

N on tutti ricordano che Giacomo Leopardi era affascinato da un tipo particolare di macchine: quelle che simulano la vita. Nella Dissertazione sopra l’anima delle bestie (1811) si trovano rievocati con entusiasmo alcuni celebri automi (l’“aquila, e la mosca volante di Regiomontano, il capo di creta di Alberto Magno, l’automa ambulante del prigione di Marocco”) non solo in virtù dei loro movimenti, ma pure per la loro capacità di riprodurre “alcuni segni o di dolore, o di piacere, o di allegrezza o di mestizia” così tipici dell’uomo. Anche nello Zibaldone Leopardi ritorna spesso sul tema della macchina: a volte come metafora del potere (il mondo moderno ormai funziona come “quelle macchine che si muovono per molle occulte”), a volte come paragone con la guerra, la natura o gli animali (che “se non fossero liberi sarebbono macchine pure”).
Fra i passaggi più interessanti in tal senso spiccano quello del 23 maggio 1821, dove gli “inconvenienti accidentali nell’immenso e complicatissimo sistema della natura” vengono paragonati ai guasti di una macchina che, pur “bene e studiosamente fabbricata”, a un certo punto smette di funzionare, e quello del 4 ottobre 1821, quando per parlare del bello (anzi, del “meccanismo del bello”) Leopardi sembrerebbe citare una pagina dell’Homme-machine (1747) di La Mettrie. Scrive, infatti: “Scomponete una macchina complicatissima, toglietele una gran parte delle sue ruote, e ponetele da parte senza pensarvi più”; poi “ricomponete la macchina, e mettetevi a ragionare sopra le sue proprietà, i suoi mezzi, i suoi effetti”: vi renderete conto, dice, che, senza le sue ruote, anche se “vi sforzate di spiegare gli effetti della macchina dimezzata, come s’ella fosse intera”, semplicemente “la macchina non è più quella”.
Leopardi nello Zibaldone paragona gli “inconvenienti accidentali nell’immenso e complicatissimo sistema della natura” ai guasti di una macchina che, pur “bene e studiosamente fabbricata”, a un certo punto smette di funzionare.
Il continuo esercizio de’ nervi e muscoli del capo, senza il corrispondente esercizio di quelli delle altre parti del corpo, produce quello squilibrio totale nella macchina, che è la rovina infallibile degli studiosi, come io ho veduto in me per così lunga esperienza.
Care mie anime, vede Iddio ch’io non posso, non posso scrivere: ma siate tranquillissimi: io non posso morire: la mia macchina (così dice anche il mio eccellente medico) non ha vita bastante a concepire una malattia mortale.
Anche Lo sbilico (2025), l’ultimo libro di Alcide Pierantozzi, racconta il cedimento di una macchina. Il corpo del personaggio-autore è infatti descritto ora come un dispositivo medico (le diagnosi lo risignificano continuamente), ora come un oggetto residuale, desueto, in cui le funzioni vitali vengono narrate come semplici leve, pulsanti, e l’organismo è retto da un insieme di forze meccaniche che non procedono più in armonia.
Mi sdraio sul letto e rimango da solo nella stanza. Tra i rumori illocalizzabili del mio corpo comincio a sentire un cigolio di pulegge. Devono essere pulegge, a meno che non mi fischino le ossa. Sono i paranchi delle mie corde vocali che accompagnano un piccolo ascensore lungo il tubo dell’esofago (pp. 23-24).
“Quel giorno sono andato in tilt”, confessa all’inizio del suo testo l’autore, ed è la prima di molte occorrenze della paura “leopardiana” di cui si è parlato, e che procede cronicamente ‒ e struttura il libro stesso ‒ nella forma di una spirale infetta: quella di un helicobacter. Esteriorizzata e rimodulata poi narrativamente in quel tentativo di mandare in tilt l’impianto di climatizzazione della palestra in cui Pierantozzi osserva il proprio corpo procedere o incepparsi, affermarsi o scomparire, l’immagine della macchina impazzita attraversa infatti tutto il libro come la risposta plastica (disumanizzante: un alibi?) di fronte a un uomo, un figlio, un paziente, un omosessuale, uno scrittore, che per quanto studiosamente fabbricato (diceva Leopardi) non sa funzionare a dovere.
Il corpo del personaggio-autore è descritto ora come un dispositivo medico, ora come un oggetto residuale, desueto, in cui le funzioni vitali vengono narrate come semplici leve, pulsanti, e l’organismo è retto da un insieme di forze meccaniche che non procedono più in armonia.
“E lì saltò il turacciolo”. Più che singoli cortocircuiti, il testo descrive allora uno squilibrio totale nella macchina, come si legge ancora nella lettera di Leopardi al padre. Il corpo di Pierantozzi, nel suo sforzo di autosostentarsi, diventa il centro propulsore di una “prospettiva distorta del mondo” ancora più che di una “grave forma di bipolarismo anancastico”; di un tragicomico e pervasivo culto del controllo in controluce del vetrino-feticcio della (propria) vita: dal cuore alla sudorazione notturna, dalla digestione alla concentrazione plasmatica, dove spesso è il pensiero stesso che produce il corpo, e non viceversa. “Forse l’inganno sarà stato credere di avere avuto un cervello malmesso, quando invece sono stati i miei pensieri a inventarsi il mio corpo”.
Uno degli aspetti più interessanti della resa biomeccanica del personaggio Pierantozzi è in effetti proprio questo: che il corto circuito si verifica non tanto nel funzionamento dei muscoli, degli arti, delle ossa, ma del cervello. Non solo perché è il pensiero che genera la paura ipocondriaca prima e l’idea fissa dopo (“Non sanno che quasi sempre è per una sovrabbondanza di logica che vado in tilt: in questi casi provare a convincermi di una cosa anche semplicissima può diventare un’impresa”), ma perché è proprio di quel lavorìo instancabile, meccanico e ingestibile (“Quando i troppi pensieri entrano in collisione, ciascuno con la propria risonanza lirica”), che si nutre lo sbilico.
Quando qualcosa sparisce, il mio cervello va in tilt. Quando ho mal di gola, il mio cervello non prevede la guarigione, non vede oltre lo stato presente. Se una giornata finisce, non riesco a capire che ne comincerà un’altra. Vivo lo sbilico e nello sbilico delle cose (p. 112-113).
“Io sono un dente nella bocca di mia madre”, scrive Pierantozzi. Ma se lui è (o vorrebbe ‒ nuovamente ‒ essere) dentro sua madre, come un anti-Pinocchio dentro una balena (potrebbe uscirne ma non sa e non vuole farlo), chi e cosa è la sua colpa per esserci finito?
Il senso di colpa verso mia madre mi spreme, m’inzuppa […]. Per me il senso di colpa è tutto, e sarà il traguardo della mia malattia. Forse quel giorno sparirà la sensazione che ogni cosa della mia vita sia avvenuta per finta. Si farà strada la certezza che l’unica esperienza falsa è stata quella della malattia. Sentirò di meritarmi, finalmente, la visione di questi scogli rugosi e gonfi di patelle, sentirò di meritarmi questa luce accarezzante che aumenta e magari farò un tuffo, una schizzata, un urlo di sollievo. […] Le brevi transizioni fra un dolore e l’altro avranno una qualità accresciuta. Già le conosco, queste pause. Rappresentano un grande mistero. Sono momenti brevissimi e casuali, come i minuti di recupero tra una serie di esercizi e l’altra in palestra. Sembrano un sistema collaudato dal corpo, che senza questi cedimenti morirebbe subito (p. 159).
Tra i pensieri schiodati del protagonista una cosa è chiara: il rapporto con la madre mima una dinamica rassicurante ma al tempo stesso anche persecutoria e perturbante.
Mi sono da poco addottorata all’Università di Siena con una tesi sui personaggi femminili artificiali nella letteratura e nel cinema del Novecento italiano, e uno dei topoi più ricorrenti è proprio quello evidenziato da questa Operetta: gli automi letterari (i personaggi fabbricati all’interno di un testo e/o raccontati attraverso insistite metafore meccaniche) sono sostituti di qualcosa o di qualcuno. Non che siano necessariamente sempre loro copie (a volte sono anche ideali che la forma robotica, più o meno tecnologica, prova a incarnare), ma rappresentano ogni volta lo sforzo più o meno consapevole di sostituire, cristallizzandolo in un corpo meccanico, un lavoro e/o un’istanza particolare.
Pierantozzi, come Leopardi, sa che il danno alla macchina non è solo fisico, ma anche semantico. Se l’uomo è macchina, allora anche il romanzo lo è. E quando il romanzo va in panne, resta solo la voce (la parola, il sinonimo) e la sua dichiarazione di impotenza.
Quel sonno imposto, che all’inizio credevo fosse solo una scusa per allontanarmi, in realtà era compensatorio della mia morte: mamma mi voleva addormentato per sempre, tanto che io sospettavo una coincidenza sinistra tra il mio corpo e quello morto del mio fratellino, andavo in sovrimpressione con lui immaginando di dormire nel primo loculo in alto a destra, piccolo perché nella parte del cimitero riservata ai bambini. Anche io avrei potuto avere un nome qualunque inciso sulla lapide, con la data di nascita e di decesso distanti appena due giorni (p. 115-116).
Per riparare con le parole mio fratello sto già ordinando gli attrezzi su Amazon. Sono sorprendentemente economici. […] Devo stare attento a molte cose: a non legare troppo stretto, né troppo leggero. Per la testa meglio fare cuciture a sutura continua, […] che trattengano il cervello nei piani profondi, poi andrà usato il mastice per rinsaldare le ossa craniche segate. Dovrò ricucire anche le parti interne: il cuoricino, il fegato, i polmoni – e usare, per questi organi, un rocchetto di filo colorato. […] Io sono qui per riparare un ricordo (pp. 206-208).
Avevo ventisette anni, qualche disturbo psichico ancora gestibile e un libro, il mio terzo, a poche settimane dall’uscita. Il mondo, però, si era circoscritto intorno a mia madre e al suo seno, al punto che il romanzo è scomparso dai miei pensieri: ho sentito un’inaspettata urgenza di materialità, di tangibile, di corporeo (p. 4).
Non saprò mai che significa vedere il mondo nei suoi nessi di causa ed effetto e non per immagini isolate. Tradurre in parole ciò che vedo e ciò che ricordo, anche quando scrivo, è difficilissimo. Le immagini per me sono veli di cipolla sparsi su un tavolo, sotto una lampada, separati tra loro. Sottilissimi, fatti con una carta velina prossima all’invisibilità, membrane d’aria che osservo una alla volta e di cui assorbo ogni dettaglio e venatura. Non riesco a vedere la cipolla per intero (p. 112).
Tuttavia, se da una parte è innegabile che Lo sbilico sia, come avrebbe detto Leopardi, una macchina bene e studiosamente fabbricata che, a un certo punto, ha smesso di funzionare, è anche vero che pezzo dopo pezzo, tic dopo tac, Pierantozzi ci prova. C’è bisogno di molte pagine, ruminazioni, dati e medicinali, cioè di molte “parole medicamentose”, perché il testo dello Sbilico riesca a forzarsi in questa operazione di ricucitura plastica e metaforica insieme: insomma, romanzesca. Il libro sul tentativo di ricucire a parole il fratello che Pierantozzi stenta a definire romanzo è allora in realtà un romanzo al quadrato che ha ingannato la malattia per qualche ora: un metaromanzo, dove il corpo mostruoso da resuscitare faticosamente, con fili gialli e verdi e sinonimi accurati, è proprio quello della letteratura finzionale. Anche gli ingranaggi rotti, se ascoltati con attenzione, sanno ancora fare rumore (o, almeno, sanno perseguitare).
Non appena avrò fatto rientrare nel corpo di mio fratello ciò che faceva ernia, che faceva appendice, sentirò di averlo riscritto tutto. Allora il mio sistema nervoso sarà ingannato crudelmente dalle allucinazioni, non ricorderò cosa ho fatto e se l’ho fatto davvero, e della verità maledetta non resterà nemmeno una traccia (p. 208).