S
e si ascolta musica con abbastanza ossessione e compulsività, può avvenire una metamorfosi della fruizione. Non basta più solo ascoltarla, ma se ne vuole comprendere il significato. Questa esigenza viene da un sospetto: la sensazione che dietro ai suoni ci sia qualcosa di molto più grande, come fossero un istmo in cui si stringe la maestà di un oceano. Allora, il fruitore scopre la critica musicale.
Il rock criticism – per intendersi, la critica musicale rivolta alla musica pop – è un canone di testi soprattutto anglofoni che si è sviluppato a partire dalla nascita del rock’n’roll in America. Chi ci si immerge incontra presto un proverbio di dubbia attribuzione che vorrebbe affossare il canone stesso: “Writing about music is like dancing about architecture”. Oltre al fatto che un balletto classico ispirato alla Reggia di Versailles, o una coreografia hip-hop che imiti i volumi del MOPOP, il Museum of pop culture di Seattle, sarebbero quantomeno una cosa interessante a cui assistere, il proverbio non considera che questo canone vive proprio dell’impossibilità titanica di afferrare l’ineffabile che sta tra una forma così sfuggente come la musica e una così articolata come il linguaggio scritto.
A partire dalla fine degli anni Settanta una particolare stagione della critica rock inizia a prendere di petto quell’impossibilità. Firme come Paul Morley, Ian Penman, Barney Hoyskyns, poi David Stubbs, Jon Savage e il più acclamato Simon Reynolds, si armano di apparati filosofici, sociologici, semiotici per guardare la musica pop come un oggetto culturale complesso, che è un condensato di circostanze storiche, umane, tecniche. L’idea è che l’oceano intravisto riverberarsi nella goccia di una canzone sia nientemeno che il suono di un’epoca intera.
Valerio Mattioli è tra gli autori che in Italia hanno più coltivato questo approccio interpretativo, per cui scrivere attorno alla musica pop può diventare un’impresa letteraria a sé stante, con una sua dignità artistica (per quanto parassitaria rispetto all’arte di riferimento). In questa intervista traccia le connessioni esistenti tra suoni, contesti socioeconomici, sviluppi tecnologici, sottoculture giovanili. Il tutto seguendo le trame dei suoi libri: Superonda (2016), una storia musicale dell’Italia fra gli anni Sessanta e i Settanta; Remoria (2019), ritratto espressionista-surrealista delle periferie romane; Exmachina (2022), colonna sonora della trasformazione antropologica mediante cui l’umano si ibrida con l’agente informatico-cibernetico, e ne viene poi fagocitato; l’ultimo Novanta (2025), resoconto della frenesia di politica e musica passata dai centri sociali italiani nel decennio precedente all’11 settembre.
Partiamo da Novanta. Vorrei metterlo in prospettiva con altri libri che hai scritto in cui si parla di musica. In Novanta si parla tanto di musica, ci sono sei capitoli su sedici in cui è protagonista assoluta. Il tuo primo lavoro unitario di ricerca è stato Superonda, che ha un approccio storico, di storia della cultura musicale. Poi Exmachina, che è una cosa molto diversa. Lì il suono è lo sfondo, l’ambientazione a cui guardare per capire un pezzo di storia dell’umanità. In Novanta invece torni di nuovo sull’approccio storico, una storia dei movimenti e delle sottoculture, in cui la musica è un personaggio – non più l’ambientazione – seppure molto ingombrante, che però vive anche delle relazioni con altri protagonisti: linguaggi, immaginari, movimenti politici. Se in Exmachina i suoni raccontano un’epoca, in Novanta invece i suoni stanno dentro un’epoca, e interagiscono con molti altri fenomeni culturali nel crearne l’affresco. La cosa che avvicina questi due lavori è che in entrambi i casi la musica è un punto di vista privilegiato per comprendere una temperie. Perché la musica e i modi espressivi che le girano intorno – vestiti, arti visive, atteggiamenti, gesti, in sintesi, le culture sonore – sono un punto di vista così privilegiato per cogliere lo spirito del tempo?
La musica pop, nel senso più ampio del termine, intesa come musica non colta – un cappello in cui ci puoi mettere tanto
Taylor Swift quanto, che ne so, un qualche rumorista giapponese che fa
noise assassino – è un sensore. E anche un laboratorio storico della modernità. Questo l’aveva già messo nero su bianco
Jacques Attali negli anni Settanta, nel suo libro che si chiamava
Rumori, se non sbaglio…
La musica lo è da tanti punti di vista. Innanzitutto per il ruolo che ha avuto nel dopoguerra all’interno del mondo giovanile, e per via del ruolo che il mondo giovanile ha avuto nella definizione dei meccanismi valoriali, comportamentali, anche economici, dell’Occidente. Ovviamente stiamo parlando della sfera occidentale. Quindi c’è questo doppio passaggio che pone la musica come linguaggio preferenziale per capire i mutamenti del mondo in atto in Occidente dal dopoguerra in poi. Lo è per… come dire, la sua economia politica.
Poi lo è per il fatto di assumere un linguaggio molto immediato, istintivo. Cioè: la musica pop per lo più è il prodotto di generazioni giovani che si mettono a fare la loro cosa senza filtri, senza dover passare per le trafile e gli ostacoli che sovradeterminano altre forme espressive. Anche la scrittura è un linguaggio molto istintivo, prendi e ti metti a scrivere. Ma la scrittura è, innanzitutto, solitaria come attività, mentre la musica pop vive in un punto strano che sta tra l’autorialità delle persone che questa musica la fanno, e il pubblico che la riceve. La musica pop vive in questo interstizio, che è già di per sé una posizione strana. La scrittura è solitaria e poi è descrittiva per sua natura, mentre la musica, in qualche modo, riesce a incorporare proprio nelle sue stesse forme il tempo presente, e lo fa in maniera non mediata. E anche completa, perché è la forma espressiva che più di tutte si confronta con, per esempio, i cambiamenti tecnologici.
Perché li usa.
Sì, perché fanno proprio parte del suo armamentario, e questo è un altro punto. Dopodiché la musica, come fatto sociale, visto il ruolo che ha sempre avuto all’interno delle culture giovanili, riesce a coagulare attorno a sé dei fenomeni che sono più genericamente sociali, che sono poi le varie culture e sottoculture che vedono nella musica un perno, un punto di partenza. Poi da questo punto di partenza si allargano per contemplare un discorso di tipo comportamentale, attitudinale, estetico, e persino filosofico… a volte anche in senso molto stretto. Ci sono delle culture musicali che hanno dato il la a delle piccole filosofie, delle teorie, quasi, molto ben definite.
E poi, se prendiamo gli ultimi venticinque anni, guarda caso, proprio la musica è stata sempre il campo di sperimentazione di tutti i grandi sconvolgimenti a cui abbiamo assistito con il dilagare dell’era informazionale. Dalle nuove tecnologie, al file sharing, alle piattaforme, allo streaming, è sempre la musica il banco di prova. Infatti a me che lavoro con i libri fa sempre un po’ ridere e mi cascano un po’ le braccia a vedere quanto il mondo editoriale è sempre indietro…
Gli arrivano per ultimo queste transizioni?
Non solo gli arrivano per ultimo, è proprio che, essendo un mondo molto chiuso, molto ignorante a volte, all’editore raramente gli viene in mente… come dire, il mondo editoriale vive sempre di queste crisi, è sempre in crisi continua. “E non si vendono i libri, e la lettura non esiste più…” ma non gli viene mai da dire: “vediamo un po’ che è successo nel mondo della musica cinque anni fa”. Perché quello che è successo nella musica cinque anni fa, capiterà anche a te. Ma sicuro capita. Quindi la musica è un sensore, è un ambito che vale la pena studiare anche per capire quali sono le forme del presente, le forme che si stanno sperimentando sul momento e che dopo diventeranno lingua comune.
Hai usato la parola sensore… è una parola che ho letto in Novanta: a un certo punto, molto rapidamente, citi questa “teoria del sensore storico” di Primo Moroni, ballerino, studioso, scrittore, libraio, agitatore culturale, un personaggio che poi approfondisci più avanti. Mi è sembrato che, dopo averla menzionata, accantonassi quella teoria; invece la tenevi come principio organizzativo del libro. Nel bellissimo passaggio in cui introduci Militant A, il primo a incidere un pezzo rap in italiano, scrivi che la sua “è la storia di un catalizzatore – involontario, fortuito, accidentale – le cui gesta riusciranno nientemeno a cambiare l’intero corso degli eventi”. Poi continui: “Va bene, va bene: gli eventi sarebbero cambiati anche senza di lui. Ma, a volte, è come se la storia avesse bisogno di piccole, singole antenne che con le loro semplici azioni imprimono svolte dagli esiti imprevisti”.
Per Primo Moroni il sensore era il Leoncavallo a Milano. Tu osservando quello che succedeva al Leoncavallo, in teoria, secondo Moroni, potevi farti un’idea di quale sarebbe stata la situazione complessiva nell’ambito dei movimenti. Per quanto riguarda il discorso delle singole antenne… sai, in realtà, nonostante possa sembrare in contraddizione con quello che hai appena letto, non sono di mio una persona particolarmente interessata alla mitologia personale, al personalismo che individua nella personalità X una specie di figura cristologica che da sola cambia il percorso degli eventi. Per esempio è una figura retorica che si usa molto spesso in buona parte della critica musicale.
Tipo Jon Landau con “Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen”.
Per esempio, certo. Hai tutta questa mitologia che ti prende
Bob Dylan,
Bruce Springsteen, questi nomi “che da soli incarnano”… a me quella roba non interessa. Penso sia una roba noiosa, che serve ad alimentare una mitologia interna. Oltretutto è stata drammaticamente smentita proprio dalla storia: non ti aiuta in realtà a leggere i fenomeni e gli eventi. Invece è più interessante leggere l’evento musicale nel suo complesso, depersonalizzandolo e capendo quali sono gli effetti che ha questo fenomeno musicale sul mondo, come si intreccia con le forme e le lingue che il mondo sta sperimentando in quel dato momento in cui quella forma musicale emerge. Detto ciò, questo contraddice quello che dico a proposito di Militant A o quello che, qualche capitolo prima, dico a proposito di Angela Valcavi, la fondatrice della fanzine dark e goth
Amen negli anni Ottanta. Un giorno entra al Leoncavallo e chiede se possono organizzare un concerto lì dentro ed è da quel primo contatto che il Leoncavallo, che fino a quel momento – metà degli anni Ottanta – era un posto di reduci sconfitti dalla storia, ridiventa il centro del radicalismo estetico-politico milanese. Quindi, se non fosse stata Angela Valcavi, probabilmente sarebbe stata qualcun’altra, o qualcun altro. Non fosse stato Militant A a fare
Batti il tuo tempo, sarebbe stato qualcun’altra, qualcun altro. Non voglio personalizzare, però quegli esempi, in qualche modo, sono dei piccoli
glitch. Quello che mi interessa semmai è come un semplice, piccolo gesto provochi il famoso effetto farfalla. La lezione che mi piace prendere da cose del genere, è che a volte basta solo un piccolo passetto oltre, per poi produrre delle conseguenze che sulle prime non ci si aspetta.
Il tuo stile di scrittura e di pensiero, questo modo di studiare le musiche e le culture sonore, guardando a come parlano con il mondo fondendo storia, filosofia, riflessione personale, con nel tuo caso – penso a Exmachina – anche una componente romanzesca di allucinazioni immaginifiche un po’ oscure… è uno stile che deve molto a tutto un filone di giornalisti-teorici, ovviamente Reynolds, ma anche tutto il gruppo che con lui ha invaso la rivista New Musical Express tra fine anni Settanta e inizio Ottanta: Stubbs, prima ancora Paul Morley, Ian Penniman, Barney Hoskyns. Questi autori hanno creato una visione specifica della critica musicale, il cui credo suona più o meno come: la critica musicale sconfina e straborda per forza nell’analisi e nella critica culturale a tutto tondo, nel momento in cui si rende conto che la musica pop è talmente invischiata nel ribollire del mondo che va studiata per forza insieme al mondo. Cioè se parli di musica, devi per forza parlare di tutto il mondo. Secondo me questo è proprio un genere letterario a sé stante che dà una certa comprensione del mondo. Anche tu alla fine parli del mondo: in Exmachina i capitoli sono dedicati a Aphex Twin, Autechre e Boards Of Canada, ma il tema vero è la rivoluzione informatica. Però ne parli in modo diverso da quello che fa un libro di storia normale. Secondo me, questo genere letterario dà un modo di comprendere le cose eccezionale, però molto obliquo, un po’ iniziatico, perché noi – noi con la nostra formazione scientifica – non siamo abituati a ragionare così. Se penso “Voglio comprendere ‒ che ne so ‒ la rivoluzione informatica, devo studiare dei dati, dei fatti fisici ed economici, magari. Ci sembra strano di poterne carpire degli aspetti importanti a partire dalla descrizione dei suoni nei dischi pubblicati in quel periodo. Una descrizione spesso fantasiosa e personale. Perdonami se è uno svarione, ma mi fa pensare a quello che Dario Fabbri – non so se sei fan…
Per niente!
Bene. Ma, dicevo, mi ricorda quello che lui, nel suo ambito, dice di fare con la “geopolitica umana”; lui dice che quello che gli interessa non è spiegare gli scenari internazionali a partire dai rapporti economici tra gli Stati, gli arsenali militari, ma a partire dal sentire comune delle popolazioni, dai loro appetiti, le loro paure… è una cosa che a livello di rigore scientifico è molto labile.
È “molto zero”, direi, più che labile. Ma non è solo un discorso di rigore scientifico. Ad esempio lui oggettifica determinate sensazioni, traslandole in un piano deterministico, si può dire.
Esatto. Però il paragone lo facevo perché mi sembra che in questa declinazione molto ambiziosa della critica musicale la scommessa è prendere proprio delle sensazioni, quelle legate ai suoni – che ovviamente non sono solo sensazioni soggettive perché sono inserite in dei codici e anche in delle condizioni materiali – e, sì, oggettificarle in una certa misura.
Allora, innanzitutto, c’è da fare un distinguo tra i miei libri di cui stiamo parlando. Superonda che era, diciamo, una storia degli anni Sessanta e Settanta in Italia proprio a partire dalle musiche, è il libro che è più parente di quest’ultimo, Novanta. Sono i miei due saggi, ecco, saggi di… boh, storia culturale, senza voler sembrare troppo roboante. Mentre Exmachina, come il precedente Remoria, per me sono due romanzi.
Remoria non l’ho citato proprio perché lo consideravo un caso a parte infatti, narrativa pura.
Remoria è un romanzo fantasy, Exmachina è un romanzo di fantascienza. Poi purtroppo l’editore… ho provato a insistere con Minimum Fax, a dire “mettiamoli tra i romanzi!”, però capisco che la forma e il fatto che si agganciassero a delle cose reali, troppo reali, li hanno condannati alla saggistica, e vabbè. Però, di fatto, si tratta di due libri molto allucinatori. Da un punto di vista scientifico sono smontabili in due minuti, entrambi i libri. Nell’ambito mitopoietico, magari no. Quello che mi interessava era più un discorso di tipo mitopoietico rispetto sia al tema di Remoria, che era la periferia romana, sia al tema dell’Intelligenza artificiale, che in realtà era il tema per me alla base di Exmachina. In Exmachina però c’è anche un dato storico, reale, concreto e molto dimostrabile, cioè il ruolo che un certo tipo di musica elettronica ha avuto nella definizione dell’immaginario e dello sguardo sul mondo della Silicon Valley, banalmente.
Sì, infatti, si aggancia anche a dei rapporti esistiti tra persone.
È un legame che secondo me andava indagato. È stato indagato già all’epoca. Prendi dei testi cruciali degli anni Novanta, per esempio
Techgnosis di Erik Davis, che abbiamo ristampato nel 2023 con Nero: è fondamentale lo sguardo che Davis ha nel capire la preoccupante ideologia che stava prendendo forma nella Silicon Valley proprio negli anni Novanta, e l’analisi di Davis delle musiche elettroniche che costituiscono l’ambiente umorale immersivo dell’epoca. O se prendi degli autori stracitati adesso, Mark Fisher, tutto il giro CCRU –
Cybernetic Culture Research Unit – ancora negli anni Novanta, nomi che hanno analizzato in grandissima profondità l’impatto delle tecnologie informatiche dal loro apparire fino a oggi… Di quelli, chi è sopravvissuto continua a indagare quell’ambito là, a volte su posizioni preoccupanti, come Nick Land che è diventato, come sappiamo, un filosofo di estrema destra.
Se tu ti guardi i loro materiali, di quando nacque la CCRU, l’unità di ricerca sulla cultura cibernetica nata a Warwick in Inghilterra, praticamente tre quarti dei materiali su cui loro lavorano sono le musiche della cultura elettronica del periodo, la jungle, la techno e così via. Quindi effettivamente c’è un legame molto stretto, per quanto Exmachina sia un romanzo di fantascienza. Studiando l’evoluzione di quel suono, puoi trarre delle indicazioni su cosa, diciamo, la civiltà delle macchine cela dietro di sé, o quantomeno di qual è l’ideologia che la muove. Per me è molto importante in Exmachina la parte in cui io prendo gli Autechre come esempio – e altri avrebbero potuto prendere altri musicisti – ma tramite loro parlo dell’idea che le macchine abbiano una loro agentività e che siano delle entità… non è giusto dire entità senzienti, perché appunto sarebbe ricondurle a una visione antropocentrica. Diciamo, esce fuori l’idea che la logica generativa che sta dietro la Macchina è destinata a ingigantirsi sempre più fino a soverchiare, a prendere il sopravvento sull’elemento umano. Questa è una cosa che tu hai già in quelle musiche là, e che adesso ti ritrovi a dibattere nei post, su Instagram, di questo problema dell’Intelligenza artificiale di queste cagate che ci troviamo davanti.
Il dibattito attorno a questi temi adesso è veramente indietro rispetto a quello che già era stato instillato in maniera poetica, visionaria dai musicisti elettronici che per primi si interfacciarono al linguaggio della Macchina e che lo presero sul serio. Questa roba l’aveva intuita bene proprio tutto il giro di CCRU, per esempio una figura come Kodwo Eshun, il cui Più brillante del sole abbiamo ripubblicato sempre con Nero nel 2021. Era una roba che nella critica musicale dell’epoca già era molto presente. Adesso sono passati trent’anni e probabilmente se uno riprendesse alcune di quelle fonti capirebbe qualcosa di più. Ti dico, il mio grande dispiacere ‒ a cui però sapevo che sarei andato incontro ‒ è che Exmachina per me era un libro sull’Intelligenza artificiale, quindi alla gente che conosco che si occupa di questi temi dico, “Ma sai che ho scritto un libro su questo? Leggitelo!”; ma chiaramente essendo un libro che parte dalla musica è stato considerato solo da quelli che seguono la musica. Questo è lo scotto che devi pagare quando parli di musica. La musica è un linguaggio sempre un po’ guardato con sufficienza dagli altri ambiti culturali. Non da tutti, però per esempio nel mondo delle lettere c’è una presunzione di partenza che è nei libri che tu trovi il cuore, la verità… ecco, la riflessione.
Perché ci sono le parole che sono il concetto, invece il suono è una cosa amorfa.
È amorfa, però al tempo stesso il suono ha questa capacità di essere totalmente immateriale ed estremamente materiale, cioè definisce e costruisce un ambiente all’interno del quale tu ti ritrovi immerso. Questo potere è strano se ci pensi. Non puoi toccare il suono, però se io adesso accendo quella cassa e metto una musica a palla, noi siamo dentro un ambiente, siamo intrappolati dentro una quinta, definita da questo banale spostamento.
Come dicevi è immediato, diciamo, non c’è un distacco, non c’è un filtro, non puoi dire “io sono io e capisco questa cosa che sta fuori di me”.
Esatto, arriva contemporaneamente al corpo, alle membra, e poi al cervello. In alcuni casi anche allo sguardo, c’è una qualità sinestetica della musica che a volte è indagata, a volte sottovalutata, però è un’altra delle sue qualità.
Sulla sottovalutazione della musica negli ambiti culturali, c’è un libro di cui voi avete scritto su Not, Dialectic of Pop di Agnès Gayraud. Lì lei, contro Adorno, propone una difesa del pop come linguaggio estetico universale, capace di articolare una riflessione sul mondo tecnologico e sulle forme della vita contemporanea – non solo come prodotto standardizzato dell’industria culturale, ma come luogo in cui si manifestano una serie di tensioni: tra individuo e collettività, tecnica e sensibilità, materia e forma… per lei il pop non è l’opposto della teoria, ma è già una teoria in atto, è filosofia che passa attraverso il suono e il corpo. In Exmachina, in modo simile, tratti l’IDM (Intelligent Dance Music) come un pensiero incarnato, una filosofia delle macchine. Pensi che in Italia esista un pregiudizio adorniano contro la rilevanza culturale e politica del pop? Ho l’impressione che altrove, in ambito anglofono ad esempio, i popular music studies abbiano conquistato spazio e dignità accademica, mentre qui il pop sembra restare confinato a un immaginario di consumo o di costume.
È chiaro che nel mondo anglofono il pop ha una sua rilevanza perché l’hanno inventata loro la cultura pop come la conosciamo oggi… ma non ti pensare, nel senso che se senti lo stesso Simon Reynolds, ti direbbe anche lui che, trattando di musica, è considerato un autore di serie B. Però è vero che senz’altro nel mondo anglofono l’attenzione è maggiore, ma anche in Francia, ma anche nella stessa Spagna. L’Italia è veramente…
Non era per fare gli esterofili così gratis eh, è un’osservazione.
No, no, senz’altro in Italia più che un pregiudizio c’è una certa… arretratezza. Poi pare che stai a fare la cantilena “l’Italia rimane sempre indietro”, ma è vero. C’è un discorso a monte su come è strutturata la cultura italiana, con l’
imprinting classico idealista. E un discorso su come poi questo è stato messo in discussione da tutta una serie di nomi: il più famoso è
Umberto Eco, che invece prende e ti analizza anche i fumetti. Ma anche Eco muove da una posizione che distingue i famosi “alto” e “basso”. Non è che ci si deve mettere a litigare con una figura come Eco, un gigante del Novecento, ma al tempo stesso anche Eco si muove all’interno di un panorama culturale ancora segnato da quell’
imprinting.
Su Adorno, in realtà, non so quanto ci sia di adorniano nella diffidenza italiana verso il pop. Anzi, recuperiamolo un po’. Adorno prese senz’altro delle cantonate micidiali, cioè le sue pagine sul jazz sono comiche sostanzialmente, perché ti fanno vedere quanto veramente lui non avesse colto, non capisse di cosa stava parlando. Al tempo stesso Adorno diceva una cosa non sbagliata, cioè che le musiche popular sono parte di un’economia capitalistica che è fondata sulla merce e quindi sono anche merce. Questa merce ha anche un valore filosofico, come dice Dialectics of Pop, ma ce l’ha proprio perché è interna al meccanismo merce, non si chiama fuori da quel contesto. Recupererei una briciola adorniana.
In Superonda, si parla un po’ di questo: l’Italia è un Paese strano, perché uno dei maggiori eventi socialmediatici, sociologici, che arrivano ogni anno, è il Festival di Sanremo, basato sulla musica, sulle canzonette. Eppure proprio il modo in cui viene interpretata la presenza della canzonetta in Italia è sempre qualcosa a metà tra l’epifenomeno e il guizzo folcloristico, cioè non vale mai la pena prenderla troppo sul serio.
Che intendi per epifenomeno?
Un fenomeno secondario, un’espressione secondaria di una cultura. E questo poi si riflette anche nel modo in cui la canzone italiana viene concepita, cioè ha delle regole molto ferree, molto rigide, un melodismo esasperato, le produzioni. Sì, l’Italia non è il caso di scuola.
Nel capitolo di Novanta intitolato Underground, overground, mainstream, parlando di quello che all’epoca nel rock italiano si chiamava “crossover”, cioè band come Bluvertigo e Subsonica, scrivi che quei gruppi sarebbero stati inconcepibili senza il lavoro preparatorio dei centri sociali, e il fatto che siano arrivati da lì a Sanremo “mostra la facilità con cui il sistema sapeva assorbire qualsiasi spinta propulsiva dal basso per trasformarla in mera merce sterilizzata”, e che quindi “il crossover era un modo come un altro da parte dell’industria di coprire una fetta nuova di mercato venendo incontro ai gusti di un pubblico ‘midbrow’, troppo giovane per accontentarsi, ma troppo timoroso per spingersi dove la rivoluzione colava davvero”. Alla luce del fatto che esistono questi meccanismi tramite cui il mercato vampirizza i suoi potenziali nemici underground e li assorbe, secondo te è possibile una controcultura oggi? In realtà ti ho sentito dire che preferisci usare il termine sottocultura, magari mi spiegherai perché. In questo caso la domanda diventa: è possibile una sottocultura con una carica antagonistica? Secondo me quello che accade con i social media e gli algoritmi è che le sottoculture che un tempo, fino agli anni Novanta, erano movimenti fondati su dei valori, interessi condivisi e delle comunità concrete, solide e cementate, invece adesso sembrano innanzitutto ridotte al loro aspetto estetico; in più sono delle estetiche effimere e decorative, tant’è che spesso vengono prese di peso e usate a fini di marketing. Non è raro vedere un tipo di estetica sottoculturale che diventa la moodboard di una campagna pubblicitaria, o proprio di un prodotto. Poi c’è un altro aspetto: un antropologo che si chiama Ted Polhemus sostiene che i giovani non creano più sottoculture, ma si muovono come in un supermercato, arraffando e mescolando stili e simboli presi da sottoculture diverse, passate e presenti, senza legami, riducendo le comunità a un insieme di elementi visivi privi di ideologia condivisa. Altri invece, come Tim Stock, osservano la nascita di nuove microsottoculture online, meno legate a estetiche e più a determinate narrazioni o opinioni condivise… tu come la pensi?
Non conosco Ted Polhemus, è importante?
Non lo so se è importante, l’ho trovato su Internet come qualsiasi cosa.
“Ted Polhemus, antropologo americano…” c’è anche la pagina Wikipedia, è del 1947, insomma… In realtà, quello che dici tu, mettendolo in bocca Ted Polhemus, ricorda molto quello che dice Hiroki Azuma, un teorico giapponese, di cui Nero ha pubblicato nel 2024 un altro testo dei primi anni Duemila,
Otaku. Tu sai cos’è un
otaku?
No, e non conosco Azuma.
Beh, gli otaku di base… Ma che è ’sta foto qua… di Ted Polhemus dico. No, perché sembra una rock star…
È lui da giovane, forse? Un mezzo hippie.
Sì… comunque, in Giappone gli
otaku vengono descritti come giovani ragazzi, perlopiù maschi, appassionati in maniera maniacale di anime, manga e videogiochi. Costruiscono la loro totale identità sulla passione maniacale per questi linguaggi della cultura pop. Azuma notava come gli
otaku non fossero soltanto dei ricettori passivi di questi prodotti, ma adottassero uno spirito che trasformava questi prodotti culturali in data base, cioè degli archivi dove ci sono diverse tipologie di personaggi, di storie, di estetiche, che poi venivano assemblati e riutilizzati dagli
otaku stessi, secondo una logica che Azuma chiama di “accumuladati”. Questo effettivamente è l’approccio che trovi nelle sottoculture online contemporanee che descrivi anche tu, dove c’è questo prendere di qua e di là per costruire… e non è una logica passiva. In questo senso l’elemento sottoculturale c’è, è il
patchwork… ed è una pratica attiva, non la svilirei.
Io preferisco il termine sottocultura a controcultura perché l’unico periodo storico in cui probabilmente ha senso parlare di controcultura, con la C maiuscola, è quello in cui proprio la stessa controcultura è nata, cioè negli anni Sessanta e Settanta, in cui, appunto, la cultura giovanile ha preso delle strade, e dei linguaggi, la musica rock di allora su tutti, interfacciandosi con l’epoca delle contestazioni giovanili… La controcultura lì si configurava – come il nome stesso dice – come una cultura contro e alternativa a quella ufficiale. La guardava da pari a pari, proponendosi come avversaria alla stessa, quindi con una funzione dialettica rispetto alla cultura ufficiale, alla quale però, evidentemente, riconosceva uno statuto ineludibile di interlocuzione. Il paradosso della controcultura, se vogliamo, è che definendosi come cultura alternativa a quella ufficiale, finiva per ribadire lo statuto della cultura ufficiale. In quel momento il mondo giovanile contestatario era talmente forte che poteva effettivamente proporsi come polo alternativo, polo opposto. Di là ci siete voi, i vecchi, la cultura ufficiale; di qua ci siamo noi, i giovani, con la cultura nuova basata su valori alternativi e differenti da quelli che ci propinate voi.
E questo è un discorso che si esaurisce già con lo spegnersi di quella stagione. Già il punk, per esempio, è una storia diversa, e tutto quello che è emerso dagli anni Ottanta in poi difficilmente acquisisce quei crismi così onnicomprensivi della controcultura degli anni Sessanta e dei primi Settanta. La sottocultura è diversa perché ragiona soprattutto per logiche tribali, cioè: noi siamo un gruppo piccolo, medio, grande, ma comunque un gruppo che lavora sotto… ecco, mi piace prendere l’espressione sotto-culturale in termini non svilenti, ma concentrandoci su quel “sotto”. Non come subcultura, quindi cultura derivata, ma cultura che opera sotto quella ufficiale, in maniera totalmente slegata: la cultura ufficiale può avere i suoi valori, a noi non ce ne frega niente, noi abbiamo i nostri, siamo totalmente autosufficienti e dobbiamo rispondere solo alle altre persone che condividono questi codici assieme a noi, quindi agli altri membri interni della tribù. In questo senso il punk era molto più una sottocultura che una controcultura. Poi le sottoculture, dal punto di vista – per così dire – ideologico, naturalmente sono molto più ambigue che la controcultura, la nobile controcultura di un tempo. Ci sono delle sottoculture che sono profondamente, apertamente reazionarie. Ce ne sono altre, invece, più ambigue, in cui magari esteriormente le forme sono reazionarie, conservatrici, preoccupanti, predatorie, ma poi se vai a vedere i codici interni tutto diventa più scivoloso e complesso.
Per esempio in Remoria io mi concentravo molto sui coatti come sottocultura, perché da una parte sono questa specie di esaltazione iperviolenta, machista della vita di borgata, dall’altra se vai a vedere dentro i comportamenti delle stesse tribù di coatti, scopri un mondo molto più ambiguo, in termini di relazioni tra sessi per esempio, in termini di come veniva esplicitata la mascolinità. L’apparenza esteriore celava un rapporto maschio-femmina molto più articolato di quello che poteva sembrare a uno sguardo esterno. E poi ci sono le sottoculture che, a partire dalla logica tribale, si impossessano anche di una critica radicale all’esistente, e là assomigliano più alla controcultura. Anche negli anni Novanta possiamo parlare di controcultura in questo senso qua. Poi negli anni Novanta anche in Italia c’era chi continuamente gettava il ponte tra gli anni Sessanta degli hippie e gli anni Novanta degli hacker cyberpunk. Io, nel libro penso sia chiaro, trovo poco precisa questa lettura.
Però perché siamo arrivati a parlare di questo? Parlando dell’oggi, senz’altro ci sono sottoculture. Fino a tempi recentissimi quella memetica era una sottocultura. Dico fino a tempi recentissimi perché ormai c’è fior fiore di critica interna alla sottocultura memer stessa su cosa è diventata da qualche tempo a questa parte, sul fatto che ormai è pura maniera, è tutto troppo codificato… però se ci pensi quella dei memer è stata una sottocultura che in alcuni ambiti ha avuto anche, sia da un lato che dall’altro, delle svolte radicali. C’è stata la cultura memer di destra, che ha definito tutti gli immaginari dell’alt-right. Però c’è stato anche il suo contraltare. Non lo so, è strano, perché quello che definiva una sottocultura tribale fino a non molto tempo fa era anche l’aspetto molto fisico di condivisione degli spazi, dei corpi. Naturalmente l’online smaterializza tutto e quindi si diluisce anche il recinto che definisce. Puoi scivolare da un recinto all’altro senza farlo sapere agli altri. Le sottoculture aiutavano molto anche a definire l’individuo tra sé e sé, erano uno strumento di empowerment, adesso invece l’identità è sfumata… però non so dove si può arrivare con questo discorso. Non mi starei a preoccupare. Ogni stagione ha bisogno dei propri linguaggi.
Un’ultima domanda, sempre sulle prospettive future, ma in questo caso della musica. In Futuromania, Simon Reynolds percorre tutti i suoni che hanno visto lontano, le musiche del passato e del presente che hanno evocato il futuro. Nella contemporaneità, ad esempio, individua alcuni artisti della trap americana esempi ancora funzionanti di questa spinta innovativa. Il libro si pone come controcanto a Retromania, che invece mostrava la tendenza della musica pop a guardare ossessivamente al suo passato – e alla hauntology di Fischer, che descrive come certi generi musicali siano perseguitati da fantasmi del passato o dalla nostalgia per un futuro negato. Secondo te, quali sono oggi i suoni del futuro? La musica contemporanea riesce ancora a proiettarsi in avanti?
Beh, è un altro discorso molto scivoloso. Empatizzo con Reynolds: così come altri autori è cresciuto e si è formato in un periodo storico in cui le musiche pop sembravano seguire un percorso di progressione continua e quindi c’era evoluzione costante, secondo un moto lineare. Era una freccia che puntava sempre avanti, che era poi il moto lineare tipico dello sguardo occidentale e del progresso come ideologia dell’Occidente. Questa freccia a un certo punto è entrata in un ambiente alieno, straniero, che è appunto quello della Macchina. L’esito ultimo dello spingere avanti, avanti, avanti, avanti: alla fine si è oltrepassata una membrana, una soglia che è quella della Macchina, dove questo moto lineare del tempo non ha più senso, non ha più senso per come ragiona la Macchina stessa. Quindi anche i prodotti culturali che nascono dal relazionarsi con la Macchina lo riflettono.
Perché la Macchina assembla cose che già esistevano in precedenza?
La temporalità della Macchina è diversa. C’è il fatto di assemblare quello che è stato fatto in precedenza ma c’è anche un moto più spiraliforme in cui elementi del futuro vengono proiettati dal passato e viceversa. Da qua si è aperto un dibattito che ci accompagna da vent’anni: dalla lenta cancellazione del futuro di cui parlava Mark Fisher alla retromania di Simon Reynolds. Qual è la causa? Il fatto che Internet permette la compresenza di tanti materiali del passato; poi c’è una sovrapproduzione di materiali e quindi annaspiamo nella sovrabbondanza di immaginari che produciamo e abbiamo prodotto nei decenni passati; c’è il realismo capitalista che, certificando che “there is no alternative” non lascia spazio al nuovo…
Non lo so, io ad esempio in Exmachina mi concentro più su come la Macchina stessa opera. Siamo in una temporalità di tipo diverso e quindi ragionare sui suoni del futuro lascia un po’ il tempo che trova. Cioè, se pensi ai suoni, alle musiche che negli ultimi anni più sono state considerate futuribili, che siano la trap, la drill, l’hyperpop o le forme di musica da club decostruita, sono in realtà dei suoni che riflettono un tempo presente. È difficile paragonarle a quel future shock che poteva avere l’avvento di un genere nuovo nel 1992, quando arriva la jungle, una roba mai sentita prima. Fino alla settimana prima quel suono non c’era, la settimana dopo era ovunque, era qualcosa di totalmente diverso. Di per sé ti faceva dire: “questa è musica del futuro”. Negli anni Novanta hai tutti questi linguaggi musicali che solleticano il gusto per la costante tensione verso l’avvenire che, ripeto, ha un’impostazione da sguardo sul tempo assoluto occidentale. Se prendi altre tradizioni, lo sguardo sul tempo è diverso e quindi anche quest’ansia che abbiamo sui suoni del futuro viene meno, non è un motivo di preoccupazione.
Mi chiederei piuttosto quali sono i suoni più “utili” al presente, quelli che ti aiutano a decodificare meglio il tempo in cui li trovi. Se domani, per paradosso, capiamo che la musica fatta a voce e chitarra acustica, la forma più passatista e retrò immaginabile, è importante per noi, ci sarà un motivo e va preso sul serio proprio perché la musica è, dicevamo all’inizio, un prodotto immediato e non mediato di circostanze più ampie.
Già è importante la formula chitarra e voce, per esempio nella lo-fi.
Certo. Naturalmente quello che c’è adesso è una parcellizzazione estrema in microscene minuscole. Però al tempo stesso hai dei linguaggi diventati così tanto mainstream… ad esempio il rap nelle sue mille sfaccettature ora è una lingua franca che può mettere d’accordo dalla ragazzina di undici anni che guarda, che ne so, Soy Luna in televisione – a undici anni magari non se lo guarda più – al teppista di strada, il maranza.
Bisogna tenere a mente poi che anche quelli che una volta chiamavano suoni del futuro erano suoni del presente. Non esistono i suoni del futuro. Come sola idea è strana: da dove arriverebbe un suono del futuro? Negli anni Novanta questo suono del presente veniva considerato del futuro perché il futuro stesso era un tema nel presente dei Novanta. Andrebbe un po’ attorcigliata la questione.
Comunque, la Macchina ragiona diversamente.