Dare un nome all’abuso

Un’intervista a Belén López Peiró, l’autrice di Perché tornavi ogni estate.

Ilaria Mazzaferro è traduttrice dall’inglese e dallo spagnolo verso l’italiano e si occupa da ormai quindici anni di traduzione specialistica, principalmente in campo medico. Negli ultimi anni ha iniziato a lavorare anche in ambito editoriale, con la traduzione di racconti per blog di case editrici e rassegne stampa. Si occupa anche di scouting letterario: Viaggio a Treblinka (di Diana Wichtel, Battaglia Edizioni) è frutto di una sua proposta editoriale. Con Stella Sacchini sta traducendo un romanzo per la collana Oscar Vault di Mondadori. Dal 2019 collabora con il festival BookMarchs - L'altra voce, per il quale si occupa di comunicazione e organizzazione.

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N el suo romanzo d’esordio, Perché tornavi ogni estate, Belén López Peiró (Buenos Aires, 1992) denuncia la violenza sessuale subìta in ambito familiare negli anni dell’adolescenza: una testimonianza forte che in Argentina ha spinto molte donne a sporgere denuncia, fino a diventare un punto di riferimento nelle scuole e nei corsi di formazione in ambito giudiziario sulla violenza di genere. Il libro è uscito in Italia a marzo di quest’anno per La Nuova Frontiera, nella traduzione di Amaranta Sbardella.

Vorrei cominciare dalla parola: quella di Perché tornavi ogni estate è una lingua nuda, senza orpelli, una lingua che mette il lettore e la lettrice davanti ai fatti. Qual è stato il percorso che ti ha portato a trovare questo tipo di linguaggio?

Sono partita dalla consapevolezza che mancava un linguaggio per descrivere l’abuso. Su questo hanno avuto una grande influenza i tabù familiari. In casa non si parlava mai di abuso sessuale, violenza sessuale, desiderio, piacere, e dunque nemmeno di consenso; non si affrontavano tutti quei temi che per molti anni hanno costituito un grande silenzio nelle nostre famiglie. Quando una ragazzina aveva il menarca, le si diceva “oh, sei diventata una signorina”, era un momento da festeggiare, ti regalavano il primo reggiseno: ricordo che per me quello non era stato un momento piacevole, ma un pensiero del genere era inammissibile, bisognava festeggiare. Nessuno ti spiegava che cosa implicassero le mestruazioni, nessuno ti spiegava la correlazione con una possibile gravidanza, con la possibilità di generare.

Nemmeno la scuola era esente da questi tabù. Quando andavo a scuola non si parlava mai di desiderio sessuale; solo nelle lezioni di biologia si parlava di genitali e del sistema riproduttivo femminile e maschile, ma non emergevano mai le parole “abuso” o “violenza sessuale”. Tutto questo vuoto, tutto questo silenzio ha influito negativamente su di noi, è stato un momento decisivo per la nostra vita, o perlomeno per la mia: è lì che risiedeva l’assenza di linguaggio, l’assenza di strumenti e possibilità. Credo che il linguaggio sia riuscito a riempire un vuoto, inserendo parole laddove non ce n’erano. In questa ricerca del linguaggio – un linguaggio che in qualche modo permette di dare un nome a quello che ho vissuto – sono riuscita a usare la parola “abuso”, ho dato un nome a qualcosa per cui fino ad allora si erano usati solo eufemismi o termini dalle connotazioni negative (“il fatto”, “quello che hai dovuto passare”). E in questo percorso di ricerca, il punto di partenza è stata l’istituzione giudiziaria con il suo linguaggio.

Immagino che sia stato un percorso non privo di ostacoli.

Sì. Come dicevo, in questa ricerca del linguaggio, in questa volontà di dare un nome alle cose, il primo ostacolo che ho affrontato è stato il linguaggio giuridico. Per la giustizia io ero la “vittima” e il mio aggressore, il “colpevole”. Per la giustizia esistevano soltanto due protagonisti del fatto, quando in realtà io ero convinta che invece le persone coinvolte fossero molte di più. Tuttavia, il linguaggio della giustizia mi ha dato la possibilità di riconoscere che si trattava di un crimine. La giustizia mi ha dato le parole per accettare quanto mi era successo, per poi fuggire a gambe levate da lì, per non uscirne ferita, mortificata. Il linguaggio giuridico mi ha permesso di riconoscermi come vittima, ma avevo bisogno di abbandonare quel linguaggio perché mi vittimizzava: da un lato riduceva l’abuso alla dicotomia vittima e carnefice, non teneva conto del contesto che rendeva possibile l’abuso e, dall’altro, la parola “vittima” portava con sé uno stereotipo molto doloroso, gravato da una grande tristezza, una mancanza di desiderio, un atteggiamento sociale che aveva effetti molto deleteri.

In qualche modo, è da lì che poi ho proseguito la ricerca del linguaggio. Da un lato c’era la necessità impellente di presentare le prove che mi richiedeva la giustizia: sono stata io stessa a dover scrivere la denuncia e ricordo lo smarrimento totale che ho provato davanti al foglio bianco, perché non riuscivo a trovare le parole per dare un nome a quello che mi era successo. Dall’altro, mi rendevo conto che le parole per descrivere la mia esperienza in realtà non esistevano. È lì che mi sono detta che, se nessuno mi aveva fornito prima di allora le parole per raccontare quello che avevo passato, allora avrei cercato le mie.

È così che fin dalla denuncia ho deciso di scarnificare la lingua, di andare all’osso, descrivere ogni singolo dettaglio dell’abuso, fino a svuotarlo. Dare fondo a tutte le parole, usarle come se fossero tutte una mia creazione. Questo è stato il primo grande passo: mettere parole laddove non esistevano. Se è vero che nel contesto attuale è necessario lavorare per una sensibilizzazione al linguaggio inclusivo, altrettanto forte è la necessità di un linguaggio per la violenza.

In Perché tornavi ogni estate ricostruisci la tua vicenda ricorrendo a una polifonia di voci che si rincorrono, che diventano sempre più incalzanti, e che si intrecciano con gli atti giudiziari, dai quali emergono ancora altre voci – familiari e periti a vario titolo. Piano piano, però, con lo scorrere delle pagine, emerge sempre più chiara la tua voce, emerge il tuo desiderio di rivolgerti alle lettrici. È così?

Sì, il mio punto di partenza è stato il fascicolo degli atti giudiziari. Cinquecento pagine per me pressoché incomprensibili, sia per il coinvolgimento emotivo sia per il succedersi di termini e acronimi che mi erano del tutto oscuri. Al tempo stesso, mi rendevo conto che quei documenti avevano una carica testimoniale molto forte, erano irriproducibili, e pertanto ho capito che avrei dovuto integrarli nel mio libro così com’erano. È qui che è avvenuto il passaggio alla non fiction.

Per quanto riguarda le voci che emergono al di fuori degli atti giudiziari, in un primo momento avevo assegnato a ciascuna di loro un nome, che però poi ho preferito rimuovere perché, in fondo, non era importante sapere chi è che aveva pronunciato quelle parole, volevo piuttosto che emergesse un mormorio indistinto.

Inoltre, mettermi in ascolto delle voci che sentivo emergere dai miei ricordi e dagli atti giudiziari mi ha permesso di compiere un ulteriore passo avanti: a un certo punto, mi sono resa conto che lavorando a quelle voci io avevo il dito puntato contro gli altri, la giustizia, ma io? Io chi ero? Ed è così che, attraverso il laboratorio di scrittura, sono arrivata al riconoscimento dell’io.

Una volta che sei riuscita in qualche modo a prendere le distanze dal linguaggio della giustizia, come è proseguita la ricerca del tuo linguaggio?

Volevo dare un nome ai fatti per dare un nome a me stessa. Questo processo è proseguito sicuramente con la scrittura del libro, dove in qualche modo ho cercato di trovare parole che non attenuassero i fatti, che non lasciassero spazio a eufemismi, com’era stato fatto fino ad allora. Volevo che laddove vi era stato silenzio ora ci fossero grida, grida di dolore, di tristezza.

E ci sono stati autrici o autori che ti hanno accompagnato in questo percorso?

Sicuramente la lettura aiuta a trovare una possibilità, ed è proprio quello che mi è successo durante la stesura di Perché tornavi ogni estate. Ricordo che all’università mi insegnavano che Bachtin era il teorico della polifonia e io non capivo cosa volessero dirmi, non capivo a cosa mi sarebbe servita quell’informazione. Poi, quando ho iniziato a scrivere, è stata proprio la polifonia a emergere con prepotenza, ma non ero del tutto convinta, non sapevo se quello che avevo scritto potesse funzionare, se le mie intenzioni fossero chiare. E per questo mi sono rivolta a Svjatlana Aleksievič, che aveva appena vinto il Premio Nobel per il suo lavoro su Černobyl, e mi ricordo che quando ho letto Preghiera per Černobyl (edizioni e/o, 2018, trad. di Sergio Rapetti) mi sono resa conto dell’impatto che poteva avere il dare voce a chi era sopravvissuto, ai familiari di chi aveva perso la vita, ed era come un coro di voci che raccontavano quanto accaduto. E così ho capito che quella che avevo scelto per il mio libro era una forma possibile.

Con il linguaggio è successa la stessa cosa. In Argentina ha riscosso grande successo il libro King Kong Theory di Virginie Despentes (Fandango, 2019, trad. di Maurizia Balmelli). Ricordo che ho fatto molta fatica a trovarlo e, quando l’ho letto per la prima volta (era forse il 2015 o 2016), è stato un pugno nello stomaco: l’autrice parlava di prostituzione, raccontava in prima persona il proprio stupro e spiegava che non voleva essere etichettata come “vittima”, perché si è sempre vittima di un aggressore, una sopravvissuta a un’aggressione, si dipende sempre da un’altra persona. Mi trovavo di fronte a una letteratura che abbatteva gli stereotipi, che non aveva paura – io la definivo una letteratura selvaggia, brutale.

Il libro di Virginie Despentes ha avuto una grande influenza su Perché tornavi ogni estate, soprattutto verso la fine, quando inizio a parlare di quello che succede a me con il mio corpo, con il desiderio.

Sulla scorta di queste letture, ho pensato che anche la mia letteratura poteva essere come quella di Aleksievič e Despentes, perché era una letteratura in prima persona che lavorava sulla memoria, sul ricordo. Io stavo creando un linguaggio a partire dalla mia esperienza personale ma, vedendo che altre autrici prima di me avevano fatto le mie stesse scelte, ho avuto conferma di quella possibilità. E credo che tutto questo sia legato al fatto che la letteratura stessa è una polifonia ed è impossibile concepire i libri come entità isolate, è come se i libri fossero costantemente attraversati da un fiume, dove a volte la corrente si fa più forte. È impossibile leggere e non cogliere sfumature, parole, riferimenti che vengono da altri autori e autrici, e questo ha sicuramente a che fare con le letture possibili ed è anche da qui che nasce l’impulso alla ricerca del linguaggio, al non detto. Io credo che in Argentina, nel momento in cui ho iniziato a scrivere il mio romanzo, mancasse una testimonianza diretta che per me sarebbe stato prezioso leggere quando non sapevo ancora cosa fare con la mia famiglia, con la giustizia in merito a quanto mi era successo.

Alla luce del percorso che si è venuto delineando fin qui, che cosa è arrivato a essere per te il linguaggio?

Con la scrittura del romanzo, il linguaggio è diventato un’arma, non solo per ribaltare la mia condizione di vittima, ma anche per ribaltare gli equilibri all’interno della mia famiglia e di quella di altre persone. La letteratura, pertanto, mi sembra il luogo più adatto per dare voce a chi non ce l’ha e, in questo senso, svolge un ruolo fondamentale fin dall’infanzia, perché può contribuire a generare la consapevolezza di essere bambini e bambine, la consapevolezza che imparare a leggere e a scrivere è la più grande rivoluzione davanti a quegli adulti che vogliono in qualche modo occultare questi abusi. Secondo le statistiche UNICEF, 1 bambina su 5 viene abusata e l’80% degli abusi avviene in ambito familiare: come possono le famiglie rendere consapevoli i propri figli della prospettiva di genere, del linguaggio, delle parole del desiderio e della violenza sessuale se vogliono che di tutto questo non si parli? Un figlio o una figlia che può porre un freno a una situazione, che non si piega, per loro è un rischio. Anche per questo il ruolo della scuola è fondamentale. E anche come giornalista, io credo che una delle sfide principali sia l’approccio linguistico alla notizia di violenza sessuale: nei titoli degli articoli che parlano dei miei libri la parola che ha più risalto è “vittima” prima ancora che “scrittrice”, “autrice”. Di recente, ho ricevuto un riconoscimento dalla Legislatura di Buenos Aires per il contributo socioculturale del mio libro e la stampa, invece di mettere in risalto il mio ruolo di scrittrice, si è concentrata sulla mia triste storia di vittima: una povera ragazza che, attraverso quel riconoscimento, è stata in parte risarcita del calvario giudiziario subìto. Quando si smetterà di porre l’accento sull’esclusivo ruolo di vittima della donna in questione, allora emergerà con maggiore forza il resto.

Il linguaggio che sei riuscita tanto faticosamente a trovare e che per te è un’arma, quello stesso linguaggio che ti ha permesso di liberarti, come è stato accolto?

Perché tornavi ogni estate nasce da un’esercitazione assegnatami da Gabriela Cabezón Cámara (La vergine dei bassifondi, Edizioni Unicopli, 2019, trad. di Cristina Lavagna) nell’ambito di un workshop di scrittura per un bando dell’Associazione Abuelas de Plaza de Mayo sull’identità. Io ho iniziato a scrivere sull’identità e la prima cosa che mi è venuta in mente è stata l’abuso perché il linguaggio permette di registrare i fatti e per me l’identità aveva a che fare con quello che faceva di me una donna, una persona, e l’abuso era parte della mia vita. Io volevo in qualche modo smettere di vergognarmi, far sì che quell’episodio diventasse un episodio della mia vita da cui ripartire per andare avanti. E così ho scritto la scena dell’abuso, e ho scritto altre voci – quella di mia zia, di mia madre, di mio zio, di mia cugina – e, quando l’ho mandata a questo bando, la prima risposta che ho ricevuto era che la loro intenzione era pubblicare un’antologia per giovani e il mio linguaggio era molto forte per quel genere di pubblico; in più, il tema era sconvolgente. È così che è andata la prima volta che ho presentato alcuni brani del libro. Poi, una volta terminata la stesura, insieme a Gabriela Cabezón Cámara, abbiamo mandato il manoscritto a diverse case editrici e abbiamo ricevuto la stessa risposta: il linguaggio era troppo forte, non si potevano pubblicare libri sull’abuso – ed ecco che torna la carenza del linguaggio.

Questo è stato il prezzo che ho dovuto pagare per la mia scelta, un prezzo in qualche modo necessario per trovare il coraggio di usare un linguaggio capace di rompere il silenzio nelle famiglie e nelle istituzioni, che ponesse domande e permettesse di narrare la violenza sessuale senza vittimizzarci. È un processo ancora in corso: pensiamo, ad esempio, alla parola “vittima” che io stessa uso e che ritorna spesso per esprimere rapidamente un concetto simbolico, ma credo che debba essere una ricerca, un capitale simbolico nostro. Come le persone transessuali e di genere non binario cercano un linguaggio inclusivo per potersi dare un nome senza uscirne danneggiate, ghettizzate, credo che cercare un linguaggio che non vittimizzi, che permetta di nominare l’esperienza sessuale senza essere ridotta a vittima è importante per essere scrittrice e non sempre vittima, per avere attraversato una situazione di violenza sessuale senza che però la vita e la professione si riducano a questo. La sfida consiste nel cercare un linguaggio che ci definisca, che non ci vittimizzi, che narri, che dia un nome senza paura, e che sia un linguaggio che entri da subito nell’infanzia e diventi strumento di prevenzione nei confronti di tematiche quali la violenza sessuale, lo stupro, l’abuso nell’infanzia nel contesto familiare. Dobbiamo pensare a un linguaggio che non permetta solo di nominare la violenza nel dopo, nella denuncia, nella narrazione dei fatti, bensì che generi consapevolezza nella prevenzione. Fino a che punto un’altra persona può avvicinarsi a noi, di che cosa parliamo quando parliamo di consenso, che limiti possiamo mettere, quali segreti è bene custodire: per tutto questo il linguaggio è l’arma migliore che abbiamo.

Il tuo libro ha conosciuto un enorme successo di pubblico in Argentina e in altri paesi dell’America Latina – come Messico, Cile e Uruguay. Al momento esiste una traduzione in catalano, portoghese del Brasile, italiano, e sono in corso le traduzioni in francese, inglese e danese. Come ti senti all’idea di dover affidare la tua storia a un altro autore, quale è il traduttore letterario?

La sfida principale come autrice è sapere fino a che punto raccontare e cosa lasciare tra le righe, sapere in quale momento è necessario smettere di dire per lasciare alla lettrice e al lettore la possibilità di completare il testo con la propria interpretazione con le informazioni che possiede e questo implica fra le altre cose perdere il controllo, il controllo del senso finale del testo che si scrive. In Perché tornavi ogni estate non si sa chi è che parla, non si sa bene quale sia il finale, il libro si apre e si chiude con una domanda: non si tratta di scelte casuali, bensì legate al fatto che, come lettrice, mi piacciono i libri che generano domande più che risposte, che mettono in discussione le idee ormai radicate da troppo tempo. Mi piacciono i libri che possono portare all’azione, e credo che la traduzione comporti come una doppia perdita di controllo perché, come autrice, non conoscendo la lingua di destinazione, ovviamente ho un certo timore che il testo di partenza perda la forza originaria, che in qualche modo le mie parole vengano fraintese – fraintendimenti che possono esserci persino quando si parla la stessa lingua – pertanto credo che sia molto importante che autrice e traduttrice siano in stretto contatto al fine di evitare tutto questo.

Come autrice non posso sapere che cosa arriva alle lettrici e ai lettori delle versioni tradotte, ma credo che – per le traduzioni uscite finora – il messaggio sia veicolato correttamente perché dai lettori che mi contattano attraverso i social network ricevo gli stessi messaggi che ricevo dal pubblico argentino; sono messaggi che hanno a che fare con l’identificazione, il superamento delle paure, l’apprezzamento del libro, perciò sono sicura che l’essenza della storia arrivi a destinazione.

Belén López Peiró presenta Perché tornavi ogni estate l’8 maggio, a Ponzano di Fermo (con Silvia Alessandrini Calisti, Elisa Giusti, Silvia Casilio e Claudia Santoni) nell’evento inaugurale di BookMarchs – L’altra voce, festival dedicato ai libri e al mestiere della traduzione editoriale quest’anno giunto alla sua quinta edizione, intitolata “Traduco, dunque sono”. Un’altra presentazione sarà ad Ascoli Piceno il 10 maggio alla libreria Rinascita, con Laura Gaspari e Maria Luisa Volponi.