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rigione e vie di fuga
La critica letteraria si domanda in che misura e in che modo, dopo Troppi paradisi (2006), Siti abbia continuato a raccontare sé stesso nella forma dell’autofiction. Il cognome non appare più, riappare però un Walter nel quale riconosciamo l’autore: a volte in prima persona, a volte in terza nei panni del “professore” o di un personaggio secondario. Realtà e finzione continuano a confondersi in quella che è stata chiamata “un’altra forma di scrittura dell’io”. Più importanti delle varianti, delle classificazioni e delle nomenclature sono però il persistere della forma e l’abbandono del proposito di non raccontare più nulla di sé. In questo senso i finali di Scuola di nudo (1994) e Troppi paradisi, così simili, sembrano indicare in Siti la percezione di una mancanza e un conseguente bisogno di rettificare. Come se in Scuola di nudo avesse cantato vittoria troppo presto (“ho cantato come la gallina che ha fatto l’uovo”, appunto).
Il finale di Troppi paradisi appare certo più autentico e completo: Walter accetta il capitalismo trionfante e il proprio ruolo da piccolo-borghese all’interno della società tecno-mediatica. Si è liberato, è diventato anche soggetto modernamente sovrano. È un accademico in carriera, disinibito consumatore di sesso mercificato; del Principe non è più succube ma antagonista, letterario nel caso di Pasolini ed erotico nel caso del milionario amante di Marcello. Il bisogno di salvezza e di autofiction resta però anche dopo questo finale, ed è di nuovo per disertare da un’esistenza socialmente approvata e priva di sussulti che Siti si mette in scena nelle borgate di Roma. Se dopo Scuola di nudo era stato l’Angelo caduto a salvarlo da un’ipocrisia di coppia piccolo-borghese e dall’abbraccio disumanizzante del capitale, stavolta – à la Pasolini – lo salvano la microcriminalità dei reietti, l’abuso di cocaina, la vitalità violenta e scomposta dei sottoproletari che sognano carriere in televisione. La letteratura di Siti appare in questo senso come il prodotto di una personalità bipolare: da un lato il suo protagonista si sente socialmente inferiore e aspira a una normale vita borghese, dall’altro disprezza la borghesia e ama gli inferiori, suoi compagni di pena.
La letteratura di Siti appare come il prodotto di una personalità bipolare: da un lato il suo protagonista si sente socialmente inferiore e aspira a una normale vita borghese, dall’altro disprezza la borghesia e ama gli inferiori, suoi compagni di pena.
c’è un poliziotto, tenuto in una certa considerazione perché ogni tanto ricicla la cocaina dei sequestri; a lui più che agli altri si rivolge Gianfranco, prima discutono di un Porsche sottocosto poi ridono sulle puttane che ti vogliono fare per forza una pompa se non le schedi, è troppo facile, “a ’sto punto ciavrei ’o sfizio de ’na vergine”; “seh, a trovalle… ormai c’è solo via dell’Acqua Vergine ma è peggio che andà de notte, perché lì ce stazionano ’e nigeriane… co’ quelle te becchi l’aids in un nanosecondo”.Prende una sigaretta, la umidifica con le labbra, la impana nella cocaina e intanto ordina a Marcello di spogliarsi nudo e di assumere pose ridicole. Gli introduce due, tre dita, Marcello stringe i denti. Poi cominciano le botte pesanti, gli schiaffi, i pugni; la miscela ha fatto effetto e Gianfranco si scatena come una bestia. Le vecchie posizioni, che permettevano a Marcello di riceverlo senza dolore, sembrano non attirarlo più: lo incastra con la testa sotto il divano, lo calcia sulle costole
Il contagio (2008) è formalmente dramma satiresco: segue e completa Troppi paradisi con una commistione di comico e tragico.
Si precisa intanto e si articola, di pari passo con la frequentazione dei sottoproletari, il polo della ripugnanza per la classe media. Se Scuola di nudo aveva raccontato l’intelligenza inutile e malevola degli accademici di Pisa, se Troppi paradisi aveva mostrato gli autori televisivi come una spensierata e spregevole manovalanza intellettuale al servizio del capitale mediatico, Il contagio oppone alla progressista e benpensante Lucia, al suo giro radical-chic di giornalisti colti e figlie di alti dirigenti statali, la brutale sincerità di Mauro che cerca di uscire dalla borgata facendo il palazzinaro per conto della camorra. Alla ginnastica intellettuale di Lucia, alle sue sterili introspezioni, Mauro risponde con la disperazione di un ragazzo di strada che con crescente malessere si trova a lavorare per degli assassini (“Sai c-come diceva mi’ nonna? Chi la croce n-nun ce l’ha, pija du’ zeppi e s-se la fa…”, le dice balbettando per la cocaina).
Siti non ha mai nascosto il proprio disprezzo per la piccola borghesia benestante che – pur prosperando come lui nella radiazione del Capitale mediatico – si rifiuta di comporre in una visione sistemica i singoli frammenti di conoscenza offerti dal regime iperreale: voler sapere troppo metterebbe a rischio una posizione acquisita, farebbe aprire gli occhi sui padroni e sui servi del “paradiso concentrazionario”. È proprio in questo senso di candida malafede che in Troppi paradisi gli addetti televisivi erano stati paragonati ai quadri medi del nazionalsocialismo:
Tutti in fila, a passarsi forchette di plastica e bustine di dolcificante, in quello che chiamano “il nostro garden” perché è una zona del refettorio separata con una stuoia verde; vi si consumano sorde guerriglie […]; il confronto irresistibile è con le mense naziste, Stamattina m’hanno detto di cercare un gas che costi poco, ho trovato una ditta che per grandi quantitativi ci fa uno sconto del trenta per cento; che gas? boh, si chiama Zyklon B; e a che serve? non lo so e non è mia mansione saperlo. Poi via col vassoio ad accaparrarsi la porzione di patate con la più invitante crosticina sopra.
Siti non ha mai nascosto il proprio disprezzo per la piccola borghesia benestante che – pur prosperando come lui nella radiazione del Capitale mediatico – si rifiuta di comporre in una visione sistemica i singoli frammenti di conoscenza offerti dal regime iperreale.
Il fatto è che Siti non è capace di sdegno morale, e anche in ciò sta la forza narrativa del Contagio. Contagiato piccolo-borghese è lui stesso, consapevolmente, e in questo senso il libro è un episodio della lotta di Walter contro il sé stesso-Occidente. Da un lato paga e possiede, cerca nel sesso mercenario un “surrogato d’onnipotenza” e ricorre alla lingua aziendale finanche nelle introspezioni (“cercando di alleviare la sofferenza, svaluto il mio capitale”); dall’altro – come in Troppi paradisi – ama l’anti-Occidente in Marcello che è privo di ego, è troppo puro per calcolare e da un mondo che lo spaventa si allontana tramite la cocaina, essa stessa figura della scissione sitiana. Da un lato demistificata come Merce perfetta, droga d’Occidente, simbolo dei media e “interprete della visione occidentale del mondo”:
se i cartelli internazionali della droga potessero quotarsi in Borsa, sarebbero tra i leader della finanza mondiale, nessun manufatto e nessuna materia assicurano così alti margini di profitto. Un prodotto di cui il cliente non può fare a meno è il sogno di qualunque pubblicitario. Come un circuito così coerente possa chiamarsi semplicemente un vizio, solo il dio dei conformisti lo sa.La coca agisce sui recettori della dopamina, quel neurotrasmettitore che comunica al cervello le sensazioni di benessere; normalmente, i suoi recettori rimangono “aperti” per qualche frazione di secondo, mentre la cocaina li costringe a ritardare l’orario di chiusura, dunque ad amplificare e prolungare la beatitudine. Ma, costretti a questo superlavoro, molti recettori finiscono per atrofizzarsi e cadere, sicché i pochi che restano non riescono più a captare i piacere di minore intensità […]. Ogni piacere, da quel momento in poi, dev’essere speziato, sensazionale, clamoroso (come diceva ogni cinque minuti Mentana nel suo telegiornale). Escalation, insomma. […] il muscoloso sta diventando enorme, il magro anoressico; qualunque piazza da paese si trucca da Times Square. Tutti stiamo aspettando che un reality abbia finalmente il coraggio di offrirci una morte in diretta: la società dello spettacolo è una cocaina a lento rilascio.
dobbiamo dire grazie alla cocaina se molti nostri giovani non diventano degli insulsi e consenzienti esecutori di un potere decerebrante, e se dimissionano dal gregge per strade più tormentose. Mi chiedo se la cocaina non debba essere concepita come una forma disperata di resistenza.
pur amandolo, ho voluto il suo male invece che il suo bene. L’ho spinto a esagerare con gli anabolizzanti, i testosteronici e l’ormone della crescita, perché solo ipermuscoloso colmava le mie fregole […]. Gli facevo trovare io stesso la droga a casa mia (“c’è l’allegato in omaggio”) perché così il suo desiderio di raggiungermi era più spontaneoTu mi hai insegnato a guardare oltre le cose, perché era là che vivevi davvero. Ho perso (e tu sai come!) il contatto con la natura, coi suoi opposti: orizzontale e verticale, caldo e freddo, vivo e morto; ma non ho perso il respiro che sta dietro la natura, la bolla che rinasce dopo ogni distruzione, anche quella che pare più definitiva. Non saranno le alchimie sociali, le tecniche sopraffine, a salvare questo pianeta condannato; anche se queste parole ti sembrano da matto (“ma che stai a dì?”), fidati, e non credere a nessuno se ti urla che non vali niente; oltre i pianeti che crollano qualcosa si rinnoverà sempre, ed è la tua allegria. […] non è da tutti, credimi, testimoniare la bellezza e la grazia
Walter, l’uomo che ha perso la metafisica patria dei Nudi perché ha voluto comprarla e possederla, impersona la nostra modernità che rimpiange di avere abolito il divino e vorrebbe recuperarlo, ma non può più perché esso è diventato irraggiungibile. Suo dio sostitutivo è il denaro. Lo spirito sempre angosciante che abita gli scritti di Siti – anche quando esalta i corpi angelici, anche quando ci fa ridere alle battute dei borgatari o ci fa partecipare commossi all’infantile e smarrita leggerezza delle loro vite – è lo spirito del nichilismo. Già in Scuola di nudo, nonostante si sforzasse di attuare il programma erotico-conoscitivo platonico (di amante in amante verso la Bellezza eterna), l’io narrante aveva dichiarato la propria vicinanza alla teologia nichilista della Gnosi: il Dio biblico è un dio falso e cattivo che tiene rinchiusi gli uomini nella prigione dell’universo.
Siti non è capace di sdegno morale, e anche in ciò sta la forza narrativa del Contagio. Contagiato piccolo-borghese è lui stesso, consapevolmente, e in questo senso il libro è un episodio della lotta di Walter contro il sé stesso-Occidente.
tutto è lecito perché ci si sente creditori di un’ingiustizia infinita, perché il detentore della legge è lontano e merita di essere ingannato, perché in questo labirinto siamo talmente peccatori che non ci rimane che peccare di piùQuesto era, è, il mio amore: rancore e inimicizia verso la natura, l’innaturale e quasi il mostruoso assunto come segno d’elezione e di privilegio
A contare sul serio non sono l’incendio o la rissa, ma quel che tutti noi stiamo diventando. Non le esercitazioni paramilitari, ma il vuoto nell’animaHo creduto che il possesso fosse la sola misura dell’amore e che dunque, se il possesso era garantito, l’amore diventasse un otpional. Se l’amore è possedere, tutto diventa comprabile. Il capitale si afferma come unico vincitore, non ha più niente che gli si opponga – trasformare l’amore in ossessione è stato il suo colpo di genio strategico, per ricondurre anche i sentimenti all’economia. Ormai davvero, nelle nostre strutture profonde e non per modo di dire, conta solo il denaro
Bisogna dire la verità
Nel 1999, nello scritto “Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti”, Siti ha dichiarato che la tradizione del romanzo realista moderno, iniziata con Defoe e Richardson, è stata molto importante per la sua formazione di scrittore. Il tipo di realismo perseguito da tale tradizione è stato chiamato “realismo formale” a partire da uno studio di Ian Watt, Le origini del romanzo borghese (1957). Watt notò che nell’epoca in cui la borghesia, assumendo il potere, creava il soggetto giuridico e l’homo oeconomicus, nell’epoca in cui la metafisica spostava il centro sull’ego cogito e il sapere abbandonava l’Essere per indagare sperimentalmente il mondo del divenire, emerse una forma letteraria che abbandonava le regole del dramma classico, intese alla rappresentazione dell’Uomo, e creava una tecnica finalizzata a catturare il nuovo “mondo reale”. Il Medioevo, per cui a contare era la Verità eterna dietro il corso mutevole del mondo, aveva prodotto storie di magie, cavalieri erranti e viaggi oltremondani senza troppo curarsi dell’effettiva esperienza; con la modernità invece la verità diventò corrispondenza della lingua agli stati del mondo che essa descrive.
Con la modernità irruppe nella letteratura “il mondo”: gli oggetti e i mestieri quotidiani, gli interni spesso anonimi, gli antagonismi di classe, le determinazioni socioeconomiche. Il romanzo narrava la vita di persone comuni, senza privilegi di denaro o di classe.
Se però il soggetto giuridico era garantito dalla giurisprudenza, se l’io penso era garantito dalla metafisica, nel corso dei secoli l’“io narrante” della letteratura si trovò sempre di nuovo nella necessità di dare da sé al pubblico la garanzia della veridicità delle storie raccontate. Cosa che comportava a sua volta una garanzia della propria effettiva esistenza mondana: per produrre un resoconto autentico il testimone doveva essere vero in senso moderno, doveva esistere nel mondo dell’esperienza. Il nome della persona narrante doveva essere comune, ordinario, l’autore doveva spiegare in quali circostanze e da chi aveva sentito il racconto. Di secolo in secolo, per dare autenticità alla voce narrante, vennero ideati stratagemmi che innovavano la tecnica letteraria ma diventavano a loro volta stereotipici, perdevano efficacia e dovevano essere innovati.
A Defoe bastò scrivere una premessa in cui sosteneva di avere pubblicato i racconti autentici di Robinson Crusoe e Moll Flanders (“il più grande bugiardo di tutti i tempi”, lo definì un critico per questo escamotage narrativo che oggi sembra un’ingenuità); il narratore di Papà Goriot dichiarerà “all ist true”, Proust suggerirà, en passant e tra le righe, che l’io narrante della Récherche si chiama proprio Marcel. È come se il movimento storico del romanzo moderno, al pari del movimento del sapere e dell’economia, andasse sempre più verso l’io: verso l’autofiction. Quando il romanzo autobiografico diventò “un genere” pubblicato in versione standard dall’editoria, emerse in Francia una nuova garanzia di autenticità (Fils di Doubrovsky, Lejeune, il dibattito teorico, ecc.) che presto venne adottata in tutto l’Occidente.
La critica ha individuato da tempo le caratteristiche della scrittura di Sti intese a dare densità di persona all’io narrante e ai protagonisti: frammentazione narrativa, tempo psicologico anziché cronologico, accumulo di scene, discorso diretto nei suoi diversi registri e dialetti, flashback e anticipazioni.
un abbraccio, ma non per me. Non a me. Insomma non era me che abbracciava. La mia sintassi incespica, scusate.Questo non sarà un libro ben scritto […] sarà un diario banale, pane al pane e vino al vino.
La neoavanguardia però si concentrò sugli aspetti tecnico-formali e rifiutò quel tipo di verosimiglianza che attiva il meccanismo dell’identificazione: bisognava, alla Brecht, accendere le luci in sala per impedire che gli spettatori, immedesimandosi, dimenticassero il teatro e la letteratura come macchine sociali rappresentanti. Sanguineti, Giuliani, Manganelli, Arbasino evitarono sempre di coinvolgere chi legge in un mondo sentimentale di esperienza e di sfide, di speranze e sconfitte. Siti invece ha aggiunto alle severe strategie estetico-formali una voce sentimentale che si rivolge a chi legge in toni spesso complici e sornioni (“che ve lo dico a fa’”) e che per rappresentare veridicamente le sofferenze amorose non sdegna il ricorso al melodramma e allo stereotipo:
Quanto mi manca, quanto mi manca, quanto mi manca. […] Voi non potete immaginare, miei sconosciuti lettori, quanto mi manca – scusatemi, ma ora non riesco a dirvi nient’altro che questo.
Il mito che rivela la potenza dell’arte, per me, è quello della gara tra Zeusi e Parrasio, raccontata da Plinio: Zeusi si crede vincitore, perché gli uccelli sono scesi a beccare l’uva che lui ha dipinto, e invita ridendo Parrasio a sollevare il panno che ricopre il suo quadro, ma è costretto a confessarsi sconfitto, perché il panno era il quadro. («Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti», 1999)
Come le innovazioni di Defoe e Richardson emersero nell’epoca in cui una nuova metafisica si rivolgeva alle cose del mondo, così la potente tecnica illusionistica dell’autofiction è emersa nell’epoca dell’iperrealtà mediatica e della confusione ontologica tra il reale e la sua copia.
Anche nei miei romanzi è impossibile, come nella ‘estetica del flusso’ dell’infotainment, distinguere tra realtà e fiction. Insomma, sono coinvolti nell’errore ma per costringere l’attenzione a fissarsi sull’origine dell’errore: che tipo di conoscenza è la nostra quando annulliamo la distinzione tra vero e finto?
È quanto succede nel finale del Contagio quando apprendiamo che Marcello è morto di infarto durante una partita di calcio con gli amici, poi invece il narratore ci rivela che in realtà non è morto: restiamo incerti su entrambe le versioni e alla fine non ci importa nemmeno più sapere se Marcello è morto oppure no, alla fine è uguale. Il romanzo ha suscitato in noi una partecipazione emotiva a bassa tensione, diffusa come quella suscitata dal Grande fratello. Siti è l’Occidente anche in questo senso: il vero mondo diventa immagine, l’immagine diventa vera, la distinzione qualificante viene meno. Il reale coincide con la rappresentazione iperreale, il mondo e la stessa politica assumono la consistenza dei fantasmi mediatici.
Voodoo e ritiro delle truppe d’occupazione
Danilo è un antiquario di antica nobiltà modenese. Ha avuto una madre possessiva, manipolatrice, castrante; un padre debole la cui morte prematura lo ha lasciato indifferente: “scompare come una guaina che si secca e cade, esaurito il proprio compito, senza lasciare rimpianti né rancori” (“senza rancore”, aveva detto al padre morto l’io narrante di Troppi paradisi). Da giovane Danilo ha provato a fare lo scrittore, ma non era bravo; ha studiato storia dell’arte, ha fatto qualche viaggio, ha imparato le lingue e per sottrarsi a sua madre che ancora oggi lo domina è andato via da Modena e ha aperto (con i soldi di lei) una galleria a Roma. Danilo Pulvirenti in Autopsia dell’ossessione (2010) non è “come tutti”, né vuole esserlo; non manca mai di segnare le distanze sociali e culturali. Soffre di un’ulcera psicosomatica, ha difficoltà di relazione e la parola amore lo mette a disagio perché non sa bene cosa significhi. Anche lui è l’Occidente, può solo comprare. È il consapevole sacerdote di un culto che adora e degrada i Corpi Divini torturando costosi e consenzienti prostituti in un ricorrente bisogno di crudeltà (“umiliare Dio nei suoi messaggeri”).
Anche il Danilo di Autopsia dell’ossessione è l’Occidente, può solo comprare. È il consapevole sacerdote di un culto che adora e degrada i Corpi Divini torturando costosi e consenzienti prostituti in un ricorrente bisogno di crudeltà.
Di nuovo, come in Troppi paradisi, appare a metà libro l’Angelo incarnato, body-builder sottoproletario che porta a Danilo – recalcitrante – non solo l’amore tanto temuto e deriso, ma anche una possibilità di fuga dalla madre e dal proprio ambiente di intellettuali cinici e benestanti, delusi e annoiati:
Angelo è la testimonianza vivente che l’opera di castrazione è fallita, o che almeno non è riuscita fino in fondoIl trofeo Vigor, la crema Ursus, le sostanze proibite da iniettare in vena; in queste lande sarà il mio pellegrinaggio – la pergamena difesa dal drago, il guizzo nel pneuma oltremondano non si rivelano che all’insegna vergognosa della sottocultura
Vertigine del possesso, droga, Occidente capitalista, la storia di Danilo ripete apparentemente i precedenti romanzi ma c’è una svolta importante. Incapace di amare senza possesso, Danilo perde Angelo e decide che “l’incarnazione è scaduta”, che “senza metafisica l’ossessione diventa stupido collezionismo”; è invece il suo Rivale, dietro il quale vediamo sporgersi Walter/Siti, ad amare e conquistare un Angelo ormai solo umano per volgersi con lui all’amore coniugale (“sulla terra non c’è che la terra. In cielo, una porta misteriosa si chiude”). Fine della metafisica dei Corpi Celesti. Chiosa a proposito di Danilo e Angelo una delle ventiquattro “preposizioni” anonime che intervallano la narrazione:
L’ossessione vive all’ombra dei vincitori: un cedimento originario l’ha causata e perciò l’ossessionante perfetto è quello incapace anche solo di concepire un rapporto tra uomini liberi. Per l’ossessionato la bellezza è questione di possesso e non di relazione. È il sogno di sovranità dello schiavo: il suo movimento segue la via più facile, domina per dimenticare d’esser dominato. Chi non vi si uniforma non capirà fino a che punto sia ossessivo il modello economico del consumo
Walter/Siti ha capito che avere “potere di acquisto” significa essere liberi di fare ciò che incatena. Nella sua ossessione, per decenni, ogni nuovo atto di possesso e consumo garantiva il suo stato di schiavo.
Quanto invece all’operazione terapeutica, in Autopsia Walter/Siti si è sdoppiato come con la creazione di una bambola voodoo. È al tempo stesso il possessore pagante e il rivale squattrinato ma capace di amare. L’Occidente del possesso viene trasferito in Danilo e perde, il Rivale e picaresco piccolo-borghese vince perché ama senza voler possedere. Il Rivale è la prima occorrenza – ancora in sordina – di quanto diventerà nel secondo Siti un tratto essenziale: l’umiliarsi per evitare l’ipertrofia dell’ego, il mettersi in margine alla scena. È come se in Autopsia Siti stesse facendo le prove generali di un possibile sviluppo della personalità del suo protagonista. Sono prove ancora insoddisfacenti, tanto che il capitolo del lieto fine coniugale si chiama “Uscita troppo facile”. Come in Scuola di nudo, come in Troppi paradisi, il tentato lieto fine avrà bisogno di correzione.
La difficile uscita dall’ossessione e dall’operazione letteraria (fine del possesso e della sottomissione alla madre, fine dell’autofiction, ritiro dell’io narrante da quella realtà che aveva invaso) verranno completate solo in Exit strategy (2014), il diario in cui gli eventi pubblici – la grottesca caduta di Berlusconi e del suo governo nell’autunno del 2011, la fine dell’epoca del Denaro-Sogno e del voyeurismo collettivo – si rispecchiano in quelli privati e Walter/Siti, al termine della propria ricerca libertina, è “definitivamente invecchiato; arricchito ma anche stremato da esperienze fatte in altri libri”.
In Exit strategy è agli occhi dello stesso Walter che il culturista un tempo divino appare come “incarnazione sempre più irrancidita”, “non più all’altezza del proprio mandato metafisico”. Gli incontri sessuali con i body-builder diventano “esercizi”, stanchi “turni di paradiso”. Se Autopsia è l’annuncio, Exit strategy è la messa in scena della fine della metafisica. Walter riconosce da un lato di avere tentato per venti anni una “fuga nell’insussistente”, dall’altro di non avere più nemmeno le risorse spirituali per tale fuga (“la mia capacità di trasfigurazione è andata in tilt”). Ma a perfezionarsi è anche la fine della detestata madre castratrice. Il tema del matricidio viene messo in scena stavolta come tentazione non attuata ma vissuta in prima persona, non più attraverso il congegno vodoo: Walter medita di uccidere con un’overdose di sonniferi la madre demente, “immondo coleottero rosa”; rinuncia per timore dell’autopsia e aspetta con impazienza che la malattia faccia il suo corso.
La difficile uscita dall’ossessione e dall’operazione letteraria verranno completate solo in Exit strategy (2014), il diario in cui gli eventi pubblici si rispecchiano in quelli privati e Walter/Siti è giunto al termine della propria ricerca libertina.
La morte della madre è liberatoria per Walter in Exit strategy come lo era stata per Danilo in Autopsia: stavolta però si accompagna a una vittoria. Rientrato a Modena perché sua madre è in agonia, Walter conosce un disegnatore industriale, un uomo strabico, intelligente, sincero, gerontofilo. Non promette estasi divine ma è determinato, libero, affettuoso e – per la prima volta nella vita di Walter – attratto dal suo corpo che è peraltro avviato al declino della vecchiaia. Gerardo si presenta a Modena al funerale della madre, segue Walter quando da Roma – per riuscire a separarsi da Marcello – si trasferisce a Milano; la loro relazione matrimoniale, contrariamente a quanto era accaduto in Scuola di nudo e Troppi paradisi, è autentica, la liberazione dall’ego è riuscita. Walter riconosce che “il possesso è l’amore dei vili” e interrompe a quattrocentonovantasei il conteggio in progress degli incontri sessuali con Marcello.
Per la prima volta nella vita si fa possedere (da Gerardo) e sceglie un amore terreno senza metafisica, non più fuga dal mondo ma permanenza (“Il Tempo che taglia le ali di Eros non significa, come credevo, che il tempo uccide l’amore; significa che quando non si può più volare bisogna amare diversamente”). L’operazione terapeutica ha funzionato, quella letteraria potrà essere dismessa: qui scrive “non voglio più parlare di me”, in Resistere non serve a niente (2012) parlerà di “ritiro” delle truppe d’occupazione. Tanto che nel finale del libro può apparire il solo ricordo bello della madre (“vai, che se gridano coglione non dovrai essere tu a girarti”). Walter non è più l’Occidente nichilista, si volge all’altro e scopre un nuovo tipo di svalutazione del sé: non più la sprezzante riscossa dell’ego che si gloriava della propria deformità ma il depotenziamento dell’ego stesso.
faccio come quegli asini restii che capiscono solo il bastoneNel letto ci provo a spremere qualche singhiozzo […] ma mi escono solo sbuffi di tosse, striscie di bava
Nato proletario e con un metabolismo geneticamente pigro, eredo-familiare di contadini obesi trangugiatori di patate e polenta; ossessionato dalla quantità più che dalla qualità in ogni settore dell’esperienza. Nessuna tradizione di sobrietà o di stile a cui fare riferimento, anzi l’atavica fame di carboidrati, zuccheri e approvazione; servo nel cuore (ma avendo perso dei servi ogni solidarietà collettivistica), grasso scudiero che mai ha trovato il proprio comandante – anche perché i comandanti sono sempre andato a pescarli tra i peggiori, così da poterli ben presto liquidare con disprezzo
Cado in ginocchio e prego senza sapere Chi.
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