

Q uando avevo quindici anni credevo che i libri più belli fossero quelli che mi costringevano ad alzarmi per andare a prendere il dizionario e cercare le parole che non conoscevo. Infatti perlopiù leggevo altro: i Piccoli brividi, i thrilleroni di Dan Brown, Faletti, Brad Meltzer e, ovviamente, Harry Potter. Un giorno però sfilai Così parlò Zarathustra dallo scaffale dei libri di mio padre, mi incuriosiva il nome del suo autore, che mi pareva impronunciabile ‒ a quanto pare mio padre l’aveva letto tutto a diciassette anni, anzi per la precisione aveva letto tutto “Nìch” (era così che lo chiamava, del resto mio padre non è nato a Gelsenkirchen ma in un paesino del Sud della Calabria). Io leggevo questo “Nìch” e mi esaltava anche se (anzi dovrei dire proprio perché) non ci capivo niente. Ricordo che nello stesso periodo ci avevo provato fortissimo ma invano con una certa Tania di cui era innamorato anche un mio amico. Il mio amico si chiamava Andrea e lo invidiavo da morire, non tanto perché fosse biondo, quanto perché quando giocavamo a tennis mi diceva che aveva i battiti a 50 come ce li hanno solo i veri atleti. Andrea sarà stato anche un vero atleta, però non leggeva “Nìch” come mio padre, per cui quando provai a spiegargli che mettendo l’amicizia davanti all’amore avrei tradito la mia “volontà di potenza” decise comunque di mandarmi a quel paese.
Da allora è passato molto tempo, tra le altre cose mi sono laureato in Lettere (forse anche un po’ per penitenza), ho finito la saga di Harry Potter (bugia, mi manca ancora l’ultimo perché quando è uscito nel mio ambiente andavano di moda Erodoto e Pizzuto), ma non sono diventato un mago. In compenso, oggi tutto sommato i libri difficili mi piacciono, non sempre li lascio a metà e a volte li metto persino nella lista dei miei preferiti. Sarà anche per questo che, quando la redazione me lo ha chiesto, ho accettato di leggere il nuovo romanzo di Gian Marco Griffi con l’idea di recensirlo. Griffi è il Bolaño italiano, anzi no, Griffi è il nostro Pynchon, o così almeno ho sentito in giro. Io, a dire il vero, a questa cosa non ho creduto proprio subito, un po’ perché sono diffidente, un po’ perché due miei amici e un critico di cui mi fido spesso non ne hanno parlato così bene. I due miei amici (che poi sono anche loro critici di cui mi fido) sono Antonio Galetta e Fabrizio Maria Spinelli. Il critico è Matteo Marchesini.
Ora, bisogna sapere (ma nella cosiddetta “bolla” letteraria ormai lo sanno tutti; anche fuori, a dire il vero, ci sono molti che lo sanno), bisogna sapere che nel 2022 Gian Marco Griffi ha pubblicato un romanzo che si chiama Ferrovie del Messico, la storia di un soldato astigiano che verso la fine della Seconda guerra mondiale viene spedito senza troppe spiegazioni a cercare una mappa delle ferrovie messicane (c’è chi dice che in queste ferrovie si nasconda l’arma che farà vincere la guerra ai tedeschi, ma sarà vero? Sì, sono i tedeschi che lo mandano), e nel frattempo soffre di un grave mal di denti, ma non se lo cura perché ha paura dei dentisti (i dentisti hanno un ruolo ragguardevole nella poetica di Griffi), e si innamora, e incontra un sacco di persone, e tutte queste persone parlano o come personaggi del Grande Lebowski o come poeti surrealisti, e al protagonista raccontano storie che sembrano poeticissime ma a noi le nascondono (“Lui mi parlò di scheletri che camminano tenendosi per mano. […] Parlò di onde magnetiche e generali baffuti e marionette monche. Parlò di apocalissi e diavoli. […] Parlò di donne blu e di uccelli contorti e di mostri tentacolari. Parlò di aurore chimiche e di strali lucenti magnetici”, ecc.).
Ferrovie del Messico, insomma, è un buon romanzo, non dico di no, un po’ manieristico, forse, sicuramente sopravvalutato, ma ci sono diverse pagine belle, forse un po’ stucchevoli e ripetitive, e altre divertenti (o almeno a me fanno sorridere). Certo, la trama è un poco esile (per usare un eufemismo), a volte sembra un pretesto, a volte sembra persino che l’autore abbia voluto trovare una scusa per mettere insieme vari incipit e belle pagine che non sapeva dove mettere (qualunque scrittore, prima di diventare uno scrittore, riempie il computer di incipit scritti benissimo e brani ispirati ma senza capo né coda), però, ecco, non me la sento di dire che Ferrovie del Messico non sia un romanzo al di sopra della media. Non sono nemmeno troppo d’accordo con Antonio Galetta e Fabrizio Spinelli, secondo i quali il problema principale del romanzo sarebbe che fa solo finta di essere complesso come tutti dicono (tutti dicono che i romanzi di Griffi sono complessi, anzi complessissimi), mentre invece è un libro che accompagna il lettore con molti accorgimenti retorici mirati a non affaticarlo troppo. Antonio e Fabrizio hanno un’idea più radicale dei compiti della letteratura rispetto a me, forse dovrei dire anche, per essere onesto, che credo che sia anche un po’ più aristocratica, a me la difficoltà non è mai parsa un valore in sé e per sé (ok, sì, a parte quando fingevo di leggere Pizzuto). E poi bisogna dire che le loro recensioni sono davvero cattivissime, spietate come devono essere delle vere stroncature, e io li ammiro per questo, perché sono persone che scrivono quello che pensano come ne rimangono poche, specie in un mondo come quello dell’editoria italiana dove per farsi dei nemici basta esistere, e dove per esistere bisogna farsi per forza degli amici.
Ferrovie del Messico è un buon romanzo, un po’ manieristico, forse, sicuramente sopravvalutato, ma ci sono diverse pagine belle, forse un po’ stucchevoli e ripetitive, e altre divertenti. Certo, la trama è un poco esile (per usare un eufemismo), a volte sembra un pretesto.Io non sono come loro, non sempre dico quello che penso perché ho paura delle conseguenze, e nel caso specifico di Griffi le conseguenze possono essere terribili, posso dirlo perché ho assistito coi miei occhi, e i miei occhi testimoniano che i lettori di Griffi sono degli ossi duri che bisogna rispettare, è gente che se l’autore fa un post su Facebook per dire di esserci rimasto male per una recensione negativa non si limita certo a consolarlo, ma proprio comincia a insultare l’estensore della recensione. Al povero Antonio Galetta hanno detto per esempio “abbiamo un turbocritico?”, “Siamo nell’apoteosi del nulla”, ma anche un più diplomatico ‒ e anacolutico ‒ “Si avanzano perplessità, che però boh”, e altre cose che non posso più recuperare perché Griffi ha cancellato il post. A Spinelli, se possibile, è andata pure peggio: “Ma perché quest’altra minchiata dove la mettiamo?”; “Un altro che si sbrodola inchiostro addosso… nessun motivo per impiastricciarmi fino alla fine della recensione [emoji di una penna, in allegato un bavaglino]”; “esiste un critico che non usi toni, possa io esser perdonato ma non mi vengono altre parole, del cazzo?”; “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”; “Mah, io direi che questa recensione si potrebbe anche assolvere con un compassionevole pat pat di incoraggiamento. […] Perlopiù materia di un terapeuta.”; et cetera. (Ora che ci penso, forse ho fatto male a dire che Galetta e Spinelli sono dei miei amici, sarebbe stato meglio prendere le distanze fin da subito, dire tutt’al più che li conosco, ma non li stimo, che li ho incrociati una volta soltanto e in un contesto anonimo, che so, a una presentazione di Recalcati, nei commenti sotto a un post di Zerocalcare sui fascisti ‒ non mi ero accorto che Recalcati e Zerocalcare avessero due nomi così simili, sarebbe bello immaginare una collab, chiamarla Zerocalcati, o Recalcare, “Ce o sai che ’sto Lacà m’aricorda tanto er mio armadillo?”, ma che sto dicendo? Sono proprio un cretino, ora i lettori di Griffi diranno anche a me che mi sbrodolo).
Nemmeno a Marchesini sono legato da alcun rapporto di amicizia, se non altro da quando per sfottermi ha deciso di paragonarmi a Robertino, quello di Ricomincio da tre, perché nella testa secondo lui non tengo un complesso, “ma tutta l’orchestra”, come diceva Massimo Troisi. Anche se non siamo amici, però, lo leggo spesso volentieri, persino quando mi fa innervosire, e nel caso specifico il suo intervento a Radio Radicale mi è sembrata la cosa più sensata uscita su Ferrovie del Messico tra quelle che mi è capitato di incontrare. Secondo Marchesini, il vero problema del romanzo non risiede né nella semplificazione di moduli stilistici appartenenti ad altre epoche o letterature, né nell’inconsistenza ideologica del suo protagonista, quanto nella totale assenza di un vero attrito opposto dal mondo alle sue peripezie: Cesco Magetti non rischia davvero mai, non tanto sul piano dell’incolumità fisica, che conta fino a un certo punto, quanto su quello dei valori. In un romanzo che fa di tutto per apparire stratificato, il protagonista è paradossalmente un uomo che rifugge la complessità, e rifuggendola ha ragione in modo troppo facile, perché ciò da cui scappa (l’assurdità della guerra) non merita ai suoi occhi una risposta articolata. I fascisti e i nazisti (vettori di quel che dovrebbe incarnare il Male con la maiuscola nell’economia della storia) non sono mai presi sul serio, ma sempre sottoposti a un trattamento macchiettistico che li rende in definitiva inoffensivi. Un gioco per molti versi banale, una forma di ammiccamento alle convinzioni già radicate nel lettore, che può dunque identificarsi senza lo scomodo rischio di essere messo in discussione, magari per scoprire che il fascismo di cui tanto ama ridere ha delle radici antropologiche profonde di cui lui stesso potrebbe essere partecipe (per esempio nel modo, uno stroncatore cattivo direbbe squadrista, con cui reagisce a una brutta recensione).
In un romanzo come Ferrovie del Messico, che fa di tutto per apparire stratificato, il protagonista è paradossalmente un uomo che rifugge la complessità, e rifuggendola ha ragione in modo troppo facile, perché ciò da cui scappa (l’assurdità della guerra) non merita ai suoi occhi una risposta articolata.
Ecco, anche la storia che racconta Digressione è a suo modo una buona notizia, e lo è proprio perché è una storia strampalata piena di invenzione, e in un’epoca in cui quasi tutti pensano che una storia “vera” abbia valore in sé e per sé, soltanto perché è vera, quando in realtà è proprio il contrario, ecco, se in un’epoca come questa Einaudi pubblica ancora romanzi folli, surreali o fantastici innanzitutto c’è da festeggiare (alla lista vanno aggiunti almeno Il duca, 2022, di Matteo Melchiorre, L’isola e il tempo, 2024, di Claudia Lanteri e La giusta distanza dal male, 2025, di Giorgia Protti). Al contrario che in Ferrovie del Messico, in Digressione ci sono molte meno pagine “scritte bene” nel senso a volte un po’ convenzionale e retorico del romanzo precedente, mentre si insiste assai di più sull’invenzione sbrigliata sul piano del contenuto. Ne è un segnale forte il cambiamento di genere: non più un romanzo storico sia pure pieno di derive ironiche, assurde e parodistiche, ma un’ucronia carica di elementi magici e fantascientifici, che si lega alla storia di Cesco Magetti grazie al ritorno di diversi personaggi e situazioni. Protagonista è, in questo caso, Arturo Saragat, un giovane astigiano che nella prima scena del romanzo assiste a un episodio di bullismo nei confronti del suo amico Tommaso Sconocchini senza trovare il coraggio di intervenire per difenderlo. Sarà proprio Tommaso a consegnargli il libro che gli cambierà la vita, la copia 33 di quella Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México alla cui ricerca si era messo Cesco nel romanzo precedente.
Digressione indulge un po’ troppo nel vizio di andare alla deriva, di girare attorno alle cose invece che dirle come sono, di perdersi e poi ritornare o di perdersi e basta.
La politica, rappresentata di nuovo in termini paradossali o satirici, è ancora una volta uno dei nuclei tematici attorno a cui la narrazione vortica più spesso. Una, soprattutto, l’idea portante: Mussolini non è stato giustiziato ma deportato su un’isola, e poi su un’altra, e poi su un’altra ancora, come in una sorta di crociera punitiva che lo porterà infine a Pantelleria, dove alleverà degli “asini sacri” che diventeranno un oggetto di culto per i suoi nostalgici. Alcune delle scene più riuscite ritraggono questi personaggi con uno stile macchiettistico forse un po’ facile, alla Fascisti su Marte (Fascisti su Marte di per sé fallisce come film proprio perché è una gag stiracchiata troppo a lungo; figuriamoci farne un polpettone lungo mille pagine). Insomma, tornare indietro, rifare daccapo, darsi una seconda possibilità: è questo che accomuna l’universo etico dei “Rievocatori littori”, e cioè i pifferai magici dei neofascisti, e quello di Arturo Saragat, che rivorrebbe indietro, per cambiarlo, il giorno in cui, nell’anonimo parcheggio di un Carrefour di Asti, ha assistito ignavo alla tortura di un suo amico.
Da questo rimorso, declinato quasi sempre nella direzione di un delirio peripatetico e farsesco, deriva il filo esilissimo che tiene insieme la mole monumentale del romanzo. Saragat si convince che a lui e a Tommaso non sarebbe accaduto niente di spiacevole se solo quella mattina avesse mangiato la marmellata di fichi come al solito:
Io mi sentivo un verme, e mangiavo marmellata di fichi a colazione. Spesso avevo sognato che se non avessi mangiato marmellata di fichi a colazione mi sarei svegliato nel corpo di un maiale da allevamento. Era certamente un’allegoria. Un simbolo. Una rappresentazione metaforica. Non pensavo davvero di potermi trasformare in un maiale d’allevamento stipato in un autocarro diretto al macello, ma sapevo che se non avessi mangiato marmellata di fichi a colazione, qualcosa di orribile sarebbe successo. A me o al mondo. Ma soprattutto a me. Pensavo che la mia vita sarebbe stata tormentata da una sgualdrina nigeriana mentre un tagliaborse tunisino sfuggiva alla forca per un cavillo legale. E che entrambi avrebbero importunato l’autista di un autobus che mi avrebbe investito in corso Gabriele D’Annunzio mentre attraversavo la strada sulle strisce pedonali ascoltando una canzone dei Sex Pistols con le cuffie.
E qualcosa di orrendo era effettivamente successo, due giorni prima (quella mattina ero in ritardo per scuola e avevo sciaguratamente saltato la colazione, e quindi non avevo mangiato la marmellata di fichi), nel parcheggio del Carrefour abbandonato.
Con Digressione abbiamo un cambiamento di genere: non più un romanzo storico sia pure pieno di derive ironiche, assurde e parodistiche, ma un’ucronia carica di elementi magici e fantascientifici.
“Fanne buon uso”, del resto, è un motto che nell’economia della storia vale per la magia in generale, ed è evidente che la magia è anche una metafora della libertà e del talento, e il talento è nel non usarlo mai tutto, come diceva più o meno Giorgio Agamben in Il fuoco e il racconto (2014). “Fanne buon uso” vale anche per quel tipo specifico di magia retorica che è la “digressione” che dà il titolo al libro. Nei romanzi riusciti le digressioni sono spesso tra le parti più belle, e lo sono proprio perché gli scrittori bravi decidono di staccarsi dal racconto della vicenda solo quando ne vale davvero la pena, perché hanno scoperto qualcosa di importante, di prezioso, qualcosa che è una distrazione fino a un certo punto, perché magari a ben vedere nasconde la sostanza di quel che intendono dire, e magari era proprio lì che volevano arrivare, e forse quando hanno cominciato a scrivere neanche lo sapevano. Ma se la digressione diventa un obiettivo programmatico, se lo scrittore decide fin dall’inizio che alla digressione lascerà piena libertà di dispiegarsi e spazio, ecco che rischia di ottenere l’effetto contrario; invece che un romanzo-galassia pieno di orbite che si attraggono, e da cui solo quando è proprio inevitabile salta fuori un corpo celeste non autorizzato, il risultato può essere invece un romanzo-soufflé dove la digressione, proprio perché istituzionalizzata, perde qualunque effetto disturbante, si normalizza e si sgonfia.
Alberto Casadei ha ragione a inserire la storia di Arturo Saragat nella lunga tradizione dei romanzi divaganti alla Sterne, ce ne sono tanti che sono bellissimi, e lo dico persino io che non sono iscritto all’Ordine dei Digressori di Creta di cui parla Griffi ma a quello dei Babbani Aristotelici. (Noi Babbani Aristotelici non abbiamo ancora scelto un’isola in cui stabilirci, ma pensiamo che le storie più belle siano quelle che hanno un inizio, un mezzo e una fine, una vicenda principale raccontata bene e un tempo e un luogo ben delimitati). Alberto Casadei è uno studioso coltissimo, lo conosco anche perché insegna nell’università dove ho studiato, e la sua recensione al romanzo di Griffi è una guida fatta davvero molto bene. Ma Alberto Casadei, pur facendo bene a inserire il romanzo in quella lunga tradizione, paragonandolo a Sterne e a Rabelais, dimentica di dire che Digressione di quei modelli non è molto all’altezza, e non è all’altezza per motivi innanzitutto tecnici, perché Digressione è a ben vedere un romanzo scritto male, o almeno così così, e per rendersene conto basta aprirlo a caso:
Da diciannove anni il professor Maccabei non può varcare la soglia del suo palazzo se prima non ha annaffiato i vasi davanti alla porta della vedova Iaccarini: se così non facesse dovrebbe prepararsi a fronteggiare una disgrazia di qualche genere, giacché nelle tre circostanze in cui ha mancato di innaffiare le piante della vedova Iaccarini gli è sempre successo qualcosa di brutto. […] Al bar-teatro dei pupi Charlemagne il professor Maccabei è piuttosto allegro. Ordina un cappuccino e un cornetto (rigorosamente privo di qualsivoglia ripieno) e siede al terzo tavolo partendo dall’ingresso (se è occupato attende pazientemente che si liberi), dove consulta con curiosità il quotidiano, badando di leggere con attenzione la pagina degli oroscopi. Ennio Maccabei è cancro ascendente cancro, e quella, pensa col sorriso sulle labbra, è una grande fortuna, poiché se fosse cancro ascendente toro, per esempio, non potrebbe consumare la sua solita colazione, e se fosse cancro ascendente ariete dovrebbe attendersi una copiosa fuoriuscita di denaro nelle prossime dodici-quarantotto ore. […] Mentre è seduto e affaccendato negli affari suoi, solitamente viene trascinato in vacue chiacchiere dal barista e da qualche avventore. Soltanto con Arturo Saragat egli conversa di temi piú complessi e profondi, con gli altri conversa di bagattelle. Talvolta con Arturo Saragat stesso conversa di bagattelle, ma con lui conversa non soltanto di bagattelle, con gli altri conversa soltanto di bagattelle.
Avevamo deciso di testare i riflessi di Tommi un martedì dopo la scuola.
Il martedì era un buon giorno per crepare o per testare i riflessi a piccoli insignificanti ciccioni gonzi, anche se dopotutto per noi un giorno valeva l’altro, e per spassarcela avremmo potuto trovarci di lunedì, o di mercoledì. Ma il lunedì è logoro e abusato, frainteso come la morte nei tarocchi, e il mercoledì è peloso e verdognolo come il roquefort andato a male, mentre il martedì è un giorno senza qualità, di quelli che non nota nessuno, ideale per vagabondare e non celebrare niente. E poi, secondo quegli invasati degli iscariotici, come la mamma di Viola, il martedì è il giorno dedicato a prepararsi alla fine del mondo, e non c’è niente di meglio per prepararsi alla fine del mondo che un martedì ad Asti.
E così ci siamo trovati nel parcheggio del Carrefour abbandonato, verso le cinque di pomeriggio; era la prima giornata fredda dell’autunno, di quelle fosche e opprimenti, gli alberi erano così ossuti che parevano pietrificati, le aiuole soffocavano sommerse da cartacce sparse sul terreno gibboso e spoglio, arido, perfino i cespugli erano squallidi e insignificanti, spelacchiati, e le strade erano vuote e smarrite. Il mappamondo della Vercingetorige, là in fondo, oltre il Borbore, ruotava sopra i tetti fiacco e sordo.
Si avvertono fin dall’inizio una serie di sciatterie che col proseguire della lettura, inevitabilmente, si moltiplicano, e che non rendono giustizia a un’ambizione poderosa, che è quella di scrivere il Grande Romanzo Italiano.
Dall’altro lato, non dovrebbe forse un qualunque “grande romanzo” farsi già trans-nazionale? (vengono alla mente, come esempi tra i più immediati e recenti, coincidenti con altrettanti “grandi romanzi” di autori esteri, I detective selvaggi e 2666 di Roberto Bolaño, Europe central di William T. Vollmann, Abbacinante di Mircea Cărtărescu, Austerlitz di W.G. Sebald).
Il paragone con Ariosto, che il romanzo invoca in più modi funziona per descrivere l’architettura del libro a livello macroscopico, ma non regge per l’assenza di una cura davvero attenta, di una reale raffinatezza della lingua.
Dirigendoci verso il primo bar abbiamo notato uno scarafaggio, o forse uno scarabeo, o una blatta (perdonateci se non siamo molto ferrati sui nomi degli insetti, ma l’entomologia ci è del tutto ignota), e per qualche ragione ci siamo convinti che dovevamo seguire il suo zampettamento sui sampietrini di via dei Cappellai. Una sensazione travolgente e ineffabile. Lo scarafaggio ci convocava, ci imponeva di seguirlo nel quartiere a luci nere, un angiporto graveolente nel centro di Asti dove stanno, una accanto all’altra, innumerevoli botteghe di chiaroveggenti, pizie, sibille, pitonesse (forse il termine «bottega» non è appropriato, ma non ce ne viene in mente uno migliore). Costoro pretendono di indovinare il futuro leggendo carte e mani e qualunque cosa si possa leggere o interpretare, dal respiro al volo delle gru, dagli escrementi di gallina ai fondi del caffè, dai dadi ai galli, dai setacci appesi ai rami ai germogli di cipolla, dalle chiavi alle formiche, e in fondo noi siamo convinti che professino un mare di fandonie buone soltanto a ingannare l’altrui dabbenaggine. Crediamo che quasi tutte diffondano soltanto menzogne, e che le migliori tra le imbroglione siano quelle dotate di immaginazione piú fervida (giacché, dobbiamo pur ammetterlo, il mestiere della chiaroveggente poggia su una non comune predisposizione al groviglio, alla bugia, all’inventiva, e in ciò le chiaroveggenti non sono dissimili dagli scrittori, dagli sceneggiatori, dai pittori, quando inventano situazioni, scenari, mondi).
Ci piace ripetere le parole finché non perdono il loro significato. Dopo un po’ una parola ripetuta piú e piú volte perde il suo significato originario. Saturazione. Semantica. Saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione. Semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica.
Don Hipólito prese un sigaro, lo annusò passandoselo sotto il naso, lo spuntò col tagliasigari e usando un fiammifero lo accese. Domandò a Guillermo se gli desse fastidio il fumo. Guillermo disse di no, Don Hipólito atteggiò le labbra a un mezzo sorriso e gli domandò se fosse stato lui a rubare la Historia poética. Guillermo fece no con la testa, e disse che non sapeva chi lo avesse rubato. Don Hipólito gli disse che detestava i bugiardi, ma che ciò non gli aveva mai impedito di farci affari.
Insomma, il libro che si vorrebbe un fiume ingordo capace di raccontare tutto e il suo contrario, la realtà attraverso l’irrealtà, la quantistica e la Storia, è forse invece il letto secco di un rigagnolo esausto dal caldo? E, se il Grande Romanzo Italiano è questo, ne abbiamo poi davvero un gran bisogno? Talvolta il Grande Romanzo conversa di bagattelle, ma altrove conversa non soltanto di bagattelle, in Italia conversa soltanto di bagattelle.