A trent’anni dalla scomparsa e a cento dalla nascita di Gilles Deleuze, è apparso Divenire rivoluzionari.e. Gilles Deleuze, Félix Guattari e noi (2025) di Roberto Ciccarelli presso DeriveApprodi. Il timing della pubblicazione potrebbe far pensare a un libro commemorativo o ancora a un’introduzione alla filosofia deleuzo-guattariana. Senz’altro vi è un po’ di entrambe le cose. Ma questo è innanzitutto un libro che va letto al termine o all’inizio di un’assemblea. Durante l’occupazione di un liceo o di una facoltà contro il genocidio del popolo palestinese. O ancora la sera prima di scendere in piazza contro l’ultima trovata del governo. Perché l’intenzione di Ciccarelli è chiara dalla prima pagina: fermarsi un attimo, guardarsi attorno e dire “abbiamo un problema”.
Abbiamo innanzitutto il problema dei fascismi e delle guerre. Ma abbiamo anche un altro problema, da cui forse discendono tutti gli altri: ci siamo dimenticati quanto sia desiderabile una rivoluzione. Non l’attesa messianica dell’ora X che ci salverà tutti o perfino l’intervento di un qualche esercito comunista intergalattico; no, quella pensata da Deleuze e Guattari e rilanciata oggi da Ciccarelli è una rivoluzione che passa dal divenire-rivoluzionari.e.
È nell’intermezzo tra una sussunzione e una separazione dal potere che si accende un altro divenire rivoluzionari.e. Lo si inizia a praticare nel mezzo, tra linee divergenti. Nulla è scontato, né automatico, nessuna strategia è totale, nessuno scontro è finale. Tuttavia avvengono svolte profonde che possono spezzare un divenire e porre fine a una storia.
Fascism is in the air
“Il fascismo è nell’aria”, le sue molecole vorrebbero toglierla e confiscarla. Al governo in diversi Paesi, non solo il nostro. Nei centri di detenzione e di espulsione. Nelle scuole e nelle università. Sui luoghi di lavoro. Da un lato e dall’altro dell’Atlantico, senza risparmiare l’America Latina di Javier Milei. Eppure mai è stato così difficile dire e comprendere quella che Ciccarelli chiama la “parola F”. La difficoltà nasce, spiega, dal “successo” dell’occupazione neoliberale della “dialettica tra rivoluzione e divenire rivoluzionari” con l’intento di ridurla agli assiomi del mercato. Così non sono soltanto le istanze di libertà e le loro lotte che si sono “molecolarizzate”, ma anche il fascismo. Una vera e propria appropriazione “dei concetti e del senso delle azioni dell’avversario per ribaltarle nel loro contrario, facendo così collassare i divenire rivoluzionari.e che circolano nelle forme di vita normalizzate”. È da qui che si sviluppa quel carattere intrinsecamente contraddittorio del neoliberalismo, insieme rivoluzionario e conservatore, reazionario e controrivoluzionario.
Abbiamo il problema dei fascismi e delle guerre. Ma abbiamo anche un altro problema, da cui forse discendono tutti gli altri: ci siamo dimenticati quanto sia desiderabile una rivoluzione.
È in questo senso che Divenire rivoluzionari.e segna l’emergenza dei microfascismi contemporanei negli anni Settanta più che negli anni Venti o Trenta, sottolineando la loro organicità alla (contro)rivoluzione neoliberale. Nelle pieghe del percorso storico tortuoso dei neoliberalismi, Ciccarelli conduce il lettore e la lettrice al cuore delle sue contraddizioni seguendo la sua triplice rivoluzione autoritaria sviluppata contro quel lungo decennio di lotte e di sperimentazione che chiamiamo 1968. Per questo Ciccarelli definisce il neoliberalismo innanzitutto come una rivoluzione “dall’alto condotta dalle classe dirigenti nutrite da egoismi territoriali e da impulsi anticostituzionali e antiparlamentari”. Si tratta allo stesso tempo di una rivoluzione “capitalista ostile alla democrazia intesa come istanza della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia” che si articola a una terza rivoluzione, questa volta “classista, sessista e razzista che coltiva il risentimento contro gli oppressi, gli sfruttati, le differenze sessuali e gli erranti fra le frontiere”.
Il merito del libro di Ciccarelli è, da questo punto di vista, di ritornare alla fine di Mille piani (1980), dove l’analisi storica dei neoliberalismi si intreccia con la storia politica degli anni Settanta. A differenza di altri tipi di analisi, quella di Deleuze e Guattari è capace di mettere in risalto il carattere antiliberale dei neoliberalismi, che vengono intesi innanzitutto come delle varianti del progetto capitalista di farla finita con le aporie dei liberalismi. Tra democrazia e individualismo, interesse collettivo e profitto d’impresa, diritti fondamentali e libertà imprenditoriali, i neoliberalismi, già nelle loro teorizzazioni degli anni Venti e Trenta, non cercano più delle mediazioni.
Ecco perché i primi terreni di sperimentazione delle teorie neoliberali non potevano che essere le dittature militari che falcidiarono le popolazioni sudamericane negli anni Settanta. Dal golpe brasiliano del 1964, passando per il Cile di Pinochet (1973) fino all’Argentina di Videla (1976), il neoliberalismo si è imposto come dottrina politica, economica e sociale della guerra alla democrazia, alle mediazioni istituzionali del movimento operaio, delle differenze sessuali, in un mix di disprezzo totale dei diritti, senza alcuna distinzione fra quelli sociali, civili e politici delle popolazioni prese in ostaggio. Ciccarelli ricorda giustamente l’appoggio concreto della Scuola di Chicago alla dittatura cilena, l’esultanza del neoliberale Wilhelm Röpke alla notizia del golpe brasiliano e l’omaggio di Friedrich Hayek al fascista portoghese António de Oliveira Salazar. Questi processi sono spesso associati nell’immaginario collettivo a delle sorte di colpi di coda di vecchi incubi fascisti che resistevano a un mondo nuovo di libertà e diritti. Oppure, nel migliore dei casi, sono appiattiti alle difficoltà dei processi di decolonizzazione, a cui certo sono legati. Il libro di Ciccarelli è appunto uno strumento per andare oltre tali confusioni, sia storiche che contemporanee. L’autore mostra infatti come le dittature degli anni Settanta, assieme a quelle che le hanno precedute di qualche anno, non possano essere dissociate né dalle guerre civili in seno all’Europa (Italia e Germania in testa), né dalla finanziarizzazione dell’economia mondiale.
Ciccarelli conduce al cuore delle contraddizioni dei neoliberalismi seguendo la triplice rivoluzione autoritaria sviluppata contro quel lungo decennio di lotte e di sperimentazione che chiamiamo 1968.
Cattivo gusto a parte, il neoliberalismo fascista di Trump che emerge dalle pagine di Ciccarelli è figlio della lunga storia americana e mondiale inaugurata da Richard Nixon e Ronald Reagan. Ovvero quel particolare momento della storia mondiale in cui la rottura degli accordi di Bretton Woods (1971) e la seguente finanziarizzazione dell’economia mondiale si articolano alla moltiplicazione dei fronti di guerra, esterni e interni (come la War on drugs). Non è neanche un caso che, come mostra The Apprentice (2024) di Ali Abbasi, proprio in quegli anni il giovane Trump incroci sul suo cammino, mentre speculava sulla New York falcidiata dal debito pubblico, l’avvocato fascista Roy Cohn, già sperimentato inquisitore al fianco di Joseph McCarthy.
Divenire rivoluzionari.e. O una nuova idea di rivoluzione
L’ostacolo più grande per Trump e accoliti ha una data che è anche un nome comune globale: 1968. Neoliberali e nuovi fascisti ne sono ossessionati. Moltiplicano i suoi nomi per distaccarlo dalla ricchezza esistenziale e politica, culturale e artistica che ha sconvolto, ai quattro angoli del mondo e per un lungo decennio, la storia del capitalismo mondiale aprendo a nuove direzioni di liberazione politica, sociale, economica, sessuale. Terreno per eccellenza delle Cultural wars neoliberali dagli anni Ottanta, il pensiero-1968 è stato prima mercificato e svuotato nella forma della French Theory, per poi essere identificato come la radice dei mali contemporanei. Sotto il nome di “decostruzione”, l’insieme delle teorie e delle ricerche di Deleuze e Guattari, Foucault e Derrida sono state perfino l’oggetto di un convegno organizzato nel 2022 alla Sorbona (Cosa ricostruire dopo la decostruzione?) a cui ha preso parte il ministro francese dell’educazione dell’epoca Jean-Michel Blanquer. Era il tempo delle statue di Cristoforo Colombo distrutte o sfregiate negli Stati Uniti nell’ondata di mobilitazioni seguite al movimento Black Lives Matter, contro cui i think tank dell’Alt-Right hanno elaborato la categoria della Cancel Culture e poi del Woke. Salvo poi praticarla dall’alto e loro stessi, questa cultura della cancellazione, prima attraverso il definanziamento delle ricerche “progressiste” nelle università americane e poi delle esposizioni in numerosi musei, per finire con l’eliminazione vera e propria di numerosi siti scientifici precedentemente finanziati dal Congresso.
L’ossessione dei neoliberali e dei fascismi molecolari per il 1968 si spiega, alla luce della ricerca di Ciccarelli, per la potenza di trasformazione che esso ha liberato. Quel lungo decennio di lotte e nuovi sviluppi del pensiero critico ha posto le condizioni di possibilità per andare oltre il sempiterno problema del fallimento delle rivoluzioni e pensare dei nuovi inizi. Un’idea che Deleuze sintetizzò nell’Abecedario girato da Pierre-André Boutang e pubblicato postumo: “che le rivoluzioni falliscano, che finiscano male, non ha mai fermato la gente, non ha mai impedito che la gente diventasse rivoluzionaria” (Abecedario, voce “Sinistra”). Gli anni-mondo 1968 indicano infatti per Ciccarelli, così come per Michael Hardt nel suo recente I Settanta sovversivi (2025), il terreno su cui è emersa una nuova maniera di intendere e praticare il problema della rivoluzione.
Problema che, a partire da ciò che Ciccarelli e Hardt considerano il ground Zero della nostra politica, consiste nel “dare un’altra consistenza alla molteplicità”. La radicalità della novità degli anni-mondo 1968 è rintracciata nel libro attraverso una “rottura” con i paradigmi organizzativi e desideranti ereditati da altre “rotture” maggiori nel corso della storia dei movimenti operai e rivoluzionari. Identificati spesso con una sorta di post-marxismo, se non proprio con un’epopea del capitalismo neoliberale, Deleuze e Guattari sono considerati qui invece come due filosofi rivoluzionari. In un’intervista con Antonio Negri del 1990, Gilles Deleuze ribadì infatti come sia lui sia Félix Guattari fossero “rimasti marxisti”, prima di aggiungere un prudente “in due maniere diverse forse, ma entrambi”. Il filosofo francese spiegò subito cosa intendeva: “non crediamo a una filosofia politica che non sia incentrata sull’analisi del capitalismo e dei suoi sviluppi”.
Identificati spesso con una sorta di post-marxismo, se non proprio con un’epopea del capitalismo neoliberale, Deleuze e Guattari sono considerati qui invece come due filosofi rivoluzionari.
È quindi questa idea della possibilità e dell’attualità della rivoluzione che pervade l’opera di Ciccarelli. Una rivoluzione che articola, senza sostituirla, alla dualità della lotta di classe (una classe contro l’altra) una molteplicità di forme di lotta e di soggetti che si riscoprono non solo come assoggettati dai poteri e dai saperi, ma anche come protagonisti di processi rivoluzionari. È per questo che Ciccarelli identifica nel divenire rivoluzionari.e un triplice compito ancora non svolto: “la trasmutazione del passivo nell’attivo”, “la trasvalutazione dei valori” e “la riconversione della soggettività capitalistica e del suo desiderio in quella di una soggettività liberata”. Entro questo quadro storico, politico e filosofico, si sviluppa dunque il problema dei divenire rivoluzionari.e oggi. Il libro rilancia così un’intuizione che Marx ha approfondito nei suoi scritti storici sul 1848 e sulla Comune, Lenin nel suo Stato e rivoluzione nel caldo degli eventi del 1917, ma anche Gramsci, Sartre e poi i movimenti decoloniali e transfemministi. Il problema consiste nel vedere nelle molteplicità non una dispersione o ancora una frammentazione, ma il terreno stesso di una reinvenzione della classe.
In tutti questi autori, teorici o ancora rivoluzionari, come nota Ciccarelli, il concetto di classe non è un soggetto naturale, né un’entità statistica da misurare con coordinate socioeconomiche. È invece un soggetto politico in movimento, contingente e per questo sempre in discussione. Quando emerge, c’è una rivoluzione. E non è sempre detto che ci sia. La classe diventa così una formula delle molteplicità, la formula rivoluzionaria delle molteplicità, che si oppone sia alla loro frammentazione sia alla loro messa in concorrenza o addirittura all’accumulazione di identità a cui invita senza sosta la mercificazione delle soggettività. È in questo senso che va intesa la tesi di Ciccarelli secondo cui “la politica non è solo una questione di resistenza, ma di creazione”. La creazione di cui si parla qui è la trasformazione delle molteplicità sociali che è possibile quando un divenire rivoluzionari.e ne incontra un altro:
Il problema è tracciare una linea di massa tra divenire rivoluzionari.e asimmetrici, frammentari e dispersi mentre si consolida un potere che tende a negare la pensabilità di una simile prospettiva e realizza la propria rivoluzione, quella che nega la possibilità delle altre.
Il concetto di classe non è un soggetto naturale, né un’entità statistica da misurare con coordinate socioeconomiche. È invece un soggetto politico in movimento, contingente e per questo sempre in discussione. Quando emerge, c’è una rivoluzione.
Per questo il concetto di “divenire rivoluzionari.e” articola soggettivazione e rivoluzione, in un pensiero-azione cosciente che la prima non è riducibile a una propedeutica della seconda, né che quest’ultima possa risolvere una volta per tutte i problemi di cui è pregna la prima. Una rivoluzione non salva, non basta e certo non estingue i problemi che assillano la storia umana. Ma costituisce senza dubbio un salto (una “rottura”) dentro questa stessa storia, al punto che ci sono date dopo le quali non è possibile porre i problemi come prima: 1789, 1848, 1871, 1917, 1968. Lo stesso problema della rivoluzione muta dentro questa logica e si presenta oggi, nel post-1968, sotto forma del divenire rivoluzionari.e.
Attraverso questo concetto-problema, Ciccarelli propone l’urgenza di armarsi di ciò che Deleuze ha definito in Differenza e ripetizione (1968) “la conquista del potere più alto”, quello di “decidere dei problemi restituendoli alla loro verità”. Il ragionamento di Ciccarelli ruota attorno all’attualità di queste pagine della tesi discussa da Deleuze in una Sorbona ancora sconvolta dagli eventi del maggio 1968, in cui la “guerra dei giusti” è definita come “la lotta pratica” che “non passa per il negativo, ma per la differenza e la sua potenza di affermare”. Differenza che passa a sua volta dalle sperimentazioni di nuovi “blocchi di alleanze”, concetto di Mille piani ampiamente aggiornato da Ciccarelli attraverso il filtro delle teorie decoloniali e transfemministe, capaci di ampliare e approfondire questo “potere” e insieme di creare nuove soluzioni. Come indica la stessa formula del concetto: “divenire rivoluzionari.e”, piuttosto che semplicemente “rivoluzionari”, perché si tratta innanzitutto di un lavoro politico che consiste nel rendere i problemi di ciascuno trasversali alle lotte degli altri e quindi divenire questi altri per poi divenire un’altra cosa ancora. “Futura umanità”, recitava l’Internazionale; più concretamente, direbbero Deleuze e Guattari, cominciamo con un “divenire donna”. Ecco, diveniamo rivoluzionari.e.