

C osa significa rinunciare? Per esprimere meglio questo concetto si può fare riferimento al verbo inglese to give up, che reca in sé una sintesi concettuale in questo caso negata alla lingua italiana. Le persone, in generale, sono soggetti desideranti, nate nella condizione di non poter mai soddisfare a pieno la propria volontà, mai colmare del tutto la propria sensazione di mancanza, afferma Adam Phillips, psicologo, scrittore e docente universitario, nel suo recente saggio On Giving Up (pubblicato in lingua originale a gennaio 2025 da Penguin e non ancora tradotto in italiano). Anche i personaggi letterari o personae, se si vuole porre l’accento sulle loro caratteristiche metamorfiche, sono sempre soggetti desideranti. Questa considerazione potrebbe essere estesa all’ampio piano letterario della World literature, espressione che suscita talvolta un brivido di terrore nei custodi della critica letteraria “specialistica”, insidiata dalla minaccia dell’intertestualità ad infinitum (a ragione quando essa è ad libitum, ma perché negare di essere inseriti in una trama di associazioni e di congiunzioni, benché differenziali, per porre l’accento sulla differenza nella somiglianza, come suggerisce il critico letterario Giovanni Bottiroli).
Nel non lontano 2018 usciva un romanzo di Ottessa Moshfegh, dal titolo My Year of Rest and Relaxation, dove i termini “rest” and “relaxation” sembrano quasi un’endiade, con il secondo termine che rimarca una sfumatura più precisa del primo: non solo riposo, nel senso puramente onirico del termine, ma anche il sacro contemporaneo “relax”. Il titolo di Moshfegh potrebbe suggerire quasi un latineggiante rimando al miraggio dell’otium, vellutato pensiero che si oppone all’incessante divenire sterile del negotium che ci viene richiesto dal mondo attuale.
Capitalismo, globalizzazione, ipertecnologizzazione, tutti termini noti, esplosi come fiori di loto nelle nostre coscienze all’indomani del nuovo secolo. È proprio nel 2000 che il romanzo di Moshfegh è ambientato, romanzo che nella traduzione italiana (Gioia Guerzoni, Feltrinelli, 2019) ha come titolo Il mio anno di riposo e oblio. Nel titolo italiano, il secondo termine rimanda a un’altra sfera semantica, generando tutto un altro orizzonte d’attesa, per dirla con la teoria della ricezione, e facendo presagire forse curative amnesie a chi legge speranzosa di essere capitata nella trama di un anno sabbatico, o di riscoperta personale, o di terapia montana e socialità prenovecentesca alla Thomas Mann della Montagna magica: “la protagonista viene ammessa in un rifugio fra le Alpi Marittime dopo un grave burn-out e fa la conoscenza di misteriosi personaggi, finendo coinvolta addirittura in un duello, poi arriva il 2000 e viene chiamata alle armi per difendere la propria patria, perché la leva è ormai un onere condiviso”. Niente di tutto questo accade nel romanzo di Moshfegh.
È un costante lasciarsi andare, definito dalla protagonista, il cui nome non viene mai detto nel corso del romanzo, attraverso il termine hibernating. L’innominata si prepara per un anno di letargo sui generis.
È qui che la sfumatura del titolo italiano afferra una qualità decisiva del testo, esprimendo quei risvolti non scontati ma rivelatori che un buon titolo dovrebbe suggerire, come diceva Adorno in un saggio dell’edizione originaria di Note per la letteratura. Secondo Adorno i titoli a lui contemporanei sono soggetti a un processo di commercializzazione che va di pari passo con l’aspetto delle copertine: troppo viene rivelato per fare gola a chi legge, in quell’inesorabile trasformazione, ormai compiuta, dell’industria del libro da dispensatrice di prodotti intellettuali a distributrice di prodotti commerciali comuni. In realtà, anche il titolo inglese risponde forse al prerequisito adorniano, perché è profondamente antifrastico e svela molto presto il suo inganno: dice tutto senza dire niente.
Il paradosso è che più leggiamo più siamo indotti a non credere che quello narrato sia stato un anno di riposo e relax, ma appunto di ibernazione, di cristallizzazione volontaria del tempo, un esercizio di potere nei confronti dello scorrere del tempo. Un critico letterario, Jonathan Greenberg, sottolinea il “debito” dell’incipit di Moshfegh nei confronti dell’inizio della Recherche, e tuttavia, ironicamente, il rimando non prelude a nessun tipo di ricerca. A differenza che in Proust, la ciclicità delle azioni quotidiane di questo personaggio non implica nessun recupero, nessuno scopo, nessuna “rimembranza”, ma semmai l’opposto tentativo di bloccare a tutti i costi ogni ricordo, ogni elaborazione, ogni pensiero: “Non volevo ricordarmi i Natali precedenti. Nessuna associazione, nessuna emozione impigliata a un albero in una finestra, nessun ricordo”. Ma proprio durante il sonno forzato che questo personaggio si impone, accade che la volizione, messa a tacere dalla rinuncia programmata, riemerga sotto l’effetto imprevisto degli psicofarmaci, spingendo la protagonista a uscite, acquisti sfrenati, cui poi oppone la solita routine di farmaci e visione della filmografia di Whoopi Goldberg.
La ciclicità delle azioni quotidiane di questo personaggio non implica nessun recupero, nessuno scopo, nessuna “rimembranza”, ma semmai l’opposto tentativo di bloccare a tutti i costi ogni ricordo, ogni elaborazione, ogni pensiero.
La protagonista della narrazione è una privilegiata donna bianca, ereditiera di due genitori anaffettivi morti precocemente. Vive sola, ha la possibilità economica di non vendere la casa dei genitori, anch’essa sigillata in un atto di cristallizzazione spazio-temporale e nascosta allo sguardo, ha una sorta di relazione con un uomo egoriferito e impegnato con altre donne, con il quale intrattiene un legame fisico basato prevalentemente sulle fellatio da lei praticate; ha una migliore amica cui riserva lo stesso sardonico e in questo caso supponente cinismo che riserva al mondo dell’arte contemporanea (questi e tutti gli altri personaggi che compaiono nella narrazione hanno, a differenza sua, un nome).
Lo studioso Greenberg parla anche di “rinuncia alla trama”, “stazionarietà”, “housebound”. Quest’ultimo termine, indicante questa permanenza casalinga della protagonista, reca su di sé un ulteriore paradosso: una vita di privilegio personale dove il locus amoenus dell’indipendenza femminile, quello della “stanza tutta per sé”, viene gettato alle ortiche, trasformando tale stanza in un locus desperatus di autoesclusione dal mondo esterno.
All’inizio del saggio On Giving Up, Phillips riflette sul significato del verbo to give up, sottolineando come, nella nostra società, il rinunciare, il mollare, il decidere di non continuare qualcosa che abbiamo intrapreso o un percorso su cui ci siamo avviati, sia considerato sintomo di fallimento. Il fallimento sarebbe strettamente collegato a una sensazione di incompletezza, di aver lasciato qualcosa inconcluso. Questa convinzione, espressa da Phillips con una citazione da Kafka, è che “da un certo punto non c’è più ritorno. Questo è il punto che deve essere raggiunto”. Phillips mette in questione questo assunto, problematizzando un luogo comune del pensiero razionale e della psicologia comune, operando una sorta di Gestalt e facendoci vedere le cose da una prospettiva differente. Secondo Phillips i campioni della non rinuncia sarebbero gli eroi tragici, come Edipo, protagonista di quella che viene definita la regina delle tragedie perché nella sua cieca risoluzione nel portare a termine quanto intrapreso, l’eroe si fabbrica la propria rovina, finendo per accecarsi realmente e costruendo per sé un fato avverso.
Una vita di privilegio personale dove il locus amoenus dell’indipendenza femminile, quello della “stanza tutta per sé”, viene gettato alle ortiche, trasformando tale stanza in un locus desperatus di autoesclusione dal mondo esterno.
Gli eroi tragici (perlopiù uomini; fanno eccezione alcune importanti eroi femminili, come Medea, anche se inserite in un contesto differente rispetto, per esempio, alla vicenda di Edipo) sarebbero afflitti dalla “fobia di rinunciare”. Tornando a Kafka, Phillips sostiene che i suoi eroi sono sorprendentemente “pazienti nel loro essere senza speranza e senza possibilità di aiuto”. Per cui “rinunciare significherebbe semplicemente rinunciare a volere qualcosa, così come rinunciare è sempre rinunciare a qualcosa o a qualcuno, a volere essere qualcuno”.
In un mondo che si sforza di alzarsi alle 5 del mattino (la dittatura dell’efficienza diffusa attraverso i social propaganda questo sforzo anche a chi non è un early bird), la protagonista di Moshfegh è una campionessa del rinunciare, una perfetta antieroe, pur sempre tragica. Nel suo caso non si realizza quella che, nello studio della letteratura greca, viene definita ‘ironia tragica’, più nota nella sua variante estesa, e diversa, di ironia della sorte. Non c’è nessuna ironia della sorte nel caso di questo personaggio: se per Kafka, dice Phillips, rinunciare era un desiderio occulto, per il personaggio di Moshfegh è l’elemento alla base del rinunciare a mancare, cioè il volere o il mettere in dubbio di volere qualcosa, o il non volere. La rinuncia a qualsiasi volizione è rimossa o, meglio, sostituita dalla volontà della protagonista di “sleep myself into a new life”. D’altronde dormire, scrive Phillips a proposito di Macbeth, è mettere in sospeso il volere rinunciando nella forma più simile alla rinuncia definitiva: attraverso il sonno “ogni notte rinunciamo: rinunciamo alla coscienza, rinunciamo al pensare, rinunciamo alla vigilanza, rinunciamo all’attenzione”.
Se per Kafka, dice Phillips, rinunciare era un desiderio occulto, per il personaggio di Moshfegh è l’elemento alla base del rinunciare a mancare, cioè il volere o il mettere in dubbio di volere qualcosa, o il non volere.
Nell’ambito dell’accademia anglosassone, mi è capitato di sentir definire questo romanzo come una ribellione al sistema neoliberista, cui la protagonista soccomberebbe. Nella prospettiva offerta da Phillips, l’atto del rinunciare assume una qualità attiva, che rende in realtà un’azione comunemente denotata come passiva un gesto di volizione. Il romanzo di Moshfegh, in questa luce, non sarebbe, come lo definisce Greenberg, un “antiromanzo che finisce solo per essere un altro modo per essere un romanzo” e che “nel tentativo di perdere traccia del tempo finisce per accordarci al nostro essere in tempo”. La provocazione di Ottessa e del suo personaggio forse rimane attiva proprio nella misura in cui queste ultime non vogliono dire né fare proprio niente di niente in un mondo che richiede di fare tutto di tutto.
Tornando indietro all’orizzonte d’attesa di chi legge, ben presto nel corso della lettura ci è chiaro che frasi come “buttai il mio primo bicchiere di caffè vuoto sulla pila di spazzatura che strabordava dal cestino in cucina, sollevai il coperchio del secondo, buttai giù qualche trazodone, fumai una sigaretta davanti alla finestra aperta, e poi mi stravaccai sul divano” ricorrono in un loop assuefacente. La narrazione in lingua originale è ricca di phrasal verbs, piana, per così dire rinunciataria proprio come il personaggio che la parla.
È molto difficile definire chiaramente, a livello interpretativo, se il romanzo sia una rinuncia, una reazione militante, o una provocazione sarcastica e cinica nei confronti del sistema vigente.
In un mondo che spinge a scegliere, a elaborare tutto per bene, forse la prospettiva “spostata” che ci offre, questa Gestalt della rinuncia (vista attraverso la Gestalt del give up di Phillips) ‒ che viene paradossalmente rabbonita da elementi come la filmografia di Goldberg, dal fatto che è verosimile simpatizzare verso il cinismo della protagonista nei confronti di un certo mondo posticcio dell’arte, di certe convinzioni, dello spendere la propria volizione in attività inutili ‒, è la spinta propulsiva del testo. Così rinunciare può essere visto, con le parole di Phillips, come una forma di “illuminante disillusione”, come uno “stato transizionale”: rinunciare come “sabotaggio del dare un senso”. Forse è quest’ultimo l’aspetto che più si avvicina al romanzo di Moshfegh, il rinunciare al processo di produzione del senso. Un esperimento di “resurrezione” attraverso il sonno, che implica in sé un paradosso, ma proprio il paradosso è, di per sé, una sfida al pensare sillogistico e, in questo caso, un sarcastico paradosso di fuga del senso per chi è ossessionato dalla ricerca del senso.
Il dispositivo letterario di Moshfegh potrebbe essere visto come un perfetto meccanismo di rinuncia che accomuna il piano della finzione e il piano della fruizione del testo, stringendo assieme l’innominata protagonista, che rinuncia appunto a darsi un nome, l’autrice del romanzo, e infine chi legge.
È difficile, nel caso di questo romanzo, citare dei passi esemplari, dei momenti eclatanti, perché sono tutte variazioni sul tema, seppure organizzate in una climax ascendente. Fra queste le comparse di Reva, sua amica che in realtà non sopporta, unica sua visitatrice assidua e peraltro collegata con l’ultimo, finale, unico plot-twist del romanzo (che non verrà qui descritto) e ossessionata da quelle massime di efficienza già diffuse a inizio anni Duemila: “Get most out of your day, ladies”. La difficoltà di riferire passaggi specifici del testo è qualcosa di molto assimilabile alla sfera semantica del rinunciare. Ci si potrebbe provare, ma un senso di rinuncia potrebbe assalire nel tentativo: il dispositivo letterario di Moshfegh potrebbe essere visto come un perfetto meccanismo di rinuncia che accomuna il piano della finzione e il piano della fruizione del testo, stringendo assieme l’innominata protagonista, che rinuncia appunto a darsi un nome, l’autrice del romanzo, e infine chi legge. Rinunciare a rinunciare però è la paradossale via intrapresa da questo personaggio, rinunciare a rinunciare paradossalmente rinunciando.
C’è un passo del testo di Phillips in cui si parla di due tipologie di persone, dal punto di vista psicologico: gli essenzialisti, coloro che sanno cosa vogliono, e gli sperimentatori, coloro che invece non sanno mai chiaramente cosa vogliono. Per spiegare queste categorie Phillips si rifà a un testo di Williams James, Le varie forme dell’esperienza religiosa (1902), in cui viene fatta una distinzione fra persone “nate una volta” e “nate due volte”. Per questi ultimi il mondo è un “double-storied mystery”. Inserendo i termini in un ventaglio ampio di possibilità di sguardi sul mondo, Phillips dice che questa lotta fra chi sa cosa vuole e chi vuole tenere la mente aperta è parte integrante della storia della psicoanalisi e suggerisce brevemente che parte della soluzione al problema del volere possa essere un’integrazione fra queste due visioni.
Rinunciare a rinunciare però è la paradossale via intrapresa da questo personaggio, rinunciare a rinunciare paradossalmente rinunciando.
Lo stesso paradosso sarebbe alla base del desiderio e di quanto mettiamo in atto per differirlo. Ancora, Phillips sottolinea, sempre facendo seguito a importanti formulazioni freudiane, che “wanting is recovery not descovery”. Volere è sempre parte della riscoperta di qualcosa che già conosciamo, mai una scoperta completamente nuova e la “frustrazione (del desiderio) è una forma di ricordanza” o, detto più semplicemente, “un modo per ricordare”. È forse questo ricordare che entra in azione quando la protagonista del romanzo agisce di notte, sotto effetto dei farmaci che fanno un “effetto paradosso”. Simbolicamente, e comicamente, la vita soffocata si ribella, il volere si oppone al non volere attraverso la terza via non prevista, che si manifesta come una forma di strano sonnambulismo. Quello che questa variante onirica e narcotizzata vede è nascosto allo sguardo vigile della veglia, mettendo in risalto quella contraddizione insita al volere su cui si sofferma Phillips, quell’ostinato “non volere sapere cosa desideriamo”. La protagonista di Moshfegh vuole non volere o è quel mondo tardo-capitalista che la spinge a perpetrare la dinamica del confondere il desiderio negandolo, di sopravvivere proteggendosi da esso, di vivere in un mondo dove per il desiderio non c’è spazio?