PopolariSelezionatiRecensioni
Created with Sketch.
Categorie
LetteratureLinguaggiScienzeSocietà
Menu
Chi siamoAutoriScuolaNido magazineTreccani.it
Seguici
La NewsletterFacebookTwitterRSS
Created with Sketch.
2025 © Treccani in collaborazione con Alkemy
Informazioni legali
Informativa Cookies
Michele Mari
Recensioni
Giacomo Giossi
12.12.2025

I convitati di pietra di Michele Mari

Giacomo Giossi collabora con giornali e riviste.
Share Share

A trocemente comico e felicemente tragico: sembra muoversi all’interno di questi confini l’ultimo romanzo di Michele Mari, I convitati di pietra (2025). Il racconto di un patto e di un gruppo di compagni di liceo. Un accordo feroce che gioca sul futuro e sulla morte di ognuno di loro, una vittoria destinata solo agli ultimi che resteranno in vita, dei sopravvissuti. Sotto la tessitura di una scrittura a tratti volutamente piana e potentemente perfida, Michele Mari offre ai suoi lettori una densissima stratificazione di elementi che in questo breve romanzo vanno anche oltre l’ambito del letterario offrendo un disegno e un’idea del mondo per come è, e per come sarà, tanto efficace quanto inquietante.

I convitati di pietra sembra dialogare direttamente con quello che è l’esordio di Mari nel 1989, Di bestia in bestia, ma in una forma ancora (se possibile) più estrema e formalmente rarefatta. Il mistero orrorifico non si dichiara mai se non nella forma iniziale di uno scherzo, di un gioco che solo successivamente, pagina dopo pagina, rivela pienamente la propria forza mefistofelica. Il gioco infatti contiene sempre un inganno, una perforazione tragica che da banale dubbio/prurito si trasforma in un dolore assurdo e innominabile. Quello che nasce come un accordo fra vecchi compagni di classe, un gioco di società, ecco che assume i toni e forse la volontà inconscia di divenire un’indagine su sé stessi, ma anche sulla presenza del male nella vita di ognuno. Un male che si palesa nelle più indistinte forme, dal sacrificio alla truffa, dall’azzardo alla violenza fisica, e sempre apparentemente in forme prive di ogni ragione o motivazione:

nulla legava le loro vite al di là del fatto casuale e ormai superatissimo di aver fatto parte della stessa classe per un pugno di anni scolastici: certo, c’era la riffa della morte, che però, una volta impostata, poteva prescindere dallo stanco rituale dei simposi, anzi lo doveva, se non altro per una questione di eleganza.

Già perché la tragedia non può avere spazio e sbocco se non è preceduta e sostenuta da un rito sociale fortemente costituito, in questo caso dichiaratamente borghese, che ne certifichi l’eccezionalità e al tempo stesso sollevi il consesso e i suoi astanti da ogni insinuazione di difformità sociale. L’ambito scolastico non è altro che la culla di quella classe dirigente mostruosa e sterminatrice, e al tempo stesso discreta, che Luis Buñuel ha così ben definito e a cui in parte Michele Mari sembra ispirarsi, portando però nei nomi (e soprattutto nei cognomi) dei suoi protagonisti una traccia padana la cui origine è giocosamente letteraria, e restituendo ai lettori una presenza intestinale da tinello gaddiano così come da sofà arbasiniano: “in un salone tappezzato di arazzi e di specchi oltre che di quadri, Rivadeneyra era seduto su un divano rivestito di raso giallo brodé; su due grandi poltrone di forno e alti sedevano la Bathory e Semprini”.
Il mistero orrorifico non si dichiara mai se non nella forma iniziale di uno scherzo, di un gioco che solo successivamente, pagina dopo pagina, rivela pienamente la propria forza mefistofelica.

Se ne intravedono le grandi stanze degli appartamenti in centro, ma anche le finestre piccole dei palazzi d’inizio Novecento, le tradizioni cattoliche e i rimpianti fascisti, la vacuità da rivoluzionari distratti e la polvere di velluti consunti e di stoffe fuori moda. Dunque un po’ Il fascino discreto della borghesia e un po’ Venga a prendere il caffè… da noi: “Questo, in ordine alfabetico, il quadro risultante: Bathory: mastectomia. Brancigalievore: diabete; prostatite. Brodo: Parkinson. Coppo: epilessia. De Cruce: artrite reumatoide; isterectomia. Gaudillo: disfunzione epatica; flebite; safenectomia. Mascolo: gastrointerite cronica; asportazione di un linfonodo. Mercandalli: due stent coronarici e un by-pass. Migliavacca: ovaio politeistico; acufene…”.

Michele Mari immerge i suoi personaggi ultracontemporanei eppure già millenari, in una vicenda che li vede protagonisti fino al 2050. Classe dirigente in disarmo, ma soprattutto classe sopravvissuta a un tempo mai compreso per davvero, così come lo stesso gioco, una tragica riffa che sembra avvilupparsi anno dopo anno come un fenomeno autonomo dentro cui è impossibile cogliere una singola ‒ così come una collettiva ‒ responsabilità. Tutto si muove all’interno di un andazzo casuale, con i protagonisti che si vivono sempre colti di sorpresa, sempre in ritardo, sempre stupiti. Un precipitare indefesso degli eventi che sembra in qualche modo giustificare lo scomposto atteggiamento di questa classe di sconvolti perenni sempre ostinatamente avulsi dal proprio tempo.

E proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di loro. I convitati di pietra assume il tono così anche di una critica esatta e puntuale a una società che nemmeno più sembra in grado di mettere in scena uno spettacolo, un circo Barnum fatto di fenomeni da baraccone in strenuo tentativo di mascheramento. Ognuno ricerca una dignità e insegue un’identità che possano essere riconosciute e validate, accettate e ritenute autorevoli e distinte. Mascheramenti ancor più alienanti della stessa “mostrizzazione” in atto. Un vezzo e un trucco finale che apre inevitabilmente la porta all’orrore e a una violenza che, anche quando non appare conclamata, attraversa le persone, le loro coscienze e i loro corpi, fino a far tremare il sangue nelle vene. Un’estesa provincia urbana priva di discontinuità dentro alla quale ogni relazione sottende una violenza più o meno apparente, un gioco tragico la cui uscita vede solo la possibilità della morte.

Proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di loro.

Il mondo non si distingue da una scuola, con le sue regole e le sue campanelle a conclusione di ogni ora, così come i suoi giovani studenti non sembrano esaurire la loro carica di ambizione e presunzione, ma solo adagiarsi in corpi sempre più invecchiati, flosci e indeboliti. Il microcosmo, la quotidianità, il minimo esistere è ormai totalmente aderente al cosmo intero, alla mondanità e all’eccezionalità. Tutto appare naturale, ma in realtà quel tutto nasconde e ottunde ‒ non riuscendo più a opporsi ‒ proprio quell’essere naturale che diviene nella sua ferocia sempre più estraneo a una vitalità di maniera e a una posa e a un’ipocrisia ritenuta quale l’ultima spiaggia di una civiltà più che possibile, quanto meno accettabile.

La tragedia, in I convitati di pietra, non ha bisogno infatti di compiersi o di palesarsi nel divenire della trama romanzesca, ma si mostra da subito icasticamente, pur restando discosta oltre i tendaggi sfarzosi e boriosi di un gioco da privilegiati: “salutato inizialmente come una trovata tanto geniale quanto divertente (oltre che, andava da sé, come prova di un’intelligenza superiore), era destinato, anno dopo anno, a rivelare la propria disumana spietatezza”. La condanna appare così subito nella prima pagina, quello che viene dopo riguarda un gusto obbligato per l’orrore che diviene necessità. L’ultimo strumento pienamente umano è infatti l’orrore stesso, utile a restituire una sostanza fisica a un’esistenza immaginaria dentro alla quale si è creduti intelligenti e furbi, colti e atletici e in cui ci si ritrova sempre e solo in stato di abbandono. Si resta attoniti e senza fiato nell’attraversamento di queste centosessanta pagine dentro cui la vita è perenne gioco, ovvero perenne stato d’angoscia.

Created with Sketch.

I più letti del mese

Società
Ludovica Perina

Dove appare la Madonna?

Scienze
Gianluca Gaburro

Che fine ha fatto la tassidermia

Scienze
Grazia Battiato

Dormire per dimenticare

Letterature
Giacomo Giossi

La lettura e la crisi del piacere

Scienze
Rossella Failla

Il malato immaginato

Società
Simone Cosimelli

La seduzione geopolitica

Argomenti

narrativa italiana