandromme ci consegna una massima ancora oggi, probabilmente, attualissima: “il calcio, con il rock e l’Islam, è l’ultima grande religione di questo mondo”.
L’Heysel, supernova esplosa nella tribuna Z, è stato uno spartiacque innegabile: il vertice di una parabola demoniaca, dell’escalation della violenza, della “neglettitudine”, dello spettacolo a ogni costo. Il punto più basso mai raggiunto. Oltre il quale non si può scavare, forse. Ma sono libri come quello di Vandromme, visioni lucide come la sua, spadaccine e coscienti, ad aprire ancora uno squarcio nella stratificazione della memoria, al cuore delle cose. Dove si annidano gli ingranaggi con i quali capire cosa abbiamo perso quel giorno, come ci siamo arrivati, per non tornarci mai più.