

I l cemento grigio sotto i piedi, la palla di gommapiuma che mi centra in faccia, la mia maglietta rossa. E poi la vergogna – anche lei rossa, ma non rossa come le guance dei pudici. Rossa come una piaga o un organo genitale. Nulla di grazioso: un tocco di carne da tener ben nascosto.
Ero piccolo la prima volta in cui ho smesso di sentirmi normale, ma sono certo di essermi sentito diverso prima di allora. Il modo in cui muovevo le braccia non passava inosservato: ogni volta che il mio sistema nervoso veniva assalito da una grande emozione, le mie mani iniziavano a battere a mezz’aria come ali. Su e giù e su e giù. Per alcuni era strano, per altri inquietante – il mio viso diventava una parata di smorfie, e le mie braccia strapazzavano l’aria come le zampe di un insetto a pancia in su. Questo movimento era vistoso, rumoroso: quando potevo, tenevo in mano un fazzoletto di stoffa leggera. La sensazione della trama sulla mia pelle amplificava il senso di liberazione che mi attraversava.
Le persone intorno a me, ovviamente, non avevano certo lesinato i commenti. Mio padre mi profetizzava una litania di fallimenti futuri: vai avanti così e non troverai mai una fidanzatina, un lavoro, un posto nel mondo. Ed effettivamente la mia prima cotta, una bambina bionda figlia di due tristezze provinciali, mi rifiutò dicendo che non voleva stringere la mano di un “handicappato” davanti a tutti.
Se ne parlava spesso tra adulti, spesso anche con preoccupazione, ma io mi sentivo al massimo un po’ spostato. Niente di più. Diverso, ma nulla di particolarmente sofferto. E come darmi torto! Le mie ali non facevano del male a nessuno, né a me né agli altri. Non era un gesto offensivo o allusivo. Sarà pure strano, ma sarà poi un crimine essere strani?
Per di più, io sapevo di non poter farne a meno. Se m’avessero tarpato, tutta quella energia mi sarebbe rimasta piantata in gola – e quando gli adulti cercavano di fermarmi la sensazione era davvero molto simile a un soffocamento. Il mio dimenarmi aveva una funzione tutto sommato semplice: dare forma esteriore alla sensazione che mi stava attraversando – proprio come un sorriso o una lacrima o un’erezione. Mi permetteva di sfogare la gioia o la rabbia o l’eccitazione che mi stava ingolfando l’animo. In un modo atipico, certo, ma affatto diverso dalle altre reazioni fisiologiche che abbiamo tutti di fronte a una sensazione che ci travolge.
Il consenso generale era, però, che non poteva che essere un tic passeggero, da sradicare con la disciplina o il tempo o la cura. “Lo fanno tutti i bambini piccoli. Enrico continua a farlo, ma smetterà”, ricordo questa frase anche se non so a chi attribuirla. Eppure, non smettevo e non volevo smettere. Io non ci soffrivo, ero fatto così e basta. Andavo avanti a essere fatto com’era fatto il mio corpo, finché non ci fu uno strappo.
Il mio dimenarmi aveva una funzione tutto sommato semplice: dare forma esteriore alla sensazione che mi stava attraversando – proprio come un sorriso o una lacrima o un’erezione. Mi permetteva di sfogare la gioia o la rabbia o l’eccitazione che mi stava ingolfando l’animo.
Quel giorno lanciai subito la palla e feci fuori un avversario. Non era la mia prima partita e sapevo di non essere un asso. Eppure, contro ogni pronostico, fuori uno. Mi sentii la testa sprofondare sotto quest’onda altissima di euforia. Le mie mani partirono. Iniziai a svolazzare da solo in mezzo al campo. E in quel momento mi colpì il pallone in pieno viso.
La mia testa si voltò verso i limiti del campo per l’urto. Vidi la gente con le mani sulla ringhiera azzurra che divideva il campo dal resto del mondo. Guardavano me e per la prima volta io mi sentii un mostro. Non diverso, ma proprio ributtante. Ero al centro dei loro sguardi e nessuno di loro mi sorrideva. Vedevo la pena, lo stupore, la pietà. Non osavano ridere di una bestia tanto piccola, ma non potevano nascondere il fatto che non mi guardassero come guardavano gli altri. Eccolo, per la prima volta, il mondo degli altri. E io non ho immagini più affilate per descrivere come mi sentii: il mostro delle fiabe e dei cartoni. In cima alla collina come il mostro di Frankenstein, accerchiato.
Cosa accadde dopo non lo ricordo con chiarezza. Mentre quell’evento è montato nella mia testa in modo da creare un racconto coerente e liscio ‒ forse in un modo talmente liscio e senza intoppi da farmi sospettare che sia una ricostruzione fatta ad hoc per dare un senso allo strappo ‒ ciò che segue si interrompe come una pellicola mangiata dal fuoco o dall’usura. Posso ricostruire gli eventi successivi solo attraverso i racconti di chi era lì con me o facendo un taglia-e-cuci di ricordi sconnessi.
Man mano imparai a nascondere quel movimento delle braccia. Dalla prima media, iniziai ad abituarmi a stare in apnea quando uscivo dalla ristretta cerchia familiare: quel gesto divenne un fatto totalmente privato, come un kink particolarmente imbarazzante. Ad oggi, la cosa non è cambiata. Continuo a farlo e il mio gesto mi libera ancora oggi da una tensione con cui non potrei sopportare di vivere, ma lo nascondo anche alla mia compagna che vive in una casa molto piccola con me.
Dopo lo strappo divenni più strano, represso, in alcuni punti direi addirittura menomato. Lo sono ancora.
Che cosa fosse quel gesto che facevo con le mani è rimasto un mistero per tutta la mia vita. Un arcano che ha lasciato un segno profondo – una traccia che mi ha impedito per lungo tempo di esplorare più a fondo che cosa quel movimento dicesse di me e del mio corpo. Fino a pochissimo tempo fa, non mi è mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello di strappare la benda e capire cosa fosse quella roba. Solo di recente, con un certo sforzo, la natura di quel battito di braccia è uscita dall’anonimato e si è vestita di un nome nuovo, scientifico. Dopo un processo diagnostico durante un mese o poco più ho scoperto che il mio svolazzare è una stereotipia e che io sono una persona autistica.
Le stereotipie sono movimenti ripetitivi che molte persone sullo spettro dell’autismo fanno per tenere a bada il mondo che le sta intorno e le emozioni che provano. Su Wikipedia c’è una frase che spiega il fenomeno in maniera tanto clinica quanto poetica: “Il bambino con autismo, dato il suo stato di notevole ansia e, spesso, confusione interiore, a volte utilizza le stereotipie per cercare di mettere ordine e capire ciò che sente e ciò che prova”. Questi movimenti possono interessare il viso, le braccia, il torso, le gambe, gli interessi astratti, la musica che si ascolta, i libri che si leggono, le parole che si dicono o i versi che si gorgogliano in gola. Le stereotipie non hanno, insomma, un ambito specifico o una forma univoca, ma hanno come tratto comune quello di essere degli esercizi involontari e ripetitivi con cui il corpo autistico tiene a bada quello che gli capita dentro e attorno.
Solo di recente, con un certo sforzo, la natura di quel battito di braccia è uscita dall’anonimato e si è vestita di un nome nuovo, scientifico. Dopo un processo diagnostico durante un mese o poco più ho scoperto che il mio svolazzare è una stereotipia e che io sono una persona autistica.
Quel movimento che mi fece sentire tanto ributtante agli occhi degli adulti assiepati intorno al campetto è, davanti al banco della ragione clinica, un esserino del tutto innocuo – se non addirittura benefico. E quindi, perché un comportamento tanto banale è diventato la fonte di tanto clamore? Perché accanirsi su un movimento delle braccia privo di conseguenze? Che cosa distingue quel comportamento dal resto delle cose fuori dalla norma che certamente facevo e percepivo e dicevo e pensavo? Non che volessi essere disciplinato di più, sia chiaro, ma perché il peso pendeva tanto da quella parte?
Credo che per tutti la diagnosi sia un’esperienza di intensa ridefinizione del proprio posto nel mondo e della propria storia personale. Scrive in un post Fiore Manni, autrice che, come me, ha scoperto di essere autistica in età adulta: “In questi mesi ho subito un drastico peggioramento. Sono diventata ‘più autistica’, ma è normale: per la prima volta, ‘mi hanno dato il permesso’ di essere me stessa. Ho iniziato a smontarmi, pezzo dopo pezzo, scoprendomi per la prima volta per quello che sono davvero”. Ed è difficile non empatizzare con le sue parole. Anch’io nei giorni della diagnosi mi sono sentito cadere a pezzi. Perdere le difese, le abitudini coercitive, i movimenti preimpostati. Un’esperienza a tratti psichedelica e in altri terrificante. Eppure, non mi ha più abbandonato la sensazione che ci fosse di più.
In un questionario mi si chiedeva se avessi mai avuto l’impressione di fingere di essere “normale” durante la mia vita. È stata una delle domande a cui ho risposto senza pensarci affatto. Sì, ovviamente sì. Da quando le mie stereotipie sono diventate un problema, ho passato la vita a fingere di essere normale – una condizione che non è mai stata mia.
Dopo la mia diagnosi, l’idea di normalità è diventata un pensiero pressante. Un problema da affrontare. Principalmente perché credo che la risposta alle domande che le mie braccia hanno sollevato nel corso della mia vita sia legata a stretto giro con il concetto di normalità. Le mie stereotipie furono un enorme problema per me e per le persone che mi circondavano perché erano vistosamente fuori dalla norma. In fondo è semplice: i corpi normali non si comportano così in pubblico e fuoriuscire vistosamente dalla normalità, specialmente all’interno di strutture di disciplinamento psicologico e corporeo come la scuola, è una divergenza che si paga caro ancora oggi, a discapito di tutte le politiche di diversità e inclusione che la nostra parte di mondo porta al petto come una medaglia al valore.
Dopo la mia diagnosi, l’idea di normalità è diventata un pensiero pressante. Un problema da affrontare. Principalmente perché credo che la risposta alle domande che le mie braccia hanno sollevato nel corso della mia vita sia legata a stretto giro con il concetto di normalità.
Dopo la mia diagnosi la sensazione che mi ha perseguitato è che la mia esperienza del mondo sia stata radicalmente ridotta per rientrare in un codice invisibile che regola ogni nostro movimento nello spazio pubblico, proprio come dice Laing. Il mio modo di fare esperienza del mondo era ed è tuttora troppo e ho dovuto farne a meno nel corso della mia vita. Un’idea che ho sempre covato, credo, ma che ora diventa una questione biografica e un fatto di benessere personale. Sembra e probabilmente è banale, ma quando lo si dice senza girarci troppo attorno è un’idea dalla portata enorme: la mia vita è stata un lungo, interminabile apprendistato alla normalità. Un allenamento informale e raramente esplicitato che permea ancora oggi ogni angolo della mia vita e che, in generale, impedisce alle persone eccessive come me di poter disporre liberamente dei propri nervi.
La potenza delle parole di Laing, e di questo menar pugni contro la normalità, sta però altrove, nel suo risvolto meno palese e meno solitario, per così dire. Il passo di Laing continua così:
Da adulti dimentichiamo la nostra infanzia, non solo i suoi contenuti ma anche il suo sapore; come uomini di mondo, consideriamo quasi niente l’esistenza del mondo interiore; raramente ricordiamo i nostri sogni, e ce ne facciamo ben poco quando ce li ricordiamo; per quanto riguarda i nostri corpi, invece, conserviamo solo le sensazioni propriocettive per coordinare i nostri movimenti e per assicurarci i requisiti minimi per la nostra sopravvivenza biosociale – registrare la fatica, la presenza di cibo, sesso, defecazione, sonno; al di là di questo, poco o nulla […]. Anche solo la nostra capacità di vedere, sentire, toccare, assaporare e annusare è così velata da strati e strati di mistificazione che per tutti è necessaria una disciplina di diseducazione, affinché si possa fare nuovamente esperienza del mondo con innocenza, verità e amore.
La sensazione che mi ha perseguitato è che la mia esperienza del mondo sia stata radicalmente ridotta per rientrare in un codice invisibile che regola ogni nostro movimento nello spazio pubblico.
Questo tipo di approccio – vedere la normalità come un problema che colpisce tutti indistintamente, in un modo o nell’altro – era relativamente diffuso fra le controculture quando Laing scriveva il suo libro. Esistevano collettivi come l’SPK (Sozialistisches Patientenkollektiv, il Collettivo socialista dei pazienti), ad esempio, che sostenevano che la malattia, l’invalidità e la divergenza erano il risultato diretto della normalità imposta e difesa dal blocco capitalista. Ogni persona, per l’SPK, è fisicamente costretta a comportarsi in maniere innaturali: strisciare al lavoro ogni giorno e restarci docile per otto o più ore, condurre il proprio corpo in un certo modo, eliminare o nascondere ogni comportamento improduttivo o alieno. Per l’SPK essere malati o comunque in qualche misura divergenti è la risposta più naturale davanti a un regime tanto pervasivo e totalizzante. L’eliminazione di tutte le sofferenze non poteva passare attraverso la cura di questo o quel malanno o divergenza, ma esclusivamente attraverso l’eliminazione del regime in quanto tale. Ogni riconoscimento o agevolazione o concessione sono, per loro, semplicemente dei palliativi volti a nascondere il fatto che il funzionamento del nostro sistema dipende da questa disciplina che tutti devono sopportare. Jean-Paul Sartre commentava così le loro posizioni in una lettera indirizzata al collettivo: “La malattia […] è l’unica forma di vita possibile nel capitalismo. In effetti, lo psichiatra, che dipende dal salario, è un malato come ognuno di noi. Le classi dominanti gli conferiscono semplicemente il potere di “curare” o di ricoverare. Curare ‒ questo è evidente ‒ non può essere inteso nel nostro sistema come l’eliminazione della malattia: serve esclusivamente a mantenere la capacità di andare a lavorare dove si rimane malati. Nella nostra società ci sono solo i guariti e i curati”.
Il fuoco dell’attenzione passa, anche qui, dalla particolarità del caso individuale alla generalità della politica e della gestione della cosa pubblica. La mia diagnosi, ad esempio, non è più una questione solo mia, ma un fatto politico a pieno titolo: l’ispirazione a praticare un mondo diverso. Un mondo in cui punizioni, costrizioni e ortopedie fisiche o spirituali diventino semplicemente impensabili per tutti, non solo per coloro che ne vengono colpiti in maniera più evidente. Un invito a fare a meno del mondo per come l’abbiamo conosciuto finora. La mia diagnosi e la mia biografia mettono in crisi la normalità che mi ‒ e soprattutto ci ‒ è stata imposta, rendendo manifesto il torto che questo processo fa a tutti.
La mia diagnosi non è più una questione solo mia, ma un fatto politico: l’ispirazione a praticare un mondo diverso, in cui punizioni, costrizioni e ortopedie fisiche o spirituali diventino semplicemente impensabili per tutti, non solo per coloro che ne vengono colpiti in maniera più evidente.
Secondo Kennedy siamo nel pieno di una epidemia di autismo. Kennedy lo descrive come una vera e propria catastrofe naturale: “L’autismo distrugge famiglie, ma peggio ancora distrugge la nostra risorsa più grande: i bambini”. Per il segretario l’autismo è una malattia che colpisce i bambini nell’età dello sviluppo. Sarebbe dovuto a una contaminazione, stando a lui: nell’ambiente aleggia una misteriosa tossina che rende la nostra gioventù autistica. Gli effetti, sempre secondo Kennedy, sono devastanti: “questi sono bambini che non dovrebbero soffrire in questo modo. Questi sono bambini che erano perfettamente funzionanti e che sono regrediti a causa di un’esposizione tossica che li ha resi autistici quando avevano due anni. Sono bambini che non pagheranno mai le tasse, che non avranno mai un lavoro, non giocheranno mai a baseball, non scriveranno mai una poesia, non avranno mai un appuntamento romantico. Molti di loro non potranno andare in bagno senza essere assistiti”. Insomma, sono bambini che non saranno mai normali.
E, in un certo senso, è bello dargli corda. Le diagnosi di autismo sono effettivamente in aumento e per alcuni, me compreso, queste diagnosi significano davvero un rifiuto o comunque una crisi della normalità. In alcuni casi – quelli più fortunati, in cui la diagnosi non è il prologo di una futura condanna, reclusione in cella, in camera o su un lettino d’ospedale – queste rivelazioni sono il momento di rottura che ti costringe a riappropriarti della tua biologia e rifiutare, per quanto possibile, quella marcia forzata che costringe i corpi a comportarsi in un modo tanto meccanico quanto innaturale.
Che fioriscano mille diagnosi, allora, e che per ognuno siano una rivelazione. E che tutti gli altri si uniscano agli insani, perversi, inadeguati: la normalità ferisce tutti.
Che fioriscano mille diagnosi, allora, e che per ognuno siano una rivelazione. E che tutti gli altri si uniscano agli insani, perversi, inadeguati: la normalità ferisce tutti.
Ovunque la normalità perde terreno, guadagniamo spazio noi.