N ella dominante delle storie e dei temi che costellano la letteratura contemporanea ci sono romanzi che esaltano e promuovono il bene, che mettono al centro storie di vittime e di antieroi, testi che si configurano, come scrive Gianluigi Simonetti in La letteratura circostante, “come il laboratorio privilegiato di una coscienza progressista problematica, spesso manichea, istintivamente ‘di sinistra’, pronta a sostituire il giudizio estetico con quello morale”. Molte analisi approfondite sono state condotte sullo stile, gli obiettivi e i riflessi sul mercato di questa letteratura: basta pensare, fra le altre, a Critica della vittima di Daniele Giglioli, a Contro l’impegno di Walter Siti o a Caccia allo Strega dello stesso Simonetti. Un filone minore ma con un alto impatto sul pubblico, complementare e opposto a questi testi, è rappresentato dalle storie di eroi dall’aura epica la cui biografia si perde in un’esaltazione mitica: vicende di imprenditori capitalisti, famiglie di grandi uomini – e raramente qualche donna – che tra la metà dell’Ottocento e il secolo scorso costruirono le proprie fortune dal nulla.
È uscito ad aprile per Salani Il canto della fortuna, l’esordio di Chiara Bianchi che promette di essere il primo capitolo di una saga familiare sui Rizzoli, la stirpe milanese di editori, imprenditori cinematografici e edilizi, già proprietari del Milan e costruttori di interi quartieri di Milano, nonché coloro che fecero di Ischia la meta turistica di massa che è oggi.
Il canto della fortuna ha per protagonista il capostipite Angelo Rizzoli, che nacque nel 1889 povero e orfano di padre e crebbe in riformatorio con il sogno della ricchezza; lavoratore infaticabile, sposò sua moglie Anna, fece tre figli che gli regalarono dei nipoti, fondò aziende che gli portarono soldi ed enormi soddisfazioni. A ogni nipote il nome di un nonno, per ogni gradino della discendenza un legame indissolubile con le proprie origini. La storia di Angelo Rizzoli detto Angiulìn, da non confondere con il nipote soprannominato Angelone, è il resoconto delle imprese e dei successi di un eroe del fai-da-te. La storia si conclude con la morte del protagonista.
Potrebbe sembrare improprio definire “saga”, come fa la stessa sinossi del libro, una serie di romanzi biografici su una famiglia italiana la cui storia pubblica, se così possiamo definirla, è iniziata circa cento anni fa e si è conclusa nel 2013 con la morte proprio di Angelone, nonostante le aziende di famiglia, almeno nominalmente, sopravvivano ancora. Eppure, alcune caratteristiche formali e stilistiche sembrano avvicinare Il canto della fortuna al genere epico.
Angelo Rizzoli, come ogni eroe, ha un carattere monolitico e inscalfibile: burbero, scontroso, violento, empatico a modo proprio con i suoi sottoposti, dipendenti e familiari senza alcuna distinzione, che tratta alla stregua del padre saggio o del buon pastore. Il rapporto del protagonista con la fama e con il denaro è codificato secondo precisi schemi morali. In primo luogo, l’odio verso la ricchezza ereditata: Rizzoli non manca mai di rievocare le proprie origini umili, come nella scena iniziale del romanzo in cui, dialogando con Federico Fellini durante un viaggio per l’America, chiede conto del fuso orario di Los Angeles per sincronizzare con l’Italia i propri bisogni fisiologici.
Me lo dici come facevo io, con soli tre cessi disponibili per sessanta ragazzini? E allora il mio intestino ha imparato a lavorare di sera. Alle nove, prima di dormire, potevo andarci in pace. Alle nove in punto.
In secondo luogo, la bonarietà compassionevole verso i poveri, soprattutto bambini, a cui Angelo elargisce gli spicci che porta sempre in tasca. Si aggiunga, infine, il fascino esercitato sulle donne e l’infedeltà coniugale che ne consegue: Angelo si invaghisce di attrici giovani e affascinanti, a cui fa costosissimi regali, ma bilancia i suoi tradimenti con un profondo senso dell’istituzione familiare e con la costante tensione al ritorno verso il focolare domestico. Rizzoli costruisce ospedali e si commuove durante le cerimonie di inaugurazione, produce film ma alle première siede defilato, vergognandosi di non capirne il significato, e lascia la sala prima che si accendano le luci. È questo insieme di caratteristiche tipizzanti a non rendere contraddittorio, almeno all’apparenza, il fatto che il terzo capitolo, intitolato “Io, i ricchi, li ho sempre odiati”, termini così: “È il febbraio del 1939, Angelo ha quasi cinquant’anni ed è multimilionario”.
Rizzoli produce film ma alle première siede defilato, vergognandosi di non capirne il significato, e lascia la sala prima che si accendano le luci.
Come in ogni epica che si rispetti, ancora, la Storia fa da sfondo alle imprese dell’eroe. Nei primi quattro capitoli Chiara Bianchi racconta con uno stile secco e veloce, quasi cronachistico, gli avvenimenti che portarono all’ascesa del fascismo, il potere tentacolare della dittatura sulla cultura italiana, quindi la guerra e la fine del regime, intrecciando il resoconto storico alla vita personale di Rizzoli. Ha meno spazio la Prima Repubblica – sarà che il fascismo è molto più vicino e vivo nella memoria del pubblico di oggi – eccezion fatta per i rapporti di Angelo con personalità democristiane e socialiste di spicco come Fanfani o Nenni. La Storia è presente, si diceva, soltanto come rumore di sottofondo delle gesta di Rizzoli, che in una scena particolarmente significativa del quarto capitolo parla di affari sulla terrazza della sua palazzina a Canzo, nella provincia lombarda, mentre osserva Milano bruciare, dilaniata dalla guerra nel 1942:
«La guerra è una parentesi. Una volta finito questo massacro, non ci sarà neppure più il fascismo. Vincerà la democrazia. E sai che cosa significa democrazia?»
Angelo sta parlando con Mimmo mentre, dalla terrazza di Canzo, guardano le luci degli incendi su Milano.
«Significa che…»
«Significa informazione. Giornali. Settimanali. Mensili. L’azienda crescerà e io avrò bisogno di persone fidate su cui contare». Angelo guarda Mimmo per un paio di lunghi secondi.
Ancor prima che Mussolini firmasse la dichiarazione di guerra, lui ha riempito i magazzini delle sue tipografie di Roma e di Milano con un’abbondante scorta di carta da giornale.
Questo scenario apocalittico ricorda le atmosfere oscure di una Terra di Mezzo distrutta da Sauron o un mondo lovecraftiano dominato dalla forza demoniaca di Cthulhu. Eppure, mentre il mondo brucia – letteralmente – l’eroe Rizzoli non pensa che ai soldi, al lavoro, alle imprese, profetizzando una futura stagione di successi e ricchezza.
Walter Benjamin, nell’introduzione del 1930 a Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, riconduce il romanzo dell’autore tedesco all’epica per il ricorso, nella scrittura, alla tecnica del montaggio. Il montaggio, scrive Benjamin, scardina il romanzo nella scrittura e nello stile, dischiudendo nuove soluzioni. Questa tecnica, aggiunge ancora il filosofo, si basa sul ricorso al documento, sulla narrazione di fatti quotidiani insignificanti, ovvero “scandali, incidenti, eventi sensazionali”. La scrittura di Chiara Bianchi ricalca pienamente questa teoria: è rapidissima, costellata dei resoconti di fatterelli come i risultati delle partite del Milan o i piccoli scandali della società dello spettacolo degli anni Cinquanta, con una forte impronta visuale, tanto che a tratti sembra di leggere una sceneggiatura.
Questa soluzione ha anche a che fare con quella che Simonetti, nel testo che abbiamo già citato, definisce morte dei tempi morti, ovvero “la tecnica affabulatoria dell’arte di consumo, che insegna a puntare ai momenti di intensità emotiva accumulando scene madri e aggirando invece le digressioni, le contraddizioni che non portino suspense, i particolari superflui”. È una scelta stilistica che mette in crisi l’approfondimento dell’interiorità dei personaggi e “concentra l’interesse narrativo sul fare dei protagonisti”. Quello di Bianchi è un montaggio rapidissimo, con molti tagli, cambi di scena serrati, dialoghi didascalici che servono a dare informazioni di servizio per ricostruire la storia. In sostanza, una fiction. È ancora Simonetti a scrivere che “parlare in modo superficiale di eventi straordinari o di individui speciali, autenticati dagli effetti di realtà, è anche un modo per non approfondire ciò che accade a tutti nell’ordinarietà del quotidiano; per non entrare nella testa dei ‘normali’ ed esplorarne le contraddizioni. È insomma il contrario del realismo”.
Quello di Bianchi è un montaggio rapidissimo, con molti tagli, cambi di scena serrati, dialoghi didascalici che servono a dare informazioni di servizio per ricostruire la storia: in sostanza, una fiction.
Il rivale, la nemesi di Angelo Rizzoli è Arnoldo Mondadori. Anche Mondadori ha avuto “un’infanzia immersa nella povertà, una famiglia numerosa. Avrebbe voluto studiare, ma non ha potuto”. Ogni momento significativo della carriera di Rizzoli corrisponde a un passaggio identico di quella di Mondadori: la casa editrice, le riviste, i quotidiani, il cinema.
Angelo Rizzoli è diventato il re dei periodici, ma non basta. Vuole fare i libri. Perché ‘libri’ significa prestigio. Mondadori l’ha capito bene. E l’ha capito per primo. Mentre lui lottava con i creditori e le banche, Arnoldo aveva lanciato una nuova collana di libri gialli: storie poliziesche di autori stranieri. E sta riscuotendo molto successo. Ora Angelo deve recuperare il terreno perduto.
Il dualismo si riproduce per l’intero libro in forma quasi grottesca, tracciando una sorta di ossessione di Rizzoli per la figura di Mondadori (il suo nome ricorre trentotto volte nel testo). A guardare la vicenda a posteriori, possiamo prevedere una sorta di capitolazione dei nostri eroi nei libri successivi della saga, visto che attualmente la casa editrice Rizzoli appartiene proprio al gruppo Mondadori.
Non può mancare nell’epica una divinità. Nel testo di Bianchi la Fortuna è citata già nel titolo e guida il destino dell’eroe. La parola fortuna e i suoi derivati tornano, nel romanzo, quarantadue volte. Angelo Rizzoli ripete ossessivamente di essere un uomo fortunato, come se fosse benedetto da una Provvidenza manzoniana che premia i giusti. La fortuna, nel romanzo, è un vero e proprio personaggio, che sa aiutare chi segue principi saldi: il duro lavoro, l’impegno, il sacrificio. “Fortuna chiama fortuna, denaro chiama denaro”, dice la voce narrante ricorrendo a una delle tante sentenze che costellano il testo. Questo distico è il fulcro tematico del libro, il punto di congiunzione tra la metafisica dell’eroe e la concretezza dei soldi (settantasei occorrenze nel testo della parola “soldi”, a cui vanno sommate le 17 di sinonimi come moneta, denaro o il corrispondente milanese danée).
Non può mancare nell’epica una divinità: nel testo di Bianchi la Fortuna è citata già nel titolo e guida il destino dell’eroe.
È evidente, infatti, che la storia di una famiglia di capitalisti debba, in qualche modo, ruotare attorno ai soldi e al lavoro. Mi servo delle categorie teorizzate da Carlo Baghetti per analizzare la narrazione del lavoro nel Canto della fortuna. Per determinare la precisione con cui viene descritto e raccontato il lavoro in un romanzo, e quindi lo scopo per così dire ideologico del romanzo stesso, Baghetti distingue tra narrazioni a bassa o alta intensità. Il discrimine con cui si determina a quale categoria far afferire un’opera è l’esattezza e il grado di realismo con i quali vengono descritti i processi pratici del lavoro. Nel caso del Canto della fortuna l’intensità è senza dubbio bassa, ad eccezione di rarissimi passaggi in cui è raccontato sommariamente il funzionamento delle rotative e dei macchinari per stampare quotidiani. Ampio spazio, invece, è dedicato ai dialoghi tra Rizzoli e i suoi soci o con le tante figure intellettuali con cui il protagonista ebbe a che fare durante la sua ascesa. Al centro di tutti i dialoghi ci sono il lavoro, i progetti, i soldi, ma ogni processo materiale che abbia a che fare con il denaro è totalmente rimosso. A leggere la saga di Bianchi, in sostanza, si ha l’impressione che i soldi di Angelo Rizzoli siano stati generati direttamente dalla sua mente lungimirante, che ci sia una connessione diretta tra il suo essere geniale e la sua fortuna.
«Ti chiamavo per farti una domanda».
«A disposizione… se posso».
«È mai possibile che non riusciamo a fare un film con quel tipo lì… come si chiama?»
«Chi? Il francese?»
«Ma quale francese? Quel giovanotto che ha già vinto l’Oscar».
«Ah, ma tu parli di Federico Fellini».
«Esatto».
«Ma che, Angiolett’, mo’ ti sei messo in testa che vuoi l’Oscar?»
Angelo tace.
«Vabbuò, ho capito… ci parlo».
«Ottimo».
«Angiolett’, senti un po’».
«Dimmi».
«Quello chiede un sacco di soldi».
«E io glieli do. Se mi fa vincere l’Oscar io gli do tutto quello che vuole».
«E proviamoci…»
«Riusciamoci, vorrai dire».
Citiamo ancora Baghetti per chiederci quale sia l’impatto di queste storie sul pubblico, che effetto producano nel contesto del mercato in cui sono inserite. Per farlo, è necessario allargare lo sguardo e non considerare Il canto della fortuna come opera singola. Bisogna, invece, osservare nel complesso il fenomeno della pubblicazione di storie simili.
Da dove deriva la necessità di raccontare queste storie? Esistono punti in comune tra questi romanzi?
Il libro si iscrive, come abbiamo già accennato, in un filone letterario e cinematografico più ampio, una moderna epica che esalta figure imprenditoriali nate tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Si prendano ad esempio, per citare altri romanzi, I leoni di Sicilia di Stefania Auci, la fortunata saga della famiglia Florio da cui Sky ha tratto l’omonima serie con Miriam Leone, Michele Riondino e Eduardo Scarpetta, o L’elisir dei sogni di Silvia Cinelli, che racconta la nascita del mito della famiglia Campari. Si potrebbero citare ancora, allo scopo di mostrare che la costellazione di romanzi simili è larga, Al di qua del fiume di Alessandra Selmi sulla famiglia Crespi o La fabbrica delle Tuse di Giacinta Cavagna di Gualdana, ma anche Senior Service di Carlo Feltrinelli, la biografia di suo padre Giangiacomo, e la letteratura nata attorno a una figura come Adriano Olivetti – per non parlare del mito di Silvio Berlusconi, talmente ingombrante da richiedere un’analisi a sé. Da dove deriva la necessità di raccontare queste storie? Esistono punti in comune tra questi romanzi?
Senza pretesa di sistematicità, proviamo a evidenziare alcune connessioni tra questi testi. Per prima cosa, come abbiamo già sottolineato, la collocazione temporale in un’Italia agli albori, siano essi post-risorgimentali o post-fascisti (entrambe le epoche sono avvolte in una coltre di mistificazione e appiattimento nella memoria storica contemporanea), in un substrato comune di povertà e voglia di rivalsa della classe piccolo-borghese poi diventata ricca. È comune, di conseguenza, l’idealizzazione di questa ricchezza, la mitizzazione di singoli individui e la costruzione attorno a loro di un’ambientazione mitico-eroica.
Da queste narrazioni è rimossa e oscurata la dimensione di classe degli operai, che pure ha ricoperto, per almeno un secolo, una parte fondamentale della storia del lavoro e delle sue istituzioni nel nostro Paese. Questa rimozione riguarda anche la narrazione costruita attorno a figure imprenditoriali “illuminate” come i già citati Feltrinelli o Olivetti, che rappresentano, nella memoria collettiva odierna, un esempio di illuminismo imprenditoriale nei rapporti con i lavoratori delle loro aziende. Come evidenzia Jacopo Galimberti nel saggio Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica, ad esempio, la narrazione contemporanea e postuma della fusione nella Olivetti tra arte e industria appiattisce e mira a superare la retorica della società divisa in classi. Galimberti, citando le parole del sociologo militante Romano Alquati, evidenzia come “i lavoratori della Olivetti ridimensionavano l’aura di moralità di cui era circonfusa l’azienda, osservando che le condizioni lavorative non erano molto diverse da quelle della Fiat”. Oggi, nella memoria di Olivetti, questo conflitto è andato quasi totalmente perduto. Eppure, è innegabile che le storie di simili individui abbiano un altissimo impatto sul pubblico, se solo pensiamo a quante storie e quanti progetti, anche imprenditoriali, ruotino attorno alle loro figure.
C’è poi da evidenziare, credo, una questione che ha a che fare con lo statuto del romanzo: è superfluo specificare che il romanzo è di per sé il genere della borghesia, del conflitto interiore e dell’eroismo del quotidiano. Tuttavia, se il romanzo borghese del Settecento e dell’Ottocento era l’effettiva espressione di una classe sociale rampante, che da almeno due secoli lottava per il proprio riconoscimento sociale, per avere il peso che sentiva di meritare nella società dell’epoca e la definitiva consacrazione in un sistema delle arti che fino a quel momento rappresentava in maniera tragica soltanto la nobiltà, la crisi sociale e la frattura interiore dell’eroe borghese rappresentate nella letteratura modernista e d’avanguardia sembrano segnare l’inizio di una crisi dell’auto-riconoscimento, da parte della borghesia, nei valori che la propria arte esprimeva: individualismo, imprenditoria, eroismo.
È diventata comune l’idealizzazione di questa ricchezza di origine piccolo-borghese, la mitizzazione di singoli individui e la costruzione attorno a loro di un’ambientazione mitico-eroica.
Questo gruppo di romanzi degli anni Duemila sembra la testimonianza della definitiva decadenza della possibilità di identificarsi in quegli ideali e contemporaneamente il rifiuto di un mondo in cui le disparità sociali si fanno laceranti e distruggono proprio la classe di mezzo, rafforzando i miliardari e allargando la schiera dei poveri. Si può leggere, inoltre, il tentativo nostalgico di racchiudere nelle storie degli imprenditori del secolo scorso un idillio impossibile da raggiungere, quello di una società in cui le persone sentivano di potersi autodeterminare. Sentiamo, forse, l’impossibilità a raccontare storie positive dal mondo di oggi attraverso la letteratura e cerchiamo di rifugiarci in un passato mitico e accogliente.
Il canto della fortuna appartiene a una costellazione di romanzi che rappresentano il tentativo di riabilitare narrazioni che rimettano al centro una visione positiva del lavoro come imprenditoria del sé, come occasione di riscatto e ampliamento delle proprie possibilità. Sembra fin troppo evidente, tuttavia, che è l’aspirazione a un mondo perduto. Cito, per dimostrarlo, le ultime parole dell’ultima pagina del Canto della fortuna, quando Angelo Rizzoli, sul letto di morte, ammonisce i propri figli e nipoti:
«Non promettete. Ascoltate, la fortuna mi ha aiutato, ci ha aiutato, ma i tempi sono cambiati. Ora è tutto così… complicato. Forse è meglio…»
«Papà, basta!» È la voce di Andrea, ma non sembra nemmeno la sua. «Porteremo avanti il tuo lavoro, il nostro lavoro».
Angelo sembra titubare. Chiude gli occhi spesso, assentandosi. Poi li riapre.
«L’unica promessa che dovete farmi è questa: le banche devono restare fuori. La Rizzoli è dei Rizzoli. Solo dei Rizzoli. E così deve essere sempre».
Li fissa tutti, uno a uno. Il suo sguardo li trapassa. Sembra tornato giovane. Ad Andrea sembra di essere tornato bambino. Ma quell’attimo dura poco.
«E ora andate a lavorare».
Il rifiuto delle banche è la principale ossessione di Angelo Rizzoli, un’idiosincrasia che, alle orecchie del lettore contemporaneo, suona quasi come il vaneggiamento di un vecchio fuori dal mondo. Sulla famiglia al capezzale del patriarca risuona l’avvertimento che il mondo sta cambiando, che le banche si impossesseranno di un mondo alla fine della sua età dell’oro. Il monito finale a lavorare, a preservare un mondo in cui l’economia non sia finanziarizzata e le banche non dominano il mercato, non può che suonare paradossale.