C i sono due storie che si intrecciano, quella di un libro, Amianto. Una storia operaia, e quella del suo autore, Alberto Prunetti, pioniere e punto di riferimento della letteratura working class: nell’intervista che segue si vuole indagare la trasformazione nel tempo e nello spazio di queste due storie. Prunetti è autore di una trilogia da lui stesso definita “working class”, che oltre ad Amianto include i romanzi 108 metri. The new working class hero e Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia, entrambi editi da Laterza, e di un saggio intitolato Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, edito da Minimum Fax. Dal 2018 è direttore della collana Working Class di Alegre Edizioni e nel 2023 ha curato, insieme al Collettivo di fabbrica Gkn, Alegre ed Arci Firenze, il primo Festival di Letteratura Working Class realizzato in Italia. Un’esperienza rara anche a livello globale, che sembra paragonabile solamente al Working Class Writers Festival tenutosi a Bristol, in Inghilterra, nel 2021.
Entrambe le storie, quella del libro e quella dell’autore, si sono fatte strada in un ambiente ostile, classista, che continua a considerare le storie scritte e raccontate da quelli che stanno in basso, con il linguaggio di quelli che stanno in basso, storie tutto sommato trascurabili, volgari, non conformi alla forma e al linguaggio richiesto, per parafrasare Brigitte Vassallo. Qual è il percorso dunque, che in un decennio, ha portato queste due storie ad emergere piano piano dal mare delle cospirazioni underground, allargare i polmoni ed espandere la propria voce?
La prima edizione di Amianto è del 2012, pubblicata da Agenzia X, casa editrice che mette al centro del suo lavoro culturale “la voce dei rappresentanti di controculture e movimenti sociali”. Tuttavia, correggimi se sbaglio, le primissime tracce pubbliche di Amianto si trovano già nel 2010 su Carmilla, la rivista online diretta da Valerio Evangelisti di cui sei stato redattore per molti anni abbracciando il motto: “letteratura, immaginario e cultura d’opposizione”. Lì, pubblicasti due articoli, uno dei quali con questa avvertenza: “Pubblico in un solo post le parti conclusive della versione sintetica di Amianto. L’opera integrale sarà presto fatta circolare come e-book. A.P.”. Quindi l’idea iniziale era un e-book? Raccontami come si è fatto carta Amianto?
Ma lo sai che me n’ero dimenticato? Sì, io ero all’epoca una specie di outsider dell’editoria: in precedenza avevo pubblicato due libretti con Stampa Alternativa solo perché il suo editore viveva in Maremma, per il resto avevo pochissimi contatti e tutti con editori molto piccoli. Facevo qualche rara traduzione, ma per il resto mi guadagnavo il pane fuori dall’editoria: prima come pizzaiolo, poi come fotografo scattinista. Intanto avevo cominciato a scrivere nel 2010 la storia della vita di mio padre, i suoi spostamenti da un cantiere all’altro, fino alla malattia che lo stroncò e il tentativo di ottenere il riconoscimento dell’esposizione professionale all’amianto. Scrivevo con un approccio picaresco alla livornese, senza vittimismi, perché se avessi fatto passare mio padre da vittima sarebbe tornato per prendermi a pedate. Pubblicai alcuni estratti su Carmilla. Provai poi a contattare alcune case editrici, ma non mi rispondevano o mi trattavano in maniera classista. Mi dicevano che “non ricevevano buoni segnali dall’ufficio marketing per la storia di un operaio che muore d’amianto”. Stanco dei rifiuti e convinto che alla fine io non sapessi scrivere nulla di decente, cominciai a pensare che in fondo potevo pubblicare su Carmilla qualche pagina del mio manoscritto per poi farne un ebook da distribuire in qualche modo. Poi Agenzia X mi disse che loro erano interessati e lo mandammo in stampa.
Cosa facevi tra il 2010 e il 2012, come campavi, quali erano le tue prospettive lavorative e di vita? Filippo Casaccia, scrittore, autore televisivo e come te ex redattore di Carmilla, racconta di quando Valerio Evangelisti gli chiese di entrare nella redazione di Carmilla. Filippo conosceva gli altri componenti, che erano già autori affermati: Girolamo Di Michele, Giuseppe Genna, Wu Ming 1, ma non sapeva chi eri tu. Allora chiese a Valerio e lui, sempre chirurgico con le parole, rispose: “è un pizzaiolo anarchico”. Quindi aveva ragione Evangelisti? Tra il 2010 e il 2012 tu eri questo, un pizzaiolo anarchico che stava scrivendo la storia del suo babbo?
Dunque, io ho iniziato a collaborare con Carmilla nel 2005. Avevo scritto alcune pagine sul mio lavoro in pizzeria, che allora era il mio primo mestiere, nonostante avessi una laurea. Pagavo infatti la mia assenza di capitale culturale: era inutile avere il foglio di carta se non avevi il capitale culturale e familiare che ti permetteva di accedere ai circuiti culturali importanti. Incapace di trovare un lavoro qualificato, fedele alla promessa di non lavorare in fabbrica fatta a mio padre, da svariati anni lavoravo come pizzaiolo, giardiniere, manutentore di impianti ippici, etc. Nel 2005 mandai un mio racconto a Evangelisti che lo pubblicò su Carmilla con questa introduzione: “Alberto Prunetti, che con questo racconto inizia la sua collaborazione a Carmilla, è una curiosa figura di letterato (secondo la falsa immagine che circonda questa definizione), dato che fa di mestiere il pizzaiolo. Ne esistono altri in pari condizione, ma quelli che conosco io non sono altrettanto dotati”. Dopodiché Valerio mi propose di entrare in redazione; oltre a Evangelisti, come segnalava Filippo, i redattori erano Giuseppe Genna, Wu Ming 1 e Girolamo De Michele. Di fatto erano i miei scrittori preferiti. Quattro intellettuali e un pizzaiolo! Dentro a Carmilla mi sono fatto le ossa. Ho esplorato, avevo già scritto qualcosa (Potassa per Stampa Alternativa), ma faticavo a trovare la mia cifra. Dovevo fare i conti con la mia storia ma non potevo verbalizzarla. Renato, mio padre, era morto da un anno e io non riuscivo a parlare di lui. Solo nel 2010 certe ferite hanno cominciato a cicatrizzarsi e sono riuscito a cominciare a stendere la sua storia, proprio utilizzando Carmilla come laboratorio. Scrissi di lui, del calcio di strada e di fabbrica. Mi resi conto che comunque queste storie, almeno ad alcuni lettori, sembravano interessanti e andai avanti. Non me la sentivo però di chiedere agli scrittori più importanti di me che stavano in redazione di aiutarmi a pubblicare la mia storia. Ci sentivamo un collettivo politico, non una redazione, e mi sarebbe sembrato un favoritismo borghese chiedere a Valerio o a Wu Ming 1 di farmi pubblicare da un grande editore. Provai da solo, ma senza esito, come ho già detto. Poi alla fine Amianto ha trovato la sua strada verso la cellulosa e i lettori. Intanto però nel 2010 già non ero un pizzaiolo. Facevo all’epoca il fotografo, dopo aver insegnato per due anni italiano in India. Non un fotografo trendy. Ero uno scattinista che lavorava per alcuni studi fotografici che facevano foto da cerimonia. Pian piano, mi stavo creando una nicchia proponendo autori argentini e anglofoni a piccoli editori di movimento italiani. Così ho tradotto Bayer, David Graeber (all’epoca era sconosciuto e io ero il suo unico traduttore italiano) e tanti altri. Se fossi anarchico è complesso da dire: avevo legami con la tradizione anarchica, ma il mio era molto simile al gauchismo francese, un melange di situazionismo, anarchismo classico italiano e operaismo. Col tempo infatti ho anche provato a fare i conti con il voto, cosa che per gli anarchici veri non è accettabile. Diciamo che più che un pizzaiolo anarchico ero un ex pizzaiolo che teneva i piedi in tradizioni antagoniste, libertarie e operaiste. Insomma, un gran casino.
Scrivere Amianto significa saldare un debito, in parte, ma soprattutto legare una relazione di complicità tra generazioni di sfruttati.
Che rapporto hai avuto con il manoscritto che doveva essere un e-book e che piano piano ha cominciato a esaurire le tirature cartacee? Cos’ha generato la prima pubblicazione di Amianto e come ha cambiato il tuo modo di relazionarti con i mestieri di scrittore e traduttore? Ricordi anche qualche aneddoto significativo che ha accompagnato l’uscita del libro?
Rapporto complesso. Dal giorno in cui il libro è andato in stampa sono passate poche ore e ho cominciato a ricevere messaggi. Era notte e la gente mi bombardava di messaggi per dirmi che aveva divorato il libro in poche ore, senza riuscire a dormire. Nel primo messaggio uno mi diceva che stava piangendo, nel secondo che stava ridendo. Io non ci capivo più nulla. La cosa poi ha continuato fino a quando Wu Ming 1 un pomeriggio comincia a scrivermi una serie di messaggi un po’ fuori di testa, emozionati e lontani dal suo stile. Cose tipo: che cazzo di libro hai scritto, compagno. È un libro grande come una casa. Da quei messaggi nacque un post su Giap, poi un altro post con una lunga discussione che coinvolse molti lettori. Da quel momento sono diventato “quello di Amianto”, un po’ come se il libro mi schiacciasse su questa etichetta.
E poi c’è stato l’incontro con Alegre e la seconda pubblicazione ampliata del 2014. Come li hai conosciuti, come hai iniziato a collaborare con loro?
Stavamo già lavorando assieme per Letteraria, la rivista diretta da Stefano Tassinari. Con loro, da Tassinari, ho ricavato l’idea della letteratura sociale. Da Carmilla, grazie a Valerio Evangelisti, avevamo lavorato all’idea di costruire un “immaginario di opposizione”. Ho fatto confluire questi due concetti, letteratura sociale e immaginario di opposizione, dopo la pubblicazione di Amianto in una nuova formula: la letteratura working class e l’immaginario di classe operaio. Non volevo essere “quello di Amianto”. Non volevo essere scambiato per un libro. Volevo che questo libro creasse un circolo virtuoso con altri testi, che avevo iniziato a leggere dopo Amianto. Quando Amianto uscì nel 2012 con mia grande sorpresa fu recensito da molte testate importanti. E tutte parlavano del ritorno della letteratura industriale. Ma io di quel filone avevo letto solo Bianciardi. Mi misi a leggere Volponi, Ottieri, il Menabò numero 4, etc., etc. Ma mi ci sentivo stretto, strettissimo. Ricordavo certo le inchieste operaie ma quelle mi venivano dall’operaismo italiano mescolato alla Scuola di Barbiana, Luciano Bianciardi (I minatori della maremma, scritto a quattro mani con Carlo Cassola) e George Orwell (The Road to Wigan Pier) . Queste erano state le mie fonti di ispirazione, assieme a Il lavoro culturale, sempre di Bianciardi. Sentivo che dovevo fare qualcosa di più. Appena uscì Amianto mi misi a scrivere e a leggere come un forsennato. Leggevo letteratura working class britannica e scrivevo le prime pagine di quello che sarebbe diventato 108 metri. Dopo che per due anni Amianto era stato una sorta di cult book, amato ma introvabile, pensavo che non avrei avuto problemi a pubblicare il mio nuovo libro con un grande editore. E invece tutti i medi e i grandi editori che prima non mi rispondevano stavolta mi risposero, ma per dirmi di no. Che non erano interessati. Alla fine solo Laterza si fece viva e dette alle stampe 108 metri. Mi ci sono voluti sei anni per convincere un grande editore a pubblicare un’opera working class, nonostante il successo di Amianto. E non era un editore vocato alla narrativa: era forse il miglior editore italiano di saggistica che provava ad aprirsi alla narrativa. Però era un passo in avanti. Intanto avevo iniziato, proprio su Giap, un lavoro di riflessione teorica sulla mia scrittura e sulla letteratura working class (che poi sarebbe confluito nel mio saggio Non è un pranzo di gala, pubblicato da Minimum Fax nel 2022) e da quegli articoli nacque l’idea con Alegre di creare una collana editoriale specifica dedicata alla letteratura working class.
Sembra poi che il processo creativo, pur non essendo mai stato del tutto privato e individuale, abbia fortificato nel tempo la sua componente collettiva. Alle lotte dei lavoratori e familiari esposti all’amianto si sommano altre lotte e Amianto inizia a camminare anche fuori dalla pagina, a uscire dal cammino che avevi tracciato…
Sì, Amianto ha intrecciato diverse istanze: le lotte dei giovani precari che si riconoscevano nel personaggio di Alberto, i vecchi operai che si rivedevano nelle fatiche di Renato. In particolare, Amianto è stato utilizzato dagli attivisti che in tutta Italia hanno portato avanti i processi contro le industrie inquinanti, come quelli di Casale Monferrato e di Monfalcone. Nelle scuole poi è stato usato per parlare di sicurezza sul lavoro e inquinamento industriale, mentre negli ultimi tempi il libro è diventato un pezzo dell’immaginario working class che abbiamo evocato nel festival della Gkn. Insomma, il libro ha saputo farsi comunità ed è uscito dal recinto della carta stampata. Mi rimane solo questo senso di sconfitta: ho dedicato migliaia di parole, scritte e alla radio, in presentazioni e sui palchi, contro gli omicidi bianchi e le morti sul lavoro. Eppure tutte queste parole non riescono a incidere, a trasformare la realtà: ogni giorno continuano a morire in Italia tre operai.
Io appartenevo a una fascia alta della classe operaia, la cosiddetta aristocrazia operaia, ma come raccontare i lumpen o gli operai alla catena? Come raccontare le donne operaie? Quelle che lavorano in fabbrica e lavorano anche alla riproduzione sociale in casa?
Ora che sappiamo un po’ di piú del pizzaiolo di fine anni Zero e primi anni Dieci, raccontaci cosa succede dalla seconda edizione di Amianto ad oggi, come cambia la tua vita personale e la tua relazione con la storia di tuo padre contenuta in Amianto?
Innanzitutto io divento subito, come ti ho già detto, “quello di Amianto”. In realtà è un momento molto forte. Il libro, uscito per un piccolo editore che si distribuisce sostanzialmente nei circuiti dei centri sociali, circola poco in libreria ma quando faccio le presentazioni mi trovo sempre un pubblico folto, si creano dibattiti anche molto emozionanti. Praticamente faccio diversi tour nei luoghi più inquinati d’Italia, perché Amianto è una storia legata al tema dell’inquinamento industriale. Anzi è un tentativo di costruire uno storytelling ambientalista working class per rispondere punto per punto al greenwashing aziendale creato negli ultimi anni anche da quelle stesse aziende nocive in cui mio padre aveva lavorato. E non è un caso se i posti più inquinati, che poi sono quelli ad alto tasso di industrializzazione e deindustrializzazione, mi invitano. Renato diventa sempre meno mio padre e sempre di più una figura in cui tanti riconoscono i propri vecchi. Vado da un lato all’altro d’Italia, anche all’estero, e mi dicono: “la tua storia è la mia”. La cosa mi colpisce perché significa che sono andato oltre lo storytelling dei cazzi miei per raccontare una storia che è in parte generazionale, ma soprattutto è una storia di classe: la storia di chi si è laureato venendo da una famiglia di lavoratori, di quei figli che hanno studiato sulle spalle di genitori che hanno minato la propria salute per mandarli all’università. È su questo bagaglio che ho scritto, anche con un certo senso di colpa: per farmi studiare mio padre si è ammalato, sperando di farmi uscire dalla subalternità di classe. Mi rendevo conto quindi che non potevo salvarmi da solo, dobbiamo uscirne tutti assieme. Per questo scrivere Amianto significa saldare un debito, in parte, ma soprattutto legare una relazione di complicità tra generazioni di sfruttati. Tanto più che all’epoca in cui scrivevo Amianto i media diffondevano certe retoriche tossiche: spiegavano il precariato come il risultato dei privilegi dei lavoratori della generazione precedente. Io invece ho storicizzato, ho legato il precariato alla lotta di classe (quello che secondo me non riusciva a fare a narrativa del precariato dei primi anni duemila) per far vedere che senza la sconfitta della classe operaia dei primi anni Ottanta non sarebbe stato possibile precarizzare la generazione successiva. E nelle mie presentazioni avevo questo doppio pubblico: vecchi operai in pensione e giovani precari. E spesso stavano nella stessa famiglia e si passavano di mano in mano il mio libro. Questo è stato davvero bello.
All’incirca quattro anni dopo la seconda pubblicazione di Amianto, grazie alla collaborazione con Alegre, nasce la collana Working Class con l’obiettivo di bucare la roccia dei privilegi con il lavorio dei fiumi carsici della letteratura di classe. Affiorano così in superficie dalle periferie d’Europa le voci di autori e autrici come D. Hunter, Luisa Carnés o Cash Carraway, quelle di un collettivo di fabbrica di Campi Bisenzio, quelle di un sempreverde Orwell e quelle di scrittori e scrittrici come Valerio Monteventi, Simona Baldanzi e Tommaso Di Ciaula. Che relazione c’è tra Amianto e la collana Working Class?
Una relazione diretta. La collana nasce per completare quel che non riuscivo a fare con Amianto. In Amianto avevo raccontato una relazione sulla linea maschile di due generazioni di proletari maschi. L’idea era di raccontare a partire dal proprio sé. Un principio femminista: parti da te, dal tuo corpo. È anche una storia di mascolinità al tramonto, fiaccata da delusioni, dalla fatica di stare al passo di nuovi ruoli di genere in cui un uomo come Renato sarebbe rimasto fuori. Però la classe operaia è composta anche dalla sovrapposizione di altre dimensioni soggettive e non è monolitica. Io appartenevo a una fascia alta della classe operaia, la cosiddetta aristocrazia operaia, ma come raccontare i lumpen o gli operai alla catena? Come raccontare le donne operaie? Quelle che lavorano in fabbrica e lavorano anche alla riproduzione sociale in casa? E le storie della nuova classe operaia, più etnicizzata e marcata dalla linea del colore? Come raccontare poi il rapporto tra classe sociale e identità sessuali? Insomma, non potevo fare tutto in un libro, ci volevano tante voci autoriali diverse. Così ho creato la collana per offrire uno spazio a queste voci. E non è un caso che i titoli più importanti siano stati i libri di un lumpen con una identità sessuale molteplice, D. Hunter, o le storie brutali e irriverenti di una madre single sotto la soglia della povertà, come La porca miseria di Cash Carraway. La collana è stata un passaggio fondamentale nella disseminazione di un immaginario working class che intanto, su linee diverse da quel che io stavo facendo in Italia, stava bucando la soglia del mainstream in tanti paesi, soprattutto in Svezia, nel mondo anglofono tra Scozia, Inghilterra e in parte Stati Uniti, e in modo molto particolare in Francia. La collana è servita anche a ricostruire una genealogia dell’immaginario letterario working class, con il recupero dell’opera di Di Ciaula, che ha segnato una stagione fondamentale della letteratura operaia italiana (mi riferisco alla poesia operaia degli anni Settanta, con autori come Luigi Di Ruscio e Ferruccio Brugnaro, che all’epoca erano semplicisticamente definiti come “selvaggi” e che non hanno smesso di influenzare la generazione contemporanea di poeti operai). Ma si pubblicano ormai opere working class anche fuori dalla mia collana. Tra tutte mi ha colpito di recente The Blocks di Karl Parkinson, tradotto in italiano da Battaglia edizioni.
Oltre a essere uno scrittore, hai tradotto autori come Arlt, Bayer, Graeber e Zerzan, e anche tutti i titoli in lingua straniera della tua collana. Quindi, prima di farti una domanda sull’ultima edizione Feltrinelli, e dico ultima perché siamo arrivati in cima alla catena alimentare delle case editrici italiane, vorrei che mi raccontassi delle traduzioni francese, catalana, spagnola, greca e inglese dei tuoi libri e del tuo rapporto con i traduttori di Amianto. Come ha trovato accoglienza la tua lingua nell’universo di queste lingue? Come ha superato le Alpi e i Pirenei la storia di un operaio di Piombino? E poi, è una leggenda o è vero che anche in Cina leggono Amianto?
Comincio dal fondo. No, ancora no. È uscita solo una breve traduzione di un paio di pagine assieme a una mia intervista, tradotte in cinese su una rivista. Ma è vero che la Cina è un altro paese importante per la letteratura working class contemporanea. Per il resto mentre chiudevo la mia trilogia (che dopo Amianto è proseguita con 108 metri e Nel girone dei bestemmiatori) è iniziata una certa propagazione all’estero i miei lavori. Dapprima attraverso l’interesse di svariati dipartimenti di italianistica, in Italia ma soprattutto all’estero, che mi hanno invitato a convegni o hanno dedicato tesi di laurea e seminari alla mia opera; e poi grazie a editori indipendenti che hanno tradotto le mie opere. Con successi diversi: direi che per ora i risultati migliori vengono dal mondo ispanico (tra tutti, un momento molto forte è stato in occasione della Feria del libro di Montevideo il mio incontro in Uruguay con l’ex Presidente Pepe Mujica, che ha molto apprezzato Amianto, così come il fatto che Amianto sia stato consigliato dalla Ministra del lavoro spagnola Yolanda Diaz). Per quanto riguarda il rapporto con i traduttori, io tendo molto a dialogare con loro (comprensibilmente: sono io stesso un traduttore), soprattutto per spiegare certe forme vernacolari o strane espressioni idiomatiche della mia opera che appartengono a un lessico familiare difficile da comprendere. Ovviamente lascio che sia il traduttore a farsi avanti: con alcuni ci sentiamo spesso, con altri molto meno. Quando posso, aiuto in ogni modo e vado all’estero a presentare i miei libri. Quello che mi colpisce ogni volta è che, ovunque io vado, trovo lettori e lettrici che mi dicono che la storia di Amianto è la loro storia. Dalla Grecia alle Asturie all’uruguay, mi dicono sempre questa cosa. E penso che sia questa dimensione di universalità della condizione della classe operaia, aldilà delle tante segmentazioni per genere, etnicità, lingua, etc, a contare davvero, in fondo.
Sono convinto che bisogna uscire dal ghetto delle riserve indiane: le opere working class devono essere pubblicate dai grandi editori. Non possiamo lasciare all’immaginario borghese i grandi cataloghi.
Appena compiuti i sette anni Amianto ha viaggiato all’estero. Il suo protagonista, Renato, non ha mai preso un aereo e all’estero c’è andato la prima volta in autobus, superati i quarant’anni, per accompagnare tua sorella in Ungheria in un gemellaggio di cori musicali. Tu invece, se non ricordo male, la prima volta all’estero ci sei andato a 28 anni, in Inghilterra, a fare tutti quei lavoretti che racconti in 108 metri. I viaggi all’estero, quando hanno una componente avventurosa, spesso si ricordano, in positivo e in negativo. Com’è stato il tuo viaggio per l’Europa insieme ad Amianto? Credi che le traduzioni di Amianto, sommate alle traduzioni dei titoli della collana Working Class, abbiano ampliato il respiro del tuo lavoro?
Si, un po’ l’ho già detto, ho avuto risposte molto forti in Spagna e in Grecia. In Francia non ho avuto finora grandi riscontri, vedremo nel 2024 quando sarà pubblicata la traduzione di 108 metri, ma grazie ad Amianto ho conosciuto l’autore working class forse più importante degli ultimi anni: Joseph Ponthus. Con Joseph abbiamo fatto una presentazione assieme al festival Lettres du monde di Bordeaux. Purtroppo lui è morto troppo giovane, a 43 anni, per un tumore, però sono riuscito a dare una mano affinché il suo capolavoro, Alla linea, un romanzo in prosimetri sulla sua esperienza di operaio dell’agroalimentare bretone, venisse pubblicato anche in italiano. Dalla Francia poi arrivano opere complesse, meno legate all’orgoglio operaio del filone britannico working class, più interessate all’esplorazione del tema del transfuga di classe. Mi riferisco all’opera di Didier Eribon, di Edouard Louis e infine di Annie Ernaux. Che non a caso ha vinto l’anno scorso il Nobel per la letteratura e accogliendolo ha detto una cosa che io dicevo da tempo: che la classe sociale stava al centro della sua opera, cosa che in Italia non veniva troppo percepita. Dal 2019 la letteratura working class si muove in Italia sottotraccia, ma all’estero vede affermazioni importante: oltre al Nobel a Ernaux, abbiamo Ponthus che diventa un best seller; in Scozia nel 2020 il Booker Prize, forse il premio più importante in lingua inglese, va a Shuggie Bain di Douglas Stuart; negli Stati Uniti Maid di Stephanie Land diventa una serie Netflix di successo; in Spagna Tea rooms di Luisa Carnés, autrice proletaria degli anni Trenta, diventa un libro importantissimo, adottato dalla nuova onda femminista; in Svezia molti autori e autrici working class si sono costruiti un’ampia riconoscibilità nel mainstream, sostenuti anche da un sindacato e da una rivista, Klass, che è bellissima anche nell’aspetto grafico (putroppo è in svedese e non posso leggerla); in Cina si diffonde una scena di poesia operaia molto importante: insomma, a partire dal 2019, forse come conseguenza della crisi economica, si afferma in più lingue una nuova onda internazionale di autori e autrici working class, meno legati alla fabbrica e più alle ferite e ai traumi del capitalismo; autori e autrici che spesso scrivono memoir ma a volte anche romanzi di finzione.
Tutto questo ha alimentato un nuovo immaginario letterario working class. Ma, in certo modo, i risultati migliori sono arrivati proprio in Italia. Qui non abbiamo letto un best seller operaio, ma abbiamo avuto un lavoro collettivo sorto da intelligenze operaie, e questa cosa si chiama Festival di Letteratura Working Class. In tre giorni nell’aprile 2023 abbiamo dimostrato alle persone bennate che coi libri e con la cultura noi persone nate in famiglie operaie ci sappiamo fare meglio che con gli hamburger, i rubinetti e i semiassi. Non mi dilungo, ne ho già parlato in tante altre interviste: il festival dentro alla Gkn è stata un’esperienza che ha scioccato emotivamente le migliaia di persone che ci hanno partecipato. Ma questo non sarebbe stato possibile senza la conflittualità sociale del collettivo di fabbrica Gkn che con la sua mossa di convergenza culturale ha fatto concretamente quel che da anni io riuscivo solo a mettere per scritto: che noi operai e figli di operai dovevamo raccontarci da soli, che dovevamo costruirci da soli, senza la mediazione di intellettuali borghesi progressisti e illuminati, un palco, un pubblico, una cornice per le nostre storie. E l’abbiamo fatto, maremmacane se l’abbiamo fatto. E lo rifaremo.
Siamo davvero arrivati all’ultima edizione quindi? Com’è stato il lavoro per la ripubblicazione del libro con Feltrinelli? Su cosa avete lavorato e cos’è cambiato?
Sì, siamo arrivati all’ultima edizione. Guarda, in vista dell’edizione Feltrinelli ho fatto un lavoro che mi è costato molto, anche in termini emotivi. Squadernare il pdf e ripartire dal manoscritto alle bozze è stato doloroso, dopo anni che dicevo che le ferite si erano cicatrizzate. Sono cominciate a succedere cose strane. Mia madre che trovava una vecchia lettera di cui parlavo nel libro. Altri pezzi del passato, che avrei fatto volentieri a meno di sentire, che tornavano a rovinarmi le nottate. Insomma, non è stato facile emotivamente. Rimanendo in ambito testuale, lo spostamento più grosso è stato il recupero dell’epilogo della prima edizione del 2012 con lo slittamento all’indietro del capitolo che scrissi per l’epilogo del 2014. Ho poi corretto alcuni errori fattuali, riscritto un paio di episodi e migliorato complessivamente l’aspetto stilistico e sintattico. Inoltre ho aggiunto nuove foto, tra cui finalmente una di mia madre con Renato (mia mamma era quasi infastidita quando le dissi che stavo scrivendo di Renato, e non voleva neanche comparire nella prima edizione del libro).
Che significato ha per te, come scrittore, pubblicare per Feltrinelli, nella collana Universale Economica? Come ti senti?
Sono convinto che bisogna uscire dal ghetto delle riserve indiane: le opere working class devono essere pubblicate dai grandi editori. Non possiamo lasciare all’immaginario borghese i grandi cataloghi. Dobbiamo costringerli a pubblicare le nostre opere, si tratta di un’operazione di egemonia. Non siamo residuali, siamo il sale della terra: prendiamoci il posto che ci serve nell’industria del libro per continuare a costruire un immaginario. Tanto più che esco nell’Universale Economica, che nacque proprio – prima ancora che Feltrinelli creasse la propria casa editrice – per diffondere nei ceti popolari la letteratura che finora era appannaggio della borghesia. Se vogliamo, possiamo dire che Amianto stia riportando Feltrinelli alle proprie origini (ok, sto scherzando).
Sembrerebbe una scalata quella del tuo libro: Agenzia X, piccola casa editrice militante; Alegre Edizioni, casa editrice militante in cui diventi direttore della collana Working Class e ora Feltrinelli. Pensi di avercela fatta? Pensate di avercela fatta tu e il tuo libro? Qual è la morale di questa storia?
Questo libro non avrei dovuto neanche scriverlo. Per me “avercela fatta” doveva essere questo: vedere Renato che costruisce giochi per mia figlia. Invece è andata in un altro modo… In questi dieci anni non ho solo scritto una trilogia (forse una quadrilogia, considerando il saggio sulle scritture working class come un quarto volume di un progetto narrativo). Ho provato a introdurre in Italia concetti e autori, a farmi a colpi di machete spazio nell’industria del libro, mettendola in discussione ma provando anche a sfidare il mainstream. Quanto alla morale di questa storia… posso dire che in più di dieci anni di lavoro ho partecipato alla costruzione di un immaginario letterario working class in lingua italiana, che questo immaginario è oggi più vivo che in passato grazie anche alla conflittualità sociale che si è consolidata attorno alla vertenza Gkn. E che forse qualcosa ho contribuito a fare anche io. Ma da solo non avrei fatto nulla: gli operai Gkn hanno fatto in sei mesi più di quello che io ho fatto in dieci anni per l’immaginario working class. Perché io lavoro da scrittore, che – spiace dirlo – è comunque un mestiere radicato nell’individualismo borghese. Mentre loro lavorano da operai, in forma collettiva. E questa è la morale della storia: che i libri contano se diventano comunità, se si sanno trovare compagni di strada, se camminano sulle labbra delle persone che li leggono. Altrimenti sono solo merci. (PS: Speriamo che anche le librerie riescano a catalogare bene Amianto: finora lo mettevano ovunque, varia, medicina del lavoro, relazioni industriali. Sarebbe il caso che le storie operaie fossero considerate letteratura in lingua italiana).
Gli operai Gkn hanno fatto in sei mesi più di quello che io ho fatto in dieci anni per l’immaginario working class.
Qualche anno fa scrivesti: “Continueremo a spingere le scritture operaie sulla montagna dell’industria editoriale, un passo alla volta, in salita. È un lavoro da titani. È il lavoro di Sisifo. Ma nessuno può farlo meglio di noi. (Bisogna immaginare Sisifo felice)”. Sei bravo con le metafore, Amianto ne è pieno, e credo che sia una delle ragioni del successo della tua scrittura, drammatica senza perdere il sorriso e sorridente senza mai dimenticare il dramma. Non credi però che Sisifo che sorride, condannato a spingere un masso in cima a una montagna infinita possa in qualche modo rappresentare un rischio? Quello di romanticizzare la working class e dignificare il sacrificio, di esaltare una certa autoreferenzialità eroica e un orgoglio identitario che si chiude su se stesso? Te lo domando perché so che è un tema, quello dell’autoreferenzialità, che hai segnalato in diverse occasioni. Come affrontarlo e come non farsi schiacciare nella propria bolla di giusti?
Ne sono assolutamente convinto. Ho raccontato una storia senza vittimismo, non volevo infilarmi nello spazio di comfort della vittima, lo considero patetico e privo di capacità di trasformare la realtà. Non c’è neanche nostalgia nei miei libri, anche se a volte potrebbe sembrare: credo fermamente, alla pari di Mark Fisher, che la nostalgia sia reazionaria. C’è orgoglio, questo sì, c’è empatia e capacità di commuovere, indubbiamente, e c’è umorismo, arte labronica che ho imparato a maneggiare proprio grazie a Renato. Credo anche che sia un errore romanticizzare il passato e la classe operaia: le migliori scritture working class dell’ultima stagione fanno proprio il contrario: ad esempio, raccontano il conflitto tra appartenenza di classe e identità sessuale, evitando però di demonizzare la working class. Per il resto, il lavoro che ho fatto e che ci aspetta è un continuo spingere in avanti il sasso. Non ho mai fatto piagnistei: io pubblicavo Amianto con editori piccolissimi e chi usciva da scuole di scrittura, o aveva la storiella potabile, o aveva relazioni e capitale culturale di famiglia, prendeva l’ascensore sociale nell’industria del libro. Io me ne sbattevo senza queruli vittimismi: questa è la prima volta, credo, che tiro fuori questa faccenda. Ma avevo fiducia in quello che stavamo facendo: facevamo presentazioni in luoghi dimenticati dell’interno, nei circoli Arci delle colline metallifere, nei dopolavori ferroviari delle città deindustrializzate. Gli altri passavano in tv e scomparivano, io sentivo di camminare sulle spalle di generazioni di mani operaie che mi chiedevano di continuare a scrivere le nostre storie. Fanculo, ce la faremo. È proprio Albert Camus che ci chiede, nel suo saggio, di immaginare Sisifo felice, come un operaio ribelle che sa che tenterà mille volte l’assalto al cielo. E che prima o poi ce la farà: anzi, ce la faremo, perché l’io deve farsi noi, nella letteratura operaia.
Quali trasformazioni dobbiamo aspettarci ancora? Qual è il tuo orizzonte prossimo e quello di Amianto?
La vita è complessa e bella. Ho appena fatto cinquant’anni, dieci da pizzaiolo, dieci da scrittore e traduttore, nel mezzo un po’ di lavoracci. La vita personale è cosa mia, sono restio a parlarne in pubblico. Comunque è fatta di amore, figliolanza e mal di schiena. Sul lavoro, vorrei cambiare un po’ mestiere oppure essere pagato meglio. Vorrei ancora tradurre, ma vorrei ritradurre classici. Vorrei più tempo per leggere ma la vedo dura. Vorrei prendermela più tranquilla, sgomitare di meno. Vorrei invecchiare bene senza malattie e senza problemi economici, perché non andrò mai in pensione se non per anzianità. Riguardo alla scrittura di nuove opere, credo che il prossimo passo sarà quello di mettere assieme un’antologia di racconti brevi. E sulla lunga distanza scrivere un ultimo romanzo, davvero di fiction, ma qui i tempi sono più lunghi. Ci vorranno anni, a meno che non si vendano così tante copie di Amianto che potrò permettermi di non tradurre tanto e quindi di scrivere di più. Funziona così. Alla fine è un lavoro. Mal pagato, ma è un lavoro.