

U n’altra donna (1988) è tra i film meno noti di Woody Allen. Racconta la storia di una scrittrice sulla cinquantina che, disturbata dai rumori in casa, affitta uno studio dove lavorare. Nella quiete di quel rifugio si presenta però subito un problema: uno psicanalista riceve i suoi pazienti nell’appartamento accanto, e le loro voci riecheggiano chiare e distinte alle orecchie della protagonista. Colpa di un condotto di aerazione. La scrittrice non può fare a meno di appassionarsi, seduta dopo seduta, ai tormenti di un’altra donna, e questi le risvegliano antichi rimpianti, amletiche riflessioni su di sé, i propri legami, il proprio futuro.
Diario per John di Joan Didion, uscito a fine aprile con la traduzione di Sara Reggiani, ricorda nella forma questo film così poco “alleniano” – basti dire che il direttore della fotografia, Sven Nykvist, era lo stesso di Ingmar Bergman. In parte è sicuramente per l’ambientazione newyorkese, l’atmosfera sospesa eppure grave, in parte è perché la pratica psicanalitica ha un ruolo cruciale in entrambe le opere – il Diario, infatti, è il resoconto delle sedute di Didion con lo psichiatra Roger MacKinnon fra la fine del 1999 e i primi giorni del 2002 –, ma soprattutto perché in entrambi i casi i pensieri della voce narrante sono incalzati dalla presenza, distante eppure incombente, di una donna più giovane, capace di mettere in dubbio tutte le certezze.
I genitori hanno fatto di tutto per proteggere la figlia adottiva Quintana Roo dall’abisso del mondo, ma poi è stato l’abisso a farsi strada dentro di lei.
In Blue Nights, pubblicato nel 2011 (trad. it. 2012), Didion ricostruisce la vita della figlia da quando era una bambina dalle ginocchia paffute fino alla morte, avvenuta nel 2005 per le conseguenze di una pancreatite. Quintana aveva allora trentanove anni. Blue Nights è il controcanto cristallino, colmo di sgomento e sofferenza eppure capace di rifulgere come l’aria di settembre, di Diario per John, che invece è duro e pesante, costruito a partire da un grumo di dolore compatto come un monolite. Le sedute ripercorrono la storia famigliare di Didion a partire dal rapporto con il padre, depresso e “quasi sempre ubriaco”. “Penso che sia cresciuta con la convinzione di essere sull’orlo del disastro”, le dice MacKinnon, “Di essere sempre sul punto di perdere suo padre. Credo che si sia preparata alla perdita di suo padre per tutta la vita”. E ancora: “C’è qualcosa dentro di lei – qualcosa che risale a molto prima della nascita di Quintana – che l’ha convinta di non meritare cose buone. Sono sicuro che abbia pensato di essere molto fortunata quando vi hanno affidato Quintana, e sono anche sicuro che abbia pensato di non meritarlo, che in un certo senso meritava di perderla. Lei è cresciuta, chissà perché, aspettandosi che accadesse il peggio. Di cose buone non se ne aspetta. Non è geneticamente predisposta alla negazione”.
Di fronte alla meticolosa autodistruzione messa in atto dalla figlia, Didion si ritrova persa, improvvisamente fragile, incastrata nella dialettica feroce fra il desiderio di proteggere la figlia e il dubbio assillante di averla soffocata sotto una campana di vetro per tutta la vita. “Ho detto che non capivo dove finiva l’istinto di protezione e iniziava la mania di controllo. Agli occhi di un genitore erano la stessa cosa”, scrive. Gli appunti di Didion sono un labirinto animato dai sensi di colpa (la parola “colpa” compare 91 volte) e dagli interrogativi che ossessionano chiunque abbia un alcolista in famiglia e si domandi perché abbia cominciato a bere, come si possa aiutarlo, e se non ci sia forse qualcosa di sbagliato che circola nel DNA condiviso, dove stia la falla, il buco. Joan Didion e Quintana Roo Dunne non erano legate dal corredo genetico, ma questo non sollevava l’autrice da un altro senso di responsabilità, anche più opprimente.
Di fronte alla meticolosa autodistruzione messa in atto dalla figlia, Didion si ritrova persa, improvvisamente fragile, incastrata nella dialettica feroce fra il desiderio di proteggere la figlia e il dubbio assillante di averla soffocata sotto una campana di vetro per tutta la vita.
C’è l’esasperazione che si arriva a nutrire verso una persona amata che soffre di dipendenza: “Ho detto che questo fine settimana”, scrive Didion con una lucidità spietata, “era successa una cosa che mi aveva fatto così male che a malapena riuscivo a dirla: mi era capitato più volte di pensare che lei non mi piaceva. Per tutta la vita avevo tenuto alla larga gente che poteva causarmi guai. Li avevo tagliati fuori. Con Quintana non potevo permettermelo”. C’è il disorientamento di fronte ai terapeuti che asseriscono che il modo migliore per allontanare il depresso dai suoi propositi suicidi è fare leva sul senso di colpa, salvo poi affermare che “darle la responsabilità di vivere per mantenere in vita i genitori non avrebbe aiutato”. C’è il timore di una madre che vede scivolare via la figlia, la consapevolezza che “così come tutti i figli adottati vivono nel terrore di essere ridati via, tutti i genitori adottivi vivono nel terrore che il figlio gli venga tolto”.
“È un inferno quello che lei e suo marito state attraversando”, chiosa MacKinnon,
Ai vostri occhi niente di quello che fate è giusto. Andate a portarle il cellulare, la prende come un’invasione del suo spazio. Non andate, si sente abbandonata. Non sapete nemmeno cosa le passi per la testa. Potete soltanto amarla. Non potete salvarla. È arrivata da voi con un corredo di possibilità genetiche, anche negative, su cui non avete alcun controllo. L’abuso di sostanze va a braccetto con la depressione, e la depressione ha una componente genetica. L’ambiente ha il suo ruolo, ma non è tutto.
Il dialogo con lo psichiatra è riportato con tale precisione da far pensare che Didion usasse un registratore durante la terapia, o che poi, una volta a casa e in puro stile giornalistico, ricostruisse la cronaca delle sedute come se si trattasse di un dialogo con la parte più lucida della propria coscienza, senza mai lasciarsi andare a considerazioni accidentali, a commenti estemporanei – il che suggerisce che il “tu” a cui si rivolge sia, forse, un espediente. MacKinnon stesso appare così privo di caratterizzazioni e al tempo stesso così controllato, imperturbabile, da ricordare Socrate dei dialoghi platonici, impegnato in un lavoro maieutico di accompagnamento e scoperta della verità ultima che si cela dietro a tanto struggimento.
Il dialogo con lo psichiatra è riportato con tale precisione da far pensare che Didion usasse un registratore durante la terapia, o che poi, una volta a casa ricostruisse la cronaca delle sedute come se si trattasse di un dialogo con la parte più lucida della propria coscienza.
Quello della pubblicazione post mortem degli scritti nati per uso privato è un argomento delicato e che pone degli interrogativi morali a cui non è facile trovare una risposta definitiva. Se da un lato è infatti chiaro che divulgare materiale senza l’esplicito consenso dell’autore significa violare uno spazio su cui chiunque scriva non vorrebbe mai perdere il controllo – tanto più, verrebbe da dire, un’autrice meticolosa come Didion, che in un articolo del 1998 si era espressa con scetticismo riguardo alla pubblicazione di alcune opere postume di Hemingway –, dall’altro non si può negare che alcuni di questi scritti abbiano un valore importante, non solo in termini letterari ma anche di completezza e comprensione di un corpus.
È proprio nello scarto rispetto alla perfezione formale delle altre opere che risiede la potenza di questo scritto postumo, in una scrittura spogliata dell’imbarazzo che procede dallo sguardo altrui, e che si lascia invece scorrere per quello che è, cruda e vertiginosa.
“Quintana non è una cosa di cui possa parlare direttamente”, scrive Didion in Blue Nights, eppure qui lo fa. È proprio nello scarto rispetto alla perfezione formale delle altre opere che, io credo, risiede la potenza di questo scritto postumo, in una scrittura spogliata dell’imbarazzo che procede dallo sguardo altrui, e che si lascia invece scorrere per quello che è, cruda e vertiginosa.