

U no dei temi più dibattuti nella scena poetica italiana è quello della soggettività: come si costruisce, che relazione ha con il linguaggio che la esprime, in che rapporto si trovano la persona che scrive e la sua proiezione lirica, la voce messa a testo. Per una tradizione che ha già ai suoi albori una biforcazione tra una scrittura più narrativa, immaginifica e pluristilistica (Dante) e un’altra più intimista, autoanalitica ed essenziale (Petrarca) forse il costituirsi di questo problema, vista anche la vittoria storica del petrarchismo, era inevitabile.
Risolvere la questione in modi rigidamente dicotomici, tuttavia, è una semplificazione, benché sia evidente come tendano a essere due gli approcci principali al problema, uno che punta all’aderenza tra soggetto biografico e soggetto lirico e l’altro che cerca, in vari modi, di creare una scissione (su questa seconda strada rimando a un articolo precedente). È una semplificazione soprattutto se pensata in termini assolutistici di presenza contro assenza del soggetto – cosa che non permette, ad esempio, di potersi avvicinare seriamente a un autore significativo come Alessandro Broggi, scomparso pochi mesi fa dopo essere stato a lungo tra i protagonisti della scrittura di ricerca italiana. Con i suoi ultimi lavori, Noi, Sì e Idillio, costituenti una trilogia (i primi due sono usciti nel 2021 e nel 2024 per la collana UltraChapBooks di Tic curata da Michele Zaffarano, e Idillio ancora nel 2024 per Arcipelago Itaca, nella collana Lacustrine di Renata Morresi), Broggi ha infatti aperto una dimensione nuova, e non solo in riferimento all’area di ricerca. Una dimensione in cui il pensiero della soggettività è rimesso in discussione con modalità (e intensità) nuove e specifiche.
Se i primi libri puntavano a far emergere criticamente gli automatismi del linguaggio comune, a renderli traslucidi proprio performandone la trasparenza presunta, l’ultima trilogia si interroga sulla fondazione di una diversa esperienza, del testo e dell’immaginario in esso evocato.
capire il perché delle cose
nel modo più semplice possibile
in frequentazioni quotidiane
con le persone più diverse
concentrare l’attenzione
sulla bellezza degli oggetti
per un effetto più drammatico
come a rivelare un senso
non avremo più tragedie
per trarre auspici sul futuro
un’atmosfera elettrizzante
ha ispirato nuove favole
Da Noi:
La strada è accidentata. Piove. Stiamo entrando nel paesaggio e cominciamo a distrarci camminando: a volte pensiamo a una persona in particolare, altre volte è solo l’idea di una persona. Seguiamo puntualmente il percorso: cosa c’è di fronte a noi? La linea azzurra di un corso d’acqua riflette le prospettive, il tempo si schiarisce. Non smettiamo di ridere, la cosa più importante per noi è che qualcosa succeda. Lo stridio della civetta si fa sentire più volte, vicinissimo. Attraversiamo la prima cortina di alberi, il panorama è solo moderatamente boscoso, diciamo qualche frase con calma. Adesso il tempo si muove più velocemente. Una sponda fluviale sabbiosa, la superficie levigata di un lago, la foresta al crepuscolo. In questa zona confluiscono diversi tipi di ambienti, ci sono innumerevoli direzioni.
Guardiamo il cielo – qual è l’intero campo delle possibilità? Lo chiediamo agli altri ma è più che altro una domanda rivolta a noi stessi. La storia lo dirà, sapremo ciò che faremo e avremo tutto il tempo per farlo. Scorgiamo qualcosa in lontananza e avanziamo da quella parte.
Ciò che vorrei evidenziare, però, è che al cambio di passo stilistico si contrappone una salda continuità concettuale, che si chiarisce a libro terminato, quando nel paratesto – che a questo punto diventa per certi aspetti indistinguibile dal testo – in una nota finale, leggiamo: “Il dettato di Noi è quasi interamente costruito con una sottile e fitta trama di microprelievi, effettuati da testi esistenti di diversa provenienza”. Noi, insomma, cucendo citazioni da libri, post di Facebook, linguaggio mediatico e altre disparatissime fonti, sembra consolidare il sogno benjaminiano di un libro-centone, in cui nessuna parola è creata da chi scrive, ma solo riportata e così deviata. Con questo lampo finale, il libro si illumina retroattivamente di una luce del tutto diversa da quella dei chiari boschi attraversati dai personaggi: per prima cosa acquistano un peso maggiore i ragionamenti autoriflessivi che puntellano il libro in ogni parte (“In uno scenario che chiameremo ‘il paesaggio’”, “non riuscivamo a uscire per strada a causa dell’eccesso di informazioni”, “La natura delle nostre osservazioni ci sfugge”) e trovano espressione definitiva nell’uomo che legge i libri nel finale (sorta di autoallegoria dell’opera, come spiega di nuovo Picconi); poi sia il paesaggio sia i personaggi e le loro azioni perdono presa sul reale, hanno la consistenza del simulacro (“Disidentificarci da questo luogo e da questo tempo ed essere qualcun altro”, “ci atteniamo alla nostra facoltà di muoverci senza conseguenza”).
Noi, cucendo citazioni da libri, post di Facebook, linguaggio mediatico e altre disparatissime fonti, sembra consolidare il sogno benjaminiano di un libro-centone, in cui nessuna parola è creata da chi scrive, ma solo riportata e così deviata.
L’irriducibilità di Noi a messa in scena narrativa, da una parte, o a puro metalinguaggio dall’altra, è del resto l’asse portante di tutta la trilogia. Sì, uscito due anni dopo, la rilancia pienamente, anche se optando per qualche scelta stilistica e strutturale differente. Rispetto a Noi, intanto, Sì si presenta più frantumato: pur ricorrendo anch’esso alla prosa, e anch’esso ai microprelievi, il flusso presente in Noi è sezionato in quattro microlibri (Sì, Altri segni, Tertium quid, Ultimo esempio), il primo dei quali a sua volta diviso in parti e capitoli numerati in blocchi non progressivi (ad esempio in (Scioglimento) compaiono testi numerati da Quarantuno a Cinquantatre, mentre in (Attività), che viene dopo, da Trentuno a Quaranta). La costruzione pure immaginifica (in senso lato) di Noi viene insomma sfilacciata, il suo paesaggio dissolto e la prosa maggiormente stratificata:
Trenta
«Da dove viene questa sensazione? Che cosa fa per farmela provare? C’è coincidenza tra le nostre emozioni?…» Puoi saperlo, Maurizio, non manifesti un’indole costante ogni giorno e per tutto il giorno, sei dotato anche tu di immaginazione, qualsiasi cosa può succedere a chiunque, devi essere preparato a tutto… «Lascio che crescano. Il cuore batte contro le costole, di ciò che accade non ho alcun controllo»…
Una brown porter, un flan… hai nel piatto frittelle di fave e panna acida, scampi alla creola e gelatina di nespole, una focaccia allo zenzero… Cotogne e gouda. Anguille fumanti, sfere di frutta… “Quando tacevano, in realtà parlavano; quando parlavano, tacevano”…
Mi trovo di fronte una terrina di pâté di tamarindo, zuppa di ortiche e spiedini sfrigolanti, respiro l’effluvio dei fumi di cottura…» “Discorrevano, conversavano, si intrattenevano con un approccio graduale, con la discrezione di chi vuole imparare lui stesso dalle parole che cerca, e dalle messe in forma che quelle operano: non le moltiplicavano per esserne certi.
“Un cucchiaio di salsa di rognoni, di lampascioni e fichi sciroppati, avevano sotto la forchetta asparagi e lamponi, castagne e cavolfiori – cavatelli, bombarde, salsiccia gialla, una piccata di pistacchi”…
Nei suoi gesti sereni, affidati, si imprime un dato esistenziale profondo: Melania si stringe a te e vi alzate in piedi fissandovi, un unguento scuro le fa brillare le palpebre. “Questi frutti si pelano facilmente, Maurizio ha poi spostato qualche stoviglia, stappato una fiasca, servito l’ananas a fette, davanti a un vassoio coperto di bucce… E all’ultima affermazione si è visto che anche lui aveva gli occhi lucidi…
“Come derivata momentanea di operazioni in corso in quel frangente la creatività, la gratuità, ogni aspetto, i gigli sul tavolo, per esempio, o lo studiato attorcersi delle chiome nell’acconciatura, il profumo della sua persona o la sensibilità del corpo per le posizioni nello spazio, cooperava a qualcosa che avrebbe ritenuto di non rinvenire più in nessun’altra, che le emozioni che passavano tra loro alimentavano, e dal quale avrebbero preso le mossa la reciproca approvazione dei corpi e l’impronta di un calore fecondo…
“Le ha parlato ancora, lei era contenta ma non sopraffatta da sorpresa o gratitudine; lo ha accolto semplicemente, ha lasciato che la sua mente vagasse pur continuando ad annuirgli. Gli ha appoggiato le mani sulle spalle, l’ha voltato di nuovo verso di lei, le sue labbra dicevano: Ti adoro.
“Hanno scherzato allegramente – uno scalpiccio di sandali nel buio, e la notte, insieme, senza parole, piena di rotolamenti, di piegamenti”…
«Entrambi siamo stati con noi stessi e con l’altro completamente».
Dove sei, Maurizio? Che cosa accade adesso?
Benché ancora giocato sulla simulazione della narrazione (anche in continuità diretta con Noi, come farebbe pensare il ritorno di “Maurizio”), quindi, per via del continuum infranto e della rimozione dell’esplorazione geografica dal centro del discorso, Sì appare più disconnesso, consapevole che il lettore sia consapevole ‒ avendo probabilmente già letto Noi ‒ di trovarsi di fronte a un puzzle di citazioni. Anche per questi motivi il momento purgatoriale della trilogia di Broggi segna il passaggio, come spiega Picconi, dal problema dell’enunciazione (comunque sottinteso e attivo) a quello dell’interpellazione. Sì è infatti scritto in seconda persona (qualche incipit: “Sei implicata nei tuoi usi”, “Stai aspettando un bambino”, “Confezioni articoli per la toelettatura felina”) e si mostra stratificato in “livelli enunciativi” (come li chiama lo stesso autore, in nota) segnalati rispettivamente dalle virgolette alte e da quelle basse. Questi livelli enunciativi, però, non vengono assegnati a nessun personaggio ben caratterizzato, e si inseriscono nel testo arbitrariamente, irrompono – come a dire che se i personaggi paiono più simili a fantasmi, a momentanee concrezioni linguistiche, la loro voce è parimenti inattribuibile e che, ancora con Picconi, “la lingua di per sé è già sempre interpellazione”.
Anche per Sì è bene tenere a mente una serie di giochi allusivi e antifrastici: accanto all’uso slogato del “tu”, non può non notarsi l’ironia di chiamare Sì un libro destinato a essere tra i più rilevanti di quella linea di scrittura che insiste, al contrario, sul paradigma della non-assertività.
E proprio a sigillo di queste frizioni si pone Idillio, l’etereo capitolo finale della trilogia. Etereo fin dall’esergo, visto che mette in prima pagina questa citazione di Borges: “Credi che la caduta sia qualcosa di diverso dal non sapere che siamo in Paradiso?” Si badi al fatto che ogni riduzione della triade broggiana ad altre triadi che l’intuizione potrebbe suggerire, come quella dantesca, pure allusa dal porre il terzo capitolo “in Paradiso”, viene in realtà sconfessata – ora è chiaro – dalla natura stessa di questa scrittura, che se si articola in tre momenti, lo fa ancora secondo un’allusione accennata e a suo modo perplessa. Né Dante né tantomeno Hegel, dunque, come base per la triangolazione, se non come metacitazioni ulteriori in un quadro di testi già pienamente riciclati, come forse dimostra l’esergo stesso, preso da La rosa di Paracelso: la battuta, in Borges, è attribuita a un Paracelso che si confessa ciarlatano al suo discepolo, e tutto il racconto ha a che fare con l’ambiguità della parola del vecchio alchimista, sospesa in maniera irrisolta tra menzogna e potere magico.
Vero però è che la sostanza diafana dell’Idillio si rivela anche nella sua precisa costituzione, per certi aspetti molto diversa da quella dei due libri precedenti. Il libro, infatti, appesantito da ben 304 pagine (ma, bisogna sottolinearlo, non numerate), è per contro alleggerito dal fatto che ad attraversare la sua mole sia un unico testo, sbriciolato in tasselli posti solo sulla pagina destra e in punti irregolari dello spazio cartaceo. I tasselli – di cui non riusciamo qui a riprodurre l’impaginazione – sono di questo tipo:
E così via. Come si vede, anche se posizionati uno per pagina, questi tasselli costituiscono un discorso filato, tanto in senso sintattico quanto in senso visivo, dal momento che, se fatti scorrere velocemente come si fa con i flip-book, si vede svilupparsi, nell’arco di trecento fogli destri, la continuità di una pagina e mezza scritta. Questa conformazione non solo rafforza la componente fisica del libro, nonché quella visiva e quella gestuale necessaria ad apprezzarla, ma lo apre anche a modalità di lettura plurime, di cui Mariangela Guatteri ha evidenziato le diverse durate e relazioni con il tempo (su cui si interroga anche Renata Morresi).
Con Idillio siamo ancora nell’innesto costante tra racconto/auscultazione di uno spazio naturale esterno, ragionamento astratto e metascrittura.
Proprio per via del suo minimalismo, Idillio completa lo stridio tra appercezione e insufficienza del linguaggio che sembra attraversare tutta la trilogia e rappresentarne non solo la motivazione concettuale, ma anche la capacità espressiva.