N el 1840 Pierre-Joseph Proudhon, studente di poverissime origini e perlopiù autodidatta, che può frequentare l’Accademia di Besançon solo grazie a una borsa di studio per giovani meritevoli, pubblica una risposta al quesito annuale posto dalla sua università, ovvero quali siano “le conseguenze economiche e morali che ha prodotto in Francia, e che sembra destinata a produrre in futuro, la legge sulla equa divisione dei beni tra i figli”. Il suo testo Che cos’è la proprietà, un classico del pensiero anarchico, si apre con la negazione perentoria della legittimità della proprietà. La proprietà, anzi, è furto, esattamente come la schiavitù è assassinio.
L’equivalenza delle due affermazioni stabilisce subito il legame per lui essenziale tra possedere e asservire. Questa relazione è di immediata comprensione se calata nel contesto storico feudale, in cui il dominio economico coincide con quello politico, ma diventa più oscura e meno leggibile con la formulazione della proprietà privata come la conosciamo oggi: ben separata dal potere pubblico. Una simile demarcazione, che si cristallizza in Francia grazie alla Rivoluzione del 1789, porta con sé una promessa emancipatoria: l’uguaglianza tra i cittadini si ottiene attraverso il diritto universale alla proprietà. In questo passaggio Proudhon scorge però non la scomparsa bensì la metamorfosi del dominio, di cui la proprietà è l’estensione economica.
Partendo da due critiche alla proprietà privata (teoria dei beni comuni e decoloniale), Malabou analizza il carattere “performativo” della proprietà, per poi delineare una breve storia di furto, eredità e asservimento.
interrogare gradualmente ‒ con Proudhon e oltre Proudhon ‒ l’amnesia generale che colpisce l’origine della condizione servile, il modo in cui il discorso repubblicano continua a occultare la memoria delle diverse tradizioni di asservimento da cui il popolo proviene nella sua stragrande maggioranza.
Attingendo dal lavoro dello studioso Robert Nichols, Malabou evidenzia come la colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma intacchi e distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”.
Questa traiettoria è particolarmente chiara se si osservano quelle che Malabou chiama le “nuove enclosures”, come i tentativi di brevettare il genoma umano, il processo di privatizzazione dell’acqua, o la spartizione dell’Internet libera fra i giganti del tech. Lo stesso vale per lo spossessamento coloniale, un’appropriazione forzata di terre e risorse che prima dell’invasione europea non appartenevano a nessuno ed erano liberamente abitate e usate dalle popolazioni indigene. Attingendo da un importante lavoro dello studioso Robert Nichols, debitore di Proudhon già dal titolo Theft is property! (2019), Malabou evidenzia come la colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma intacchi e distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”: “La subordinazione a ‘élite imperialiste’ ha impedito loro di parlare le loro lingue, di praticare i loro culti; ha cambiato i loro nomi e li ha separati dai loro figli e da loro stessi”. Quest’ultima puntualizzazione le permette di preparare il terreno per alcuni ragionamenti successivi riguardo un aspetto fondamentale della proprietà, sia essa simbolica (identità culturale, genealogia familiare) o concreta: la capacità di riceverla e lasciarla in eredità.
Malabou non tralascia qui di sottolineare la distinzione, spesso dimenticata o taciuta in malafede, tra la proprietà dei mezzi di produzione e quella dei mezzi di consumo. Solo la prima è al centro delle critiche di Marx e Proudhon, in questo sostanzialmente allineati: il possesso individuale, fondato sull’uso, è del tutto legittimo e anzi minacciato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Non potrebbe essere altrimenti, visto che questa si radica sulla spoliazione e sullo sfruttamento del lavoro altrui.
Il carattere performativo della proprietà, il fatto cioè che prenda forma attraverso dispositivi politici e giuridici, costituisce il punto di divergenza con il pensiero marxiano e una frattura di difficile ricomposizione fra i due campi. Per Marx la proprietà non è affatto “impossibile”, come sostiene Proudhon, ma costituisce una necessità storica perché derivante da un processo economico e materiale, quello dell’accumulazione originaria, che pone le basi per lo sviluppo del capitalismo. In questo senso la proprietà non dipende dalle forme arbitrarie del dominio politico, ma risponde piuttosto alle esigenze strutturali del capitale. Secondo i primi teorici anarchici, come lo stesso Proudhon e Kropotkin, gli strumenti della scienza economica impiegati da Marx sono invece insufficienti a spiegare le dinamiche politiche e simboliche che regolano il dominio e la proprietà.
Per Proudhon le promesse di uguaglianza della Rivoluzione francese non sono servite ad abolire il dominio bensì a rimuoverlo dalla memoria collettiva, in un’operazione che ha consolidato il potere rendendolo invisibile, non-creato e proprio per questo naturale.
Questa eliminazione della coscienza del dominio si palesa nella questione dell’eredità e del diritto di albinaggio. In epoca feudale e prerivoluzionaria il signore ereditava automaticamente i beni degli stranieri che morivano nel suo territorio. Il legame tra proprietà ed estraneità alla vita civile si concretizza in questo dispositivo giuridico, che non a caso coinvolge anche i bastardi e i servi. L’incapacità di testare ed ereditare, di partecipare cioè alla trasmissione dei beni, delinea il perimetro dell’appartenenza alla condizione libera e crea fra i membri della società una gerarchia speculare a quella che il diritto di primogenitura stabilisce tra fratelli.
Dopo la Rivoluzione il diritto di spossessare si mantiene, traslandosi nel meccanismo di estrazione di plusvalore ai danni della classe lavoratrice, negli interessi sui prestiti, nelle rendite sugli immobili e tutto ciò che consente di fare profitti a spese di chi non possiede nulla.
La divisione tra chi sfrutta e chi viene sfruttato muta così nella forma ma non certo nella natura, né tantomeno nei suoi effetti, che hanno a che vedere non tanto, o non solo, con la deprivazione materiale di oggetti e denaro. La confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire il signore feudale, così come la simile prassi contemporanea di sequestrare i pochi possedimenti dei migranti al loro arrivo in Europa non ha alcuno scopo economico. Si tratta piuttosto, allora come oggi, di una prova muscolare dell’autorità politica, che dimostra di poter arbitrariamente scaraventare chiunque entri nel suo raggio d’azione “ai margini del sociale”.
La confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire il signore feudale, così come la prassi contemporanea di sequestrare i pochi possedimenti dei migranti al loro arrivo non ha alcuno scopo economico.
Quando si guarda alla storia della proprietà privata, essa non è mai stata, per la gente comune, un fattore di emancipazione. Piuttosto è il contrario. Si deve pur vivere da qualche parte e, per chi voglia possedere quella “qualche parte”, l’accesso alla proprietà avviene solitamente a costo di rinunce. Al giorno d’oggi molti giovani preferiscono affittare piuttosto che acquistare. C’è una vera crisi del mercato immobiliare e una sensibile restrizione dei crediti bancari. Quanto ai beni di consumo: ne possediamo senza dubbio di più, ma quanto valgono? Per la maggior parte nulla. Quando si perdono i genitori e si svuota la loro casa, si scopre presto che i tre quarti degli oggetti non hanno alcun valore, e quelli che forse ne hanno sono spesso privi di ogni legame affettivo. Si eredita pochissimo. L’apparente abbondanza di beni nasconde la futilità, la liquidità dei beni personali. Non è che la ricchezza, la vera ricchezza, a determinare il senso e l’effettività dell’eredità.
Ma questo movimento, come ogni altro, si coagula attorno a un’idea di futuro, all’auspicio di un miglioramento delle condizioni presenti. Tale futuro e le sue caratteristiche non possono restare indeterminati perché devono orientare l’azione politica che mira a conseguirli. In altre parole, lo slancio verso un futuro immaginato parte da un principio (in questo caso il comune) nel suo doppio significato di “idea centrale” e “cominciamento”: tutto ciò che l’an-archè (assenza di principio) rifiuta. Il principio si trova all’inizio e nel nucleo rovente della teoria e della pratica politica: tutto dovrà seguirlo ed essere in armonia con esso, pena lo snaturamento del progetto stesso. È qui che Malabou rileva un’insidia appostata: quella della gerarchia, rigida e intollerante.
Ogni movimento si coagula attorno a un’idea di futuro e a un auspicio di un miglioramento delle condizioni presenti che non possono restare indeterminati, perché devono orientare l’azione politica che mira a conseguirli.
diventare il portavoce di ubenati, servi, bastardi e operai restando uno straniero: interrogare la memoria rubata della servitù senza creare memoria servile né discepoli obbedienti. Restare l’altro, improprio e “improprietario”.