

M i sono sempre immaginata Emily Dickinson di spalle. Una donna senza volto con la schiena curva su plichi di scritti, la grafia nervosa, gli occhi stanchi dalle letture voraci. Oppure distesa sul letto, senza forze e con le braccia penzoloni. La porta chiusa con un enorme chiave in ferro battuto. Isolata, sola, possibilmente triste. Leggendo l’ultimo saggio di Sara De Simone, Una tranquilla vita da vulcano: una storia di Emily Dickinson (2025), mi sono resa conto che probabilmente non sono l’unica a immaginarla così, ma che è ora di rileggere le sue poesie con occhi più attenti. Tornare ai testi, dice sempre De Simone.
Il saggio è pubblicato da Solferino per Genealogie, collana nata in collaborazione con il Festival di scrittrici InQuiete. Il progetto si fonda sulla necessità di restituire alle scrittrici del passato una complessità che il canone ha spesso semplificato o completamente escluso. Raccontare daccapo, disegnare i volti mancanti (le copertine non a caso sono sempre ritratti), farle alzare dalle scrivanie e dai letti (luoghi importantissimi, ma non gli unici abitati dalle scrittrici) e farle muovere nel mondo.
L’operazione di De Simone va in due direzioni: raccontare i primi anni di vita della scrittrice (il suo rapporto con il mondo fuori dalla porta) e riscrivere il concetto di isolamento di cui tanto abbiamo sentito parlare.
L’operazione di De Simone va in due direzioni: raccontare i primi anni di vita della scrittrice (il suo rapporto con il mondo fuori dalla porta) e riscrivere il concetto di isolamento di cui tanto abbiamo sentito parlare. “Non conosciamo, e probabilmente non conosceremo mai, tutte le ragioni del ritiro di Emily Dickinson. Quello che sappiamo, e che è importante ricordare, è che non si trattò di un ritiro dalla vita, contro la vita. Ma in ascolto della vita. Di una solitudine ricca, fertile, in aperto dialogo con il mondo e le sue creature”. Dickinson continuerà a leggere i quotidiani, a scrivere poesie e lettere, a cucinare dolci. La sua stanza è il luogo necessario per praticare la libertà, per dedicarsi totalmente alle sue poesie, è una scelta, “la difesa di uno spazio di autonomia, la protezione della stanza della scrittura”.
Dickinson è come la sua poesia, è qui e altrove, in grado di unire il basso e l’alto, la morte e la vita, quello che c’è dentro e quello che c’è fuori la porta. E il saggio riesce a tenere insieme tutto.
Quando Katie cammina, questo semplice paio il fianco cinge,E pensare che nella prima edizione del 1890 Dickinson veniva definita nella prefazione dal letterato Thomas Wentworth Higginson come “una donna reclusa […] invisibile al mondo come vivesse in un convento” e si prodigò persino per eliminare tutte le dediche alla sua amata Susan perché “i maligni potrebbero leggervi dentro più di quanto quella vergine reclusa si sia mai sognata di mettervi”. Allora qui è utilissimo il movimento critico che fa De Simone, tornare ai testi, sempre.
Quando agile corre, insieme a lei corrono per la via,
Se Katie s’inginocchi, quelle mani amorose ancora serrano le sue ginocchia pie ‒
Oh! Katie! Alla Fortuna puoi sorridere, se due ti avvincono così!
Notti selvagge – Notti selvagge!Questa poesia si intitola Wild Nights e viene cancellata dalla prima edizione. La stessa edizione in cui tutti i versi vengono normalizzati: la punteggiatura addomesticata, le poesie ordinate per grandi temi (Amore, Dio, Natura), aggiunti titoli (a volte didascalici). La costruzione è pronta: una poeta vergine, reclusa, decorosa, quasi una santa. Il volto si sbiadisce sempre più, la chiave della porta viene buttata via.
Se fossi accanto a te
Notti selvagge sarebbero
La nostra estasi!
Futili – i venti –
Per un cuore in porto –
Via la Bussola –
Via la Mappa!
Vogare nell’Eden –
Ah, il mare!
Potessi soltanto ormeggiare –Stanotte –
In Te!
Il saggio, invece, ci restituisce l’ingresso per quella stanza, ci delinea il volto della poeta. E nella storia di Emily Dickinson centrale è il rapporto con la già citata Susan. L’amatissima Susan Gilbert, la prima compagna di avventure e di esercizi immaginifici per costruire mondi in cui la poesia è materica, perché se Dickinson è un vulcano, le sue parole sono la lava dormiente che aspetta di esplodere. Un legame che trattiene amore, amicizia, scambio intellettuale e artistico. Un dialogo instancabile che è durato per più di trent’anni, che è fondativo, che nutre i versi della poeta. Sue è la sua prima lettrice, la destinataria della sua prima poesia e di quasi trecento componimenti. La loro è un’alleanza che le eleva: “Susie, io e te siamo gli unici poeti ‒ mentre tutti gli altri sono prosa” scriverà Dickinson. È a lei che sempre Emily scriverà: “cara Sue, con l’eccezione di Shakespeare mi hai insegnato più cose tu di ogni altro essere vivente”. Susie è sì, lettrice attenta, ma è anche editor.
Nella storia di Emily Dickinson centrale è il rapporto con l’amatissima Susan Gilbert, la prima compagna di avventure e di esercizi immaginifici: la loro è un’alleanza che le eleva: “Susie, io e te siamo gli unici poeti ‒ mentre tutti gli altri sono prosa”.
De Simone ha la capacità di tornare sui testi con uno sguardo puro, come se li leggesse sempre per la prima volta. È in grado di coglierne le linee d’ombra e si sa muovere su questo margine. E proprio l’ancoraggio ai testi (i tantissimi carteggi, le poesie spesso tradotte da De Simone stessa) è uno dei pregi più grandi di questo saggio. Non c’è l’inserimento di una voce all’interno di una storia editoriale, ma c’è una volontà precisa di eludere il mito e far emergere la voce originale di Dickinson. E ci riesce. Ci porta così vicini alla poeta da farcela sentire compagna, amica, confidente. La sua poesia diventa concreta.
E proprio l’ancoraggio ai testi è uno dei pregi più grandi di questo saggio. Non c’è l’inserimento di una voce all’interno di una storia editoriale, ma c’è una volontà precisa di eludere il mito e far emergere la voce originale di Dickinson.
Il testo si chiude con un capitolo intitolato “Il mito” in cui si ribadisce la volontà non tanto di una contronarrazione, che sarebbe quasi un termine riduttivo, ma di una visione di “sbieco”. Scriveva Dickinson: “Di’ tutta la verità / ma dilla sbieca” e aggiunge De Simone: “per “sbieca” non s’intenda ambigua, equivoca, parziale: no, la verità va detta “tutta”, ma per traverso, inclinata, passando per quelle linee diagonali che sempre uniscono l’alto e il basso, la felicità e il dolore, la vita e la morte”. Ed è ciò che riesce a fare questo saggio, a unire i puntini (come fosse un gioco), e ricordare chi è stata Emily Dickinson. Una poeta, un’amante, una sorella, una zia, un corpo curioso e desiderante, misterioso e tangibile:
in fondo, quale immagine, chiarisce e mantiene il mistero di Emily Dickinson più di quella di un uccello che canta, non visto, nei boschi? Il suo canto è inevitabile, ci raggiunge, ci riguarda da vicino, eppure la sua origine rimane segreta. Sicura presenza che non vediamo, ma ci attraversa. Come la poesia. Come la vita. Raccontabile e irraccontabile. Perché, che cosa si può aggiungere al canto di un uccello? Forse solo l’impressione verde di un ramo, il lampo di una piuma che ci pare di aver visto nel fitto del fogliame. Era lì? Era vera? Mentre il canto continua.