

La loro mancanza di umanità appariva
come un prodigio di coscienza di classe
(Boris Pasternak)
S ettimane fa, su questa rivista, un articolo di Christian Raimo (“La polemica si risolve con la politica”) ha preso il via da due polemiche recenti per sollevare alcune questioni a detta di Raimo centrali. La prima polemica verte sull’inutilità delle presentazioni di libri, alle quali non va mai nessuno; la seconda riguarda la scuola Holden di Torino che venderebbe a caro prezzo non tanto competenze autoriali quanto appartenenza all’ambiente dell’editoria (relazioni e stato sociale). Da un lato le due polemiche sollevano, secondo Raimo, la questione della “sostenibilità di due pezzi fondamentali della filiera dell’industria editoriale, la formazione degli scrittori e la promozione dei libri”; dall’altro, e soprattutto, sono sintomi di una terza questione che non è più possibile ignorare: “in Italia si leggono sempre meno libri, un pezzo consistente del settore editoriale è in crisi e una parte non piccola rischia di chiudere.
Ma non è questa la notizia peggiore. La notizia peggiore è che una società che legge di meno peggiora da tanti punti di vista”. Raimo è uno scrittore democratico e progressista, molto attento alle questioni italiane; i suoi contributi sulla storia recente o sui casi di cronaca, i suoi interventi pubblici e le sue lucide prese di posizione antifasciste rappresentano oggi uno dei pochi casi di quello che un tempo si chiamava impegno civile. Lo ammiro per questo da tanti anni e a maggior ragione il suo articolo mi ha sorpreso per tre motivi. Uno, Raimo sostiene che la formazione degli scrittori e la salute del settore editoriale siano questioni centrali. Due, una questione centrale c’è davvero ma Raimo non sembra vederla. Tre, l’articolo tenta di conciliare l’inconciliabile e questo lo rende confuso, a tratti difficile da seguire.
Raimo è uno scrittore colto. Nel suo orizzonte ci sono Joyce e De Felice, non il cinema dei fratelli Vanzina. Per questo è sorprendente che nel parlare di scrittura pensi all’editoria aziendale (che da decenni mercifica e standardizza la scrittura banalizzandola) e ne impieghi la lingua (“la filiera dell’industria editoriale”) come se fosse un intellettuale organico nel senso di Gramsci. Per Raimo chi scrive è un addetto di settore, un “pezzo” da formare a scopi industriali nell’ambito della filiera così come il libro va promosso tramite il marketing. Chi conosce le pratiche dell’industria editoriale sa bene quanto poco abbiano a che fare con la letteratura: ci sono agenti che discutono preventivamente la trama con gli autori, redattori che premono per eliminare passi potenzialmente scoraggianti, amministratori delegati che approdando all’editoria dichiarano di voler mettere la propria esperienza al servizio della promozione del brand. “Our portfolio is particularly exciting, with a wider selection of books than usual”, dicono le newsletter degli editori; presto – se non sta già avvenendo – l’intelligenza artificiale verrà usata per le traduzioni e per creare intrecci. Questa mercificazione industriale è in corso da decenni, il suo ambito specifico viene chiamato “la cultura” e il suo progresso è inarrestabile. Non è questo a sorprendere ma il fatto che anche un intellettuale come Raimo arrivi a identificare scrittura e industria editoriale, lettura e vendita, prosperità del capitalismo aziendale e progresso sociale.
Nell’ambito di una “filiera” un calo di fatturato va letto in termini economici e industriali: la veste dell’umanista preoccupato, che deplora la scarsa attitudine degli italiani alla lettura e denuncia l’inevitabile regresso di una società che non legge, finisce per avere qualcosa di involontariamente oscurantista.
In realtà non è affatto ovvio che più case editrici significhino più lettura, né che la salute della “filiera” comporti una società migliore. Anni fa Gianluigi Simonetti scrisse sul Sole 24Ore che le pubblicazioni di narrativa italiana erano aumentate del 1800% rispetto a venticinque anni prima: ciò non significa che per ogni cento scrittori/scrittrici del passato ce ne siano oggi milleottocento, significa che il libro è una merce industrialmente prodotta e che come tale è soggetto alle oscillazioni del mercato (“due milioni netti di libri in meno, un calo di fatturato di 31 milioni”, si rammarica Raimo come se fosse anche lui un consigliere d’amministrazione).
In tale contesto il calo di vendite indica una crisi di sovrapproduzione alla quale l’industria reagisce abbassando il prezzo della merce e contestualmente, se possibile, il costo della forza-lavoro necessaria a produrla; i periodi in cui il costo di produzione è superiore al prezzo di mercato sono compensati dai periodi in cui il prezzo torna a superare il costo grazie all’innovazione tecnologica, una grande azienda è per ovvi motivi meglio attrezzata a superare le oscillazioni del mercato e le crisi. Qualora infine il mercato persista in una fase critica, gli investimenti si ritraggono dalla produzione di quella merce per dirigersi in altri settori. Nell’ambito di una “filiera” un calo di fatturato va letto in termini economici e industriali: la veste dell’umanista preoccupato, che deplora la scarsa attitudine degli italiani alla lettura e denuncia l’inevitabile regresso di una società che non legge, finisce per avere qualcosa di involontariamente oscurantista.
Altrettanto oscurantista, o fuorviante, è il lungo excursus storico e letterario con cui Raimo ripercorre lo sviluppo dell’editoria, della politica e del capitalismo in Italia a partire dal 1994, anno di fondazione della scuola Holden di Torino e della “discesa in campo” di Berlusconi. Raimo menziona la fine del rigore tragico novecentesco, il crollo dei regimi e delle vecchie ideologie, il disimpegno, l’ironia postmoderna. Mentre l’ideologia neoliberale antepone l’individuo alla società, mentre la filosofia rinuncia alla ricerca dell’essenza e si volge al relativismo scettico, la letteratura riscopre la narrazione: Wu Ming inaugura il progetto letterario-politico di una nuova epica italiana, Baricco si volge allo “storytelling” perché “condivide questa visione che, in nome della laicità e del postmoderno, sostituisce la narrazione all’interpretazione come modello principale per aver a che fare con il mondo”. Lo storytelling – cui viene qui conferita la dignità di pendant letterario della riflessione filosofica postmoderna – è inteso da Raimo da un lato come ritorno al narrare dopo il secolo delle avanguardie, della frantumazione formale e dell’opera aperta, dall’altro come giornalismo narrativo di cui Baricco (che Raimo cita lungamente) è stato in Italia un pioniere. Se come giornalismo narrativo lo storytelling si fa promotore di una liberazione dalla pesantezza degli articoli scritti secondo canoni novecenteschi, come recupero della narrazione letteraria esso, a detta di Raimo, si rivela dotato di potere politico: “Le storie hanno un potere. Un potere di liberazione estetica, per Baricco; un potere di emancipazione politica per Wu Ming. Quello che ovviamente non era stato preso in considerazione era che la consapevolezza del potere delle storie viene incamerata presto dal capitalismo più aggressivo”.
Avanguardie a parte, la letteratura ha sempre raccontato storie: in epoca moderna a queste storie è stato dato in Italia il nome di romanzi, poi di narrativa; oggi l’editoria aziendale mutua per lo più i termini inglesi “fiction” e “storytelling”.
In questo senso la ricostruzione di Raimo – lo storytelling liberatorio e antagonista delle origini viene in seguito fagocitato dal capitalismo che lo piega ai propri interessi – è dissonante perché contrappone quanto è in realtà affine: da un lato il capitalismo mediatico odierno che scopre e incamera il potere della narrazione, dall’altro lo storytelling estetico e politico lanciato dall’editoria degli anni Novanta. Invece lo storytelling, come risorsa tecnico-retorica rivolta a un pubblico di massa, è stato fin dall’inizio organico a quell’editoria che proprio negli anni Novanta cominciava a diventare aziendale: è una modulazione capitalista del racconto (il racconto-merce ideale) così come il “flusso” digitale odierno è modulazione capitalista delle poetiche avanguardistiche (“il paradigma del senso, scientifico, logico, narrativo, rischia di venire sostituito dalla frammentazione, la ricerca della verità dalla nonverità, la critica dall’eristica, il senso dal nonsenso”, scrive Raimo parlando del capitalismo digitale).
La stessa ambiguità appare nei testi di Baricco citati da Raimo: lo storytelling degli anni Novanta, quello fatto da Baricco stesso su commissione di Ezio Mauro, è stato lodevole perché metteva fine alla noia del giornalismo novecentesco, il capitalismo mediatico-digitale invece lo ha impiegato a scopi perversi. Ma Ezio Mauro, al pari della narrativa aziendale, è già capitalismo editoriale che si avvale dello storytelling, anche se nel mistificatorio resoconto di Baricco diventa “un genio”: “Se sai gestire lo storytelling puoi anche anticipare un fatto di un paio di giorni, ma anche di una settimana. Se sei molto bravo un mesetto prima guarderanno la cometa che non c’è neanche ma è come se la vedessero. Ma non perché sono scemi. No. Perché tu sei bravo in quella circostanza lì” (Baricco citato da Raimo).
Rappresentare lo storytelling come una piccola rivoluzione editoriale forse non è falso, ma è stata fin dall’inizio una rivoluzione capitalista, una delle tante. Se proprio deve significare qualcosa che scuola Holden e “discesa in campo” di Berlusconi siano coeve, il parallelo da individuare è quello tra l’incipiente capitalismo mediatico che nel 1994 prende il potere raccontando una storia con parole semplici (“L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato da mio padre e dalla vita il mio mestiere di imprenditore. Qui ho anche appreso la passione per la libertà”) e una modulazione del narrare omologa fin dalle origini agli interessi dell’editoria aziendale, così omologa che oggi la Scuola Holden fa parte del Gruppo Feltrinelli (la “filiera” si è dotata di uno strumento diretto con cui formare scrittori adeguati alle proprie esigenze).
Rappresentare lo storytelling come una piccola rivoluzione editoriale forse non è falso, ma è stata fin dall’inizio una rivoluzione capitalista, una delle tante.
Questa inconciliabilità percorre quasi tutto l’articolo; l’addetto dell’industria vuole anacronisticamente credere che l’editoria aziendale e le tradizionali istituzioni di formazione siano omogenee e osmotiche (“le infrastrutture culturali che pensavamo solide, la scuola, l’università, il sistema bibliotecario, il sistema istituzionale di sostegno all’editoria, vengono costantemente indebolite attraverso definanziamenti e cattiva gestione, mancano di norme che guidino un cambiamento radicale”), l’intellettuale assume toni da umanista in lotta contro l’ingiustizia che hanno in questo contesto qualcosa di stravagante: “la buona battaglia per gli intellettuali o per chi riconosce le ingiustizie e le storture dell’industria culturale è di lottare per la scuola pubblica e l’università pubblica libera e di qualità prima di tutto. È lì che si impara a essere una comunità di lettori, e anche di artisti. E a pensare che questo porti anche a un miglioramento della vita democratica”. È probabilmente a questo conflitto irrisolto che va ascritto il lapsus calami con cui Raimo afferma e al tempo stesso nega che i libri siano una merce (“descrivere il mondo dei libri, della lettura e della scrittura, come un universo felicemente esperienziale, ha eliminato in buona parte l’idea che i libri siano un prodotto diverso dagli altri”).
Quanto alla questione politica: se – indipendentemente dalle oscillazioni del mercato e dalle crisi di sovrapproduzione – è vero che si legge meno (che i libri vengano comprati, rubati, fotocopiati o presi in prestito), quel che dovrebbe interessarci è per quale motivo le persone abbiano meno voglia di leggere, per quale motivo gli insegnanti non possano più persuadere alla lettura e i ragazzi abbiano smesso di consigliarsi libri. Facendo coincidere la crescita spirituale delle persone con la salute dell’editoria aziendale, Raimo non può immaginare che si legga meno anche perché i troppi libri (prodotti standard il cui basso costo di produzione è premessa di maggiori introiti) hanno fatto venir meno la fiducia in chi scrive e in chi pubblica.
La nostra generazione è stata l’ultima a imparare e credere che si diventi scrittori in un difficile percorso personale fatto tra l’altro di tirocinio linguistico e narrativo, esposizione al mondo, resoconto letterariamente sincero, rifiuto del conformismo, sguardo non pregiudiziale; che tutto ciò possa essere acquisito in un percorso formativo scolastico appare in questa prospettiva paradossale e canzonatorio. Agli occhi della nuova generazione invece si è scrittori come si è propagandisti sui social media; alle scuole di scrittura creativa si aggiungono da qualche tempo quelle per influencer e gli stessi media incoraggiano tale nuova percezione banalizzando interessatamente l’arte dello scrivere (anni fa Walter Siti fece notare che le trasmissioni televisive onorano chiunque della qualifica di scrittore: “giornalista e scrittore”, “sindaco e scrittore”, “architetto e scrittore”. Mi sento, commentava Siti, come se mi avessero portato via una cosa alla quale ho creduto per tutta la vita).
Se è vero che si legge meno, quel che dovrebbe interessarci è per quale motivo le persone abbiano meno voglia di leggere, gli insegnanti non possano più persuadere alla lettura e i ragazzi abbiano smesso di consigliarsi libri.
Impressionante, ai fini della presente riflessione, è lo sviluppo parallelo, industrialmente condizionato, dell’editoria scientifica e di quella letteraria. La crescita esponenziale delle pubblicazioni che si accompagna alla loro banalità e inutilità, la priorità data al profitto, l’intervento dell’intelligenza artificiale, la fine della fiducia da parte di chi legge. Anni fa un addetto dell’editoria mi spiegò che i ringraziamenti alla fine del romanzo fanno curriculum: più vieni ringraziato e più fai carriera nell’industria (“dove e quanto spesso un ricercatore pubblica, e quante citazioni ottiene il suo contributo, è decisivo per la carriera”, dice l’articolo di cui sopra). Ci sono nel frattempo negli Stati Uniti anche scuole di scrittura creativa per scienziati: una di esse – frequentata da accademici della Cornell University, dell’Imperial College di Londra, del Karlsruhe Institut of Technology e dell’Università di Heidelberg – pubblicizza i propri corsi dicendo “if you incorporate storytelling in your scientific research paper, your reader will find it easier to read and remember. And your journal editor will find a well-written story more persuading than a simple report of the scientific data you obtained. The result? Your scientific paper will be more likely to get published in a top-tier journal when you tell a story”.
Il problema politico è che da decenni l’editoria aziendale ci sommerge di banalità e con questo ha messo fine al rapporto di fiducia tra chi scrive e chi legge (una comunità spirituale è venuta meno senza essere sostituita da una nuova).