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o letto Cloro (2025) di Jade Song immaginando fosse stato scritto dal margine del mondo, da una posizione acentrica e sinistra, incerta e sempre sul punto di deragliare. Malgrado la prima persona, è stato inevitabile ricondurre la voce dell’io a una moltitudine di voci. Credo dipenda dal fatto che il lamento dell’autrice è il lamento della straniera, anomala, minore – nell’accezione politica – e sempre allontanata, perseguitata. Nel romanzo, l’acqua è l’elemento costitutivo dello scivolamento, dello sgusciare via, della sottrazione dal grande, pur trattandosi, in un primo momento, di un’acqua caustica, irritante e chimica come quella clorica (e forse proprio per questo). La naturale inclinazione di Ren Yu al nuoto non fa in tempo a manifestarsi che viene già riconosciuta come talento, talento di cui la protagonista sembra compiacersi, ma che presto la espone a sofferenze urticanti. La voce assomiglia a un grido controllato. Il risentimento e l’ostilità sono trainati da un desiderio laterale di evasione dall’umano, così come viene presentato nelle sue vesti più feroci. E in questo trascinamento emergono le riserve più disarmate e di eco poetica.
Il nome della protagonista, Ren Yu, 人鱼, persona pesce, non è né un nome della tradizione cinese né un tipico nome americano, “ma mia madre lo riteneva simbolico del modo in cui la sua prima e seconda lingua si fossero deteriorate nel processo di immigrazione, creando un ibrido”. L’ibrido è già costitutivo ontologico dell’essere della protagonista, è in sé prima ancora che faccia l’incontro con l’anomalo, prima cioè che la metamorfosi abbia inizio e cominci la storia del suo divenire.
Mi sono trasformata perché sono diventata chi ero destinata a essere dal principio. Una sirena che prospera in acqua dolce, in acqua di cloro, in acqua di mare, una sirena che si adatta purché abbia la sua coda. Al tempo ero una ragazza, un corpo d’acqua, uno stato liminale dell’essere, una creatura ibrida in procinto di evolversi. Ora sono Ren Yu. Sono 人鱼. Sono persona pesce. Sono sirena. Questa è la storia del mio divenire.
Le scene sono spesso in acqua, intorno all’acqua, mai troppo lontane dall’acqua. Il mondo narrativo di Jade Song è abitato da più personaggi, raramente dotati di compassione, cura o accoglienza; forse Ess e sicuramente Cathy, nuotatrice meno talentuosa di Ren Yu, con un corpo poco incline allo sport, amica e amata, che si impegnerà a scrivere lunghe lettere da farle recapitare (dai moti ondosi) in una bottiglia. Il tono dell’autrice subisce molteplici variazioni: la crudezza è intervallata dalla solennità, altisonante in alcuni punti, e dall’ironia che a poco a poco trova il suo ritmo. Nell’immaginario dell’autrice coesistono elementi dissonanti che, a una prima impressione, produrrebbero leciti sbandamenti, ma che invece, qui, generano un ritmo figurativo proprio.
L’ibrido è già costitutivo ontologico dell’essere della protagonista, è in sé prima ancora che faccia l’incontro con l’anomalo, prima cioè che la metamorfosi abbia inizio e cominci la storia del suo divenire.
L’atmosfera magica si inserisce in un quadro fin troppo realistico, rigido e inflessibile, che tiene conto di logiche sociali e competitive afferenti a più campi tematici tra i quali, forse, prima degli altri, quello della pratica sportiva. La vegetazione, le distese erbose, i piccoli fiori dal nome “non-mi-toccare balsamica” si alternano a obblighi severi, giochi spietati di adolescenti imprudenti. C’è sangue, una mannaia, ago, pillole e il filo tra le cosce,
“taglia, buca, stira, taglia, buca, stira”, numeri simbolici ripetuti e rituali ossessivi, quelli degli sportivi, delle vasche da fare e rifare per avvicinarsi alla perfezione.
Mi sono preparata per il mio rituale solitario pre-gara indossando le cuffie e facendo otto respiri profondi. Avevo inventato una routine basata sull’otto quando avevo otto anni e la seguivo da allora, dato che l’otto è un numero fortunato nella cultura cinese. Quelle azioni meditative mi tranquillizzavano, mi centravano, calmavano la mia mente nervosa e facevano sì che non dimenticassi nulla di importante come gli occhialini o il costume.
Nata da genitori cinesi, Jade Song scrive in inglese (americano). Sceglie per la sua protagonista un nome che è commistione di due culture, ritenendosi, forse, figlia di entrambe o figlia di nessuna. In questo esercizio politico e semantico comincia lo scavo nella Sua lingua, una lingua che non ha radice geografica, che assume le fattezze di un doppio e diventa cassa di risonanza delle minoranze, anche solo per il fatto di incarnare l’ibrido. La sua matrice linguistica, deviante perché non rappresentativa della norma, si distacca dalle logiche antropocentriche. “Scrivere come un cane che fa il suo buco, come un topo che scava la sua tana, con l’obiettivo di raggiungere il proprio punto di sottosviluppo, un proprio dialetto, un terzo mondo, un deserto tutto per sé” (
G. Deleuze,
F. Guattari,
Kafka. Per una letteratura minore, 1976, nuova ed. 2021)
. Questo esercizio di deterritorializzazione della lingua, di fuga dalla lingua madre, è una delle caratteristiche della letteratura minore, così come Deleuze la intende, laddove l’aggettivo minore non viene inteso nell’accezione a cui lecitamente l’aggettivo induce, ma piuttosto come esercizio di depredazione del grande, come presa di distanza dalla grande letteratura che tende a rappresentare il mondo sempre in forma parziale. “Di grande, di rivoluzionario non c’è che il minore. Odiare ogni letteratura di padroni”.
L’atmosfera magica si inserisce in un quadro fin troppo realistico, rigido e inflessibile, che tiene conto di logiche sociali e competitive afferenti a più campi tematici tra i quali, forse, prima degli altri, quello della pratica sportiva.
Scrivere dal punto di vista di una minoranza coinvolge inevitabilmente l’innesto del politico sull’individuale. “Non mi sentivo la benvenuta, ma non mi ero mai sentita la benvenuta da nessuna parte”. La condizione di esilio e di estraneità che vive Ren permette di decifrare più lucidamente e senza veli il mondo e le sue logiche, rispetto a chi lo abita comodamente e gode dei suoi vantaggi, proprio perché sono le stesse logiche a rappresentare gli sbarramenti e le sofferenze. Il privilegio è spesso cieco e non si accorge del fango sotto le sue scarpe.
Ren Yu comincia e prosegue col racconto della sua metamorfosi da un luogo non definito, ma che è sicuramente marino, forse lacustre. Il presente, che il lettore è indotto a immaginare come un tempo pacifico, non ha rilevanza nel romanzo. Il divenire-sirena occupa tutto lo spazio, ha più valore della conciliazione, della fine della sofferenza, forse per la sua pressione retroattiva, una forma di nostalgia che la protagonista prova non tanto per la sua vecchia vita, quanto per quel movimento in divenire che rappresenta la sua trasformazione. Rifiuta le narrazioni più celebri sulle sirene. Tra quelle europee, quella di Hans Christian Andersen e non è in sintonia nemmeno con quelle cinesi. “Dipendono troppo dagli uomini”. La sua metamorfosi non si può separare dalla mutilazione, anzi da quest’esperienza nasce. Un’automutilazione a cui Ren Yu si sottopone per stare in acqua, per nuotare ancora e meglio. Potremmo dire che già nell’esperienza dell’allenamento agonistico, pregno di una competizione che per qualcuno appartiene all’ordine delle virtù umane (e per qualcun altro no), è contenuta senza troppi nascondimenti anche la parte disumana della pratica sportiva, quella innaturale e ultraumana dei corpi ripiegati, degli sforzi fisici e mentali e di sofferenze indicibili.
Ero l’unica sirena del cloro nella mia squadra, ma non ero l’unica ragazza ad automutilarsi. Da brave atlete, era dato per scontato che ci mutilassimo per raggiungere prestazioni ottimali. C’era chi si tagliava, chi metteva su massa, chi faceva diete. Era lo stesso. Tutte insieme noi ragazze plasmavamo il nostro corpo e il nostro io in ciò che voleva Jim, il nostro coach. Mutilavamo la nostra peluria, coltivando i peli delle braccia, delle gambe, delle ascelle e dell’inguine per mesi, come contadini col grano, finché non ce ne liberavamo insieme nel giro di un’ora durante il rituale di rasatura prima di qualche grossa competizione. […] Mutilavamo il nostro linguaggio: 8×200 misti e metà dei primi 100 forte, 12×25 spinte dal blocco, 8×400 misti regressivi, 6×25 gambata subacquea, 8×50 misti, virate boccagli tavolette carrucole.
Da questa esperienza prende avvio quel
divenire preannunciato all’inizio del romanzo, quel divenire-animale, divenire-sirena, la cui fonte si trova nella pratica di mutilazione, un atto di sottrazione, detrazione che, se in un primo momento trova spazio nella corporeità e riposo nelle acque clorate, non dimentica il suo rovescio: la costrizione, il peso delle aspettative sportive, la fallibilità umana. Il corpo continua a essere ostruito per ragioni diverse, per i dolori fisici (e successivo abuso di ibuprofene), per la mancanza di riposo tra un allenamento e l’altro, per la relazione con l’uomo, nella sua valenza simbolico/politica, di questo secolo e di tutti i precedenti. Nessuno di quelli descritti viene risparmiato.
Queste sono, di base, scuse umane, ma più nello specifico scuse americane. Sono ingabbiata in una comprensione delle difficoltà umane attraverso una lente americana, poco importa quanto io cerchi di liberarmi dal lavaggio del cervello a stelle e strisce a cui sono stata sottoposta fin da bambina. In un certo senso, riconoscere che questi problemi sono solo americani peggiora le cose, perché significa che sono del tutto evitabili. Per fortuna questi problemi umani non sono più affar mio. Qui, nella mia dimora marina, rifiutiamo la dipendenza umana da questioni ridicole come l’assicurazione sanitaria offerta da un datore di lavoro, o i giorni di ferie retribuiti.
In quel divenire-sirena c’è un movimento cospiratorio, una fuga preannunciata che buca continue linee di fuga, che rifugge l’addomesticamento fisico, simbolico e dello spirito, ma che non deve essere intesa come analogia, imitazione o identificazione con l’animale, ma solo come alleanza con l’anomalo, come Giuseppina, la cantante-topo di
Franz Kafka, o Estrellita, l’iguana di
Anna Maria Ortese. Il divenire-sirena di Ren Yu è piuttosto un’operazione di contagio che è frutto del vissuto individuale e di esposizione agli eventi. Nell’utilizzo della mannaia, di ago e filo, necessari per l’ideazione della sua coda di sirena, Ren compie quel gesto anomalo, non animale, non umano, una sutura che sta
tra l’animale e l’umano,
tra il mostruoso e il suo agente di contagio.
In quel divenire-sirena c’è un movimento cospiratorio, una fuga preannunciata che rifugge l’addomesticamento fisico, simbolico e dello spirito, ma che non deve essere intesa come analogia, imitazione o identificazione con l’animale, ma solo come alleanza con l’anomalo.
È nell’esercizio di continuità che prende vita l’anomalo e si sostanzia il divenire animale che non lascia sussistere niente della dualità ma solo un processo che sostituisce la soggettività. Così Giuseppina, che rinuncia al suo canto per fondersi con “l’innumerevole moltitudine degli eroi di [sua] gente” (F. Kafka,
Un artista del digiuno, 1924, 2009). Così Estrellita, nell’
Iguana (1965, 1986) di Ortese, sull’ isola di Ocaña che ammucchia e nasconde le sue pietre, ritenendole risparmi. È in questi gesti l’apertura magica da cui l’altra possibilità di descrivere il nuovo mondo, altrimenti inenarrabile. Nella perdita del soggetto, l’animale-anomalo assume valore di molteplicità. Non rappresenta più solo la sua esperienza, ma è l’uno che diventa molti. La letteratura minore non ha la pretesa di qualificare le letterature, ma solo le condizioni rivoluzionarie di ogni letteratura (di cui il divenire-minore è l’elemento cardine).
Il divenire non andrebbe immaginato come un punto finito, ma come un piano di immanenza. Rinfranca, infatti, che la fine di questo romanzo non dica niente della nuova vita da sirena di Ren, poco o niente sappiamo del suo presente. È nel movimento che si sostanzia la ricerca perpetua, nella speranza di diventare esattamente ciò che si è.
“Ho sognato miti troppo vasti per il mio corpo di ragazza”.