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entosessantasei anni fa vedeva la luce in Francia Madame Bovary. Erano gli anni del Secondo Impero, il paese godeva di una congiuntura economica relativamente tranquilla, non esistevano ancora il chip, internet e i social media. Pensare di rileggere il romanzo di Flaubert nel 2022 per riflettere sull’evoluzione delle tecnologie del desiderio e il passaggio verso un amore post-romantico potrebbe sembrare paradossale. Eppure, in un pomeriggio londinese, una di quelle giornate bianche in cui il mondo esterno sembra un frigorifero, in attesa di cancellare le vacanze natalizie, e leggendo con stanca motivazione la sezione “amore” degli oroscopi, quest’idea ci è parsa sensata.
Abbiamo ripreso Emma Bovary per cercare di capire in che modo Emma, la sua noia verso una realtà deludente, e l’ostinato immaginare un mondo fantastico dove tutti sanno ballare il valzer, mangiano ananas, e amano forte, possa aiutarci a riflettere sulla struttura del desiderio ai tempi dei media digitali: in fondo, essi non fanno che mostrarci costantemente l’ipotesi di una vita altra e migliore che accade a qualcun altro non lontano da noi. Ma soprattutto per chiederci se non siamo forse tutte e tutti affetti da una certa forma di bovarismo “macchinico”, e se la rivoluzione digitale stessa non possa essere letta come la materializzazione tecnica di quell’attitudine al reale costruita sulll’alternarsi di doloroso disappunto e slancio immaginifico. Se interpretiamo i media (dai romanzi alle dating app) come estensione della capacità desiderante del soggetto, non è forse possibile vedere un rapporto diretto (di analogie e discontinuità) tra bovarismo e desiderio digitale? Se Emma avesse avuto Tinder, o meglio ancora Bumble? Avrebbe fantasticato nella stessa maniera? L’algoritmo le avrebbe fatto trovare il Visconte, o Leon? Oppure si sarebbe stancata prima, esausta e nauseata dalla riproduzione algoritmica di speranza e rifiuto?
Il bovarismo
Poste le basi del nostro esperimento mentale, siamo partite dalla definizione di “bovarismo”, che è spesso considerato una patologia del desiderio. Secondo il dizionario Treccani il bovarismo sarebbe una “tendenza a costruirsi una personalità fittizia e a sostenere un ruolo non corrispondente alla propria condizione sociale”. Wikipedia lo descrive invece come l’inclinazione di alcuni artisti a sfuggire alla monotonia della vita di provincia proiettando sul mondo, sui rapporti interpersonali e sulla metropoli, una sorta di paradiso terreno immaginario. Sempre secondo la definizione generica di Wikipedia, questa proiezione sarebbe resa possibile dalla lettura, che facendosi mezzo di svincolo dalla realtà e pseudo-droga, alla fine produrrebbe un ritorno alla realtà carico di delusione, che potrebbe, nei casi più estremi, spingere addirittura al suicidio.
Secondo molti il bovarismo è segno di stupidità borghese, e anzi Flaubert stesso avrebbe voluto scrivere l’opera come una forma di critica all’immaginazione romantica dilagante in quegli anni. Per Jules De Gaultier, che coniò il termine, il bovarismo, più che un derivato metaforico, sarebbe invece una condizione vera e propria del sé, un concetto psicologico che avrebbe semplicemente trovato in Flaubert la sua rappresentazione più precisa e che dunque dal suo romanzo avrebbe preso il nome. Il bovarismo consisterebbe dunque nell’illusione universale causata dal potere della mente umana (“moi psychologique”) di credersi come non è.
Per altri invece sarebbe un tentativo di resistenza a un mondo non accettato, una ribellione allo status quo attraverso l’immaginazione. Un’immaginazione che però tragicamente non riesce ad emanciparsi.
Emma, con le dating app al posto dei romanzi, avrebbe potuto magnificare la sua fantasia
Il bovarismo parrebbe insomma essere allo stesso tempo una delusione e una ribellione, qualcosa di tragico, comico e irrazionale allo stesso tempo. Un’attitudine stupida ma anche meritoria. E forse davvero è tutto questo. In L’Âme et le Corps chez Flaubert. Une ontologie simple, Juliette Azoulai ne fornisce una definizione che è anche una sintesi dialettica di visioni opposte: il bovarismo è il risultato del tentativo flaubertiano di unire in un’unica ontologia materialismo e idealismo, anima e corpo. Emma è incapace di far convivere queste due forze, è idealista, ma non riesce a comprendere il mondo materiale, dal quale innanzi tutto si sente incompresa e tradita, e nella sua tragicità si fa personaggio “idiota”. Quel che la rende tale non è il suo desiderio di andare a Parigi o l’insofferenza per Charles che a fine cena taglia i tappi delle bottiglie, Emma è idiota perché non trova il compromesso, non sa tradurre, non sa interpretare, e la realtà vince, perchè è vera, e la condanna. Per citare Leopardi, Madame Bovary precipita nell’abisso sottile che c’è tra il “caro immaginar” e “il vero”.
Il “caro immaginar” prende forma per Emma attraverso la lettura, che si fa dispositivo del desiderio. La sua immaginazione, nutrita di passioni romanzesche, colma lo iato tra la realtà che la circonda e quella diegetica dei libri con proiezioni in cui è lei stessa protagonista. Emma si racconta, si fa’ personaggio. “Tutto le appariva un’eccezione nel mondo, frutto di una fatalità che la teneva in trappola, mentre più in là si allargava a perdita d’occhio l’immenso paese delle gioie e delle passioni”.
In questo spazio virtuale Emma si muove come una versione alternativa di sé, una versione che non coincide con quella a cui ha dato forma sposando Charles e vivendo con lui, ma con una versione composta di elementi assorbiti e creati dalle vite degli altri, dei personaggi dei libri, una versione migliore di sé, una promessa che potrebbe anche avverarsi, se solo le circostanze esterne fossero propizie, un cambiamento di luogo, un incontro.
Le sembrava che alcuni luoghi sulla terra dovessero produrre felicità, come una pianta che è fatta per un dato suolo e cresce male in ogni altra parte. Perché non poteva affacciarsi al balcone degli chalet svizzeri o chiudere la sua tristezza in un cottage scozzese, con un marito vestito d’una giacca di velluto nero a lunghe falde, stivali flosci ai piedi, un cappello a punta e polsini!
La letteratura offre ad Emma gli strumenti per costruire la sua fantasia, svolgendo di fatto la funzione di causa e supporto al suo desiderare, il cui godimento si incardina nella dialettica della delusione operata dalle ingiunzioni di una realtà indifferente. “A volte rimaneva esterrefatta di fronte alle fantasie atroci che le passavano per la mente; e bisognava continuare a sorridere, a sentirsi ripetere che era una donna felice, a far finta di esserlo, a lasciarlo credere agli altri!”.
Inevitabilmente, questa scollatura tra realtà e desiderio la porta ad identificarsi con l’immagine di sé come adultera appassionata, sentimentale e sensuale, donna disinteressata al vile denaro, amante del teatro, del lusso, dell’arte. In questo processo, Emma diventa un essere lirico per eccellenza e da questa posizione prova fastidio e disgusto per la monotonia e stabilità di Charles, per la sua dedizione, per i suoi baci freddi e regolari come
un dolce previsto per tempo, dopo la monotonia del pasto
, per la sua vita fredda come un granaio che ha le finestre esposte a settentrione, e [per] la noia, ragno silenzioso, [che] tesseva nell’ombra la sua tela in ogni cantuccio del suo cuore.
La fantasia di Emma inquadra la realtà, e la distorce. In questo non possiamo che sentirci prossime alla sua disperata ermeneutica, perché non è possibile vivere fuori dal linguaggio e dall’immaginario, non possiamo accontentarci di lasciare le cose là dove sono, bisogna sempre farsene qualcosa, appropriarsene, interpretare, prevedere, dire la nostra e sperare che il mondo ci dia ragione. Il “mondo”, le “cose”, gli “altri”, a volte ci offrono segni così malleabili che è facile pensare di avere ragione: li impastiamo nelle nostre fantasie come torte pronte da infornare, siamo demiurghe. Ma all’assaggio rimaniamo disgustate: la realtà è “cruda”, “amara”. A volte immangiabile, avvelenata. È allora che si scopre di aver avuto torto, e si sente il dolore sordo dello schianto. Siamo stupide: ci abbiamo “sbattuto la testa”.
Emma, alla fine, la testa contro questo mondo ce la sbatte. Sbatte tutto il corpo contro la superficie rigida di una realtà che resiste il suo tentativo, lirico e idiota, di elevarla ai ranghi dell’immaginazione. Possiamo pensare che sia Emma a non capire e non apprezzare ciò che la circonda, oppure stabilire che sia la realtà, nel correlativo oggettivo del cinismo di Rodolphe o l’ottusità di Charles, a non essere all’altezza delle sue fantasie. Da questa scelta dipende il nostro giudizio sul personaggio: idiota o ribelle.
In entrambi i casi Emma, come Anna Karenina, Werther o Julien Sorel, di desiderio, ci muore, in quel modo farsesco e tragico tipico degli eroi romantici, sopraffatti dalla sproporzione tra la magnificenza dei propri desideri e le fattezze scarne del mondo materiale. Laddove il dominio della fantasia si fa incarnato, e cioè da quando Emma decide di vivere come un’eroina da romanzo, noncurante della natura delle cose che ha a disposizione – per esempio la caratura morale dei suoi amanti – ecco che rischia di farsi male, di cadere: nella morte, e nel ridicolo. Emma muore, ma il mondo intorno a lei continua vivere. Flaubert ci dice che il romanticismo stesso come struttura del sentire sta esaurendo il suo potere politico, trasformativo, per farsi via via zimbello di un occhio disincantato e realista.
Tecnologie del desiderio post-romantico
Centocinquant’anni dopo la morte di Emma, la pandemia ci ha costretti a vivere in una porzione di mondo estremamente ridotta, privati di un esterno, il mondo fuori inaccessibile come Parigi vista da Yonville. Chiusi in casa con gli aggiornamenti della protezione civile. Con le autocertificazioni e le farine integrali. E questo, tra le altre cose, ha accelerato quel processo di digitalizzazione che era in corso già da anni. Quello che si è digitalizzato non è soltanto il consumo, o il lavoro, ma anche la forma e gli strumenti del desiderio. E i mesi di confinamento domestico lo hanno messo in luce, rendendoci più consapevoli del nostro partecipare al bovarismo. Emma, come noi, si sarebbe lasciata assorbire da Instagram, Tik Tok e Tinder fino all’esaurimento. Avrebbe guardato le vacanze degli altri, commentandone la fotogenia, avrebbe imparato ricette gourmet e identificato gli youtuber migliori, avrebbe passato la notte insonne a scorrere le foto di futuri amorosi promessi dalle dating app. In ogni immagine, avrebbe cercato di scorgere i segni di un’alchimia fatale, dragando nelle poche parole di biografia le tracce di tutti gli amorevoli dialoghi di domani. La realtà l’avrebbe certamente frustrata, come accade a noi quando leggiamo i messaggi inconsistenti del nostro ultimo match; o intristita, come quando il nostro match non si degna di scriverci, oppure ci manda stringhe incomprensibili di emoticon: una slitta, un pretzel, un pulcino: perché?
Emma, come noi, avrebbe cancellato la app. Si sarebbe arrabbiata. Avrebbe cercato di ristabilire l’ordine, di tornare alla realtà, occuparsi di quel che “conta davvero”: una figlia, una madre, una cena da preparare senza sac à poche, senza sou vide, senza coulis di fragole, solo spaghetti e passata di pomodoro. Ma poi non le sarebbe potuta sfuggire la foto della sua amica di scuola, che sbatte in faccia a tutto Instagram la sua ultima fiamma, conosciuta su Tinder. Allora, si dice Emma, “deve funzionare”, allora deve esserci un modo di piegare la realtà alla logica della app, e del desiderio di cui si fa causa ed effetto. E ricomincia lo swiping, e se non funziona cambia mezzo. Come si cambia romanzo Emma cambia app, va su Bumble, più inclusiva, femminista, va su Hinge, più intellettuale, creativa.
Nella società post-romantica, non si può morire per amore: non va più di moda cadere e perdersi in tutti i dolci naufragi di letteraria memoria. Si cerca piuttosto di controllarlo, scoprirne il segreto, ridurlo a procedura tecnico-razionale.
Emma, con le dating app al posto dei romanzi, avrebbe potuto indugiare e magnificare la sua fantasia, supportare il suo desiderio d’amore come la stampella sostiene l’arto stanco o malconcio. Per quanto annoiata, per quanto depressa, nel suo telefono avrebbe trovato quella legna che serve per alimentare la fiammella di un desiderio decadente. Un meccanismo ripetitivo, certo, in cui la scelta è in parte appaltata a degli algoritmi sviluppati da ingegneri informatici con felpe monocolore, che si muovono in skateboard per le strade di SanFran. Tant’è. Non sono forse sempre composte degli stessi sei elementi, le trame dei romanzi? E non sono inventate da gente per lo più vestita male che si sveglia a orari stupidi per scrivere un paio di pagine al giorno?
Emma, su Tinder, avrebbe potuto riattivare quella metonimia del desiderare che prescinde dall’oggetto desiderato e punta al suo infinito riprodursi. Non è importante che si trovi la “persona giusta”, ma che ci sia offerto un modo per ripetere sempre il godimento del cercarla, di immaginarla, nel gioco dialettico tra frustrazione e speranza. Emma lo sa, e lo sa il suo autore che, per descrivere una scena carnale, come nota Walter Siti, ci trascina in un elenco inesauribile di strade, mostrandoci la carrozza con gli amanti che corre senza meta, perché ciò che conta non è il possesso dell’oggetto, ma il susseguirsi del moto che lo insegue. E i ragazzi milionari di SanFran, con i loro frullati al kale e il microdosing di Adderall, devono averlo capito. Perché il motivo per cui le dating app “funzionano”, ciò che spiega il fatto che nel duemilaventuno circa sei milioni di persone al mese hanno installato Tinder, non è che davvero trovi la “persona giusta”, l’oggetto fatto a forma della tua immaginazione. Piuttosto è che ti puoi sempre impegnare a cercarlo, anche quando, come ora, sei troppo esperta e disillusa e conosci troppo bene la miseria di quelle passioni che l’arte riesce a esagerare. Anche in fila alle poste o alla fermata dell’autobus, nelle situazioni meno scenografiche, in pigiama e senza lavarsi i capelli, con i calzini spaiati, senza credere nemmeno per un momento nel trionfo dell’amore, con le dating app si può lo stesso dire che “ci stiamo provando, ce la stiamo mettendo tutta”.
In questo senso le si può vedere come tecnologie del desiderio post-romantico: un desiderio che ha esaurito il suo potere di ridefinire la realtà, ma che vi si è rassegnato, senza tuttavia accettare di morire, senza smettere di volere caparbiamente riprodursi. Nella società post-romantica, infatti, non si può morire per amore, neppure in senso figurato, e già ce lo avevano detto sia Battisti che i Neri per Caso. Non va più di moda cadere e perdersi in tutti i dolci naufragi di letteraria memoria. Si cerca piuttosto di controllarlo, scoprirne il segreto, ridurlo a procedura tecnico-razionale. Come recita lo slogan di un famoso sito di incontri, si cerca di trovare The Brain Behind the Butterflies. Il filosofo Alain Badiou cattura questo aspetto dello spirito del tempo con l’espressione love without the fall: amare senza cadere, senza perdere il controllo.
E come si fa a non cadere? A non “morire”, tuttavia continuando a desiderare, anche se impacciate e scettiche, comunque desiderare ancora? La soluzione che le dating app e i media digitali ci offrono è di fare a meno del corpo. Ci permettono un desiderare disincarnato in uno spazio virtuale. Sottraendosi al corpo ci si sottrae dall’impatto con la resistenza del mezzo, dell’altro, del mondo. Si evita l’urto con cui ogni caduta, inevitabilmente si compie. E allora Emma potrebbe sopravvivere, potrebbe sopravvivere anche il suo matrimonio, e la sua reputazione. Potrebbe tenersi il corpo tutto per sé, e fare l’amore per messaggio, mandare delle foto. Potrebbe usare Zoom, e non doversi mai scontrare con le membra fredde di uomini inadeguati, le chiacchiere spicciole di comari invidiose, i giudizi gretti di amici e parenti.
C’è in gioco un nuovo paradigma, siamo ormai lontanissimi dall’idea che riconosce in una certa dissoluzione dell’io il fondamento stesso dell’esperienza amorosa, e nella carnalità dell’atto sessuale la trasfigurazione fisica di questo moto dell’anima. Forse ci siamo scocciati della trama umanocentrica e eteronormativa di tutte le Emme Bovary del mondo, così come delle commedie romantiche, che poi spesso son fatte male, e comunque i nostri genitori si sono separati almeno una volta e i matrimoni ci piacciono solo se non convenzionali. Ma soprattutto il sesso ci stanca, perché complica sempre tutto, e sembra sempre che ci sia qualcuno, da qualche parte nel mondo, che sta godendo più di te, e poi c’è da farsi il tampone e in farmacia sono finiti. E quindi forse ci stiamo muovendo verso un amore post-romantico e desessualizzato, che apre a nuove forme di amicizia, e mira a gestire l’eros per raggiungere passioni calme e moderate. Evitare il contagio, evitare il suicidio: be cool.