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Giacomo Giossi
7.11.2025

Che succede a Baum? di Woody Allen

Giacomo Giossi collabora con giornali e riviste.
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R omanzo ricchissimo di battute, ironia e scene comiche, Che succede a Baum? (2025, traduzione di Alberto Pezzotta) di Woody Allen è certamente più efficace di molti dei suoi ultimi film, quanto meno da A Rainy Day in New York del 2019 in poi. Tuttavia questa premessa non è sufficiente per definire Che succede a Baum? un buon romanzo e soprattutto un romanzo che possa rispondere alle aspettative degli spettatori/lettori del grande regista newyorkese. Scritto alla soglia dei novant’anni, Che succede a Baum? è un ottimo compendio delle qualità del suo autore, un pastiche sicuramente riuscito dell’idealtipo alleniano tra nevrosi e occhiali dalla montatura nera.

La vicenda ha per protagonista uno scrittore in via di fallimento crescente che vaga tra le strade di New York in cerca di sé stesso come di quel che resta dei negozi di dischi e delle librerie della città, ultime zone franche possibili per lui, per le sue passioni e per le sue malinconie. Il mondo attorno infatti pur essendo da sempre per Baum profondamente assurdo e incomprensibile appare ora anche parecchio ostile e dichiaratamente pericoloso. Quel poco di fortuna che sembrava avere con sé sembra essersi del tutto diradata con la pubblicazione degli ultimi romanzi e ora a poco più di cinquanta anni davanti a lui resta solo la prospettiva sempre più negletta di una vita ridotta ai margini. Un pensiero totalmente angosciante, tanto più che nel medesimo momento l’odiato figlio della moglie, ora brillante scrittore esordiente, viene acclamato da critica e pubblico come il nuovo grande romanziere americano.

Scritto alla soglia dei novant’anni, Che succede a Baum? è un ottimo compendio delle qualità del suo autore, un pastiche sicuramente riuscito dell’idealtipo alleniano tra nevrosi e occhiali dalla montatura nera.

Al solito per i personaggi di Woody Allen il rapporto problematico e ossessivo con le donne non è solo centrale, ma una vera costante fatta di errori di valutazione e assurde quanto improbabili fascinazioni che si traducono per Baum rapidamente in matrimoni sbagliati, brutte figure, delusioni e ora anche in approcci maldestri e sconsiderati che rischiano oltre tutto di rovinargli definitivamente quel poco che gli resta di reputazione e di esistenza pubblica. Baum predilige però l’implosione all’esplosione e si chiude così drammaticamente come comicamente in sé stesso alimentando un monologo e un borbottio continuo con cui si accompagna per le strade di New York. In questi frangenti Baum ricorda a sé stesso l’infanzia felice e il debito con l’universo che subito ne ha esaurito ogni possibile gioia e leggerezza:
No, non c’era motivo per crescere con la paura della solitudine perché non era mai stato lasciato solo, traumatizzato, affidato a governanti, abbandonato, perso in metropolitana. Eppure, per qualche ragione, in tenera età un’ombra era scesa su Baum, quando gli era stato chiaro che il minuscolo spazio che occupava nell’universo ostile, l’universo un giorno lo avrebbe rivoluto indietro.

Nessuna via di fuga gli era più possibile che non fosse il lavoro, come la condanna di Sisifo, non gli restava così che riprendere quotidianamente quell’enorme masso e riportarlo nuovamente sulla cima, per ogni giorno della sua vita.

Baum non è infatti diverso da Sam/Allan Felix, da Alvy Singer, da Ike Davis, da Sandy Bates e da quasi tutti i personaggi portati in scena da Allen o da altri interpreti da lui scelti in particolare negli ultimi anni. Una forma di autobiografismo espanso al limite estremo perché in fondo il grande romanzo, Woody Allen lo ha scritto con la sua autobiografia A proposito di niente (2020), che non a caso esprimeva il medesimo ritmo efficacemente straordinario della sua migliore filmografia. Qui invece sembra offrire più che altro il catalogo delle proprie ragioni narrative e in tal senso Che succede a Baum? è più rivelatore della sua arte e della sua incredibile capacità di scrittura e riscrittura che della sua comunque certa capacità narrativa. Il borbottio di Baum è in fondo il borbottio di un artista che da novanta anni scrive e riscrive di sé e della sua città tentando di dare ragione del proprio spazio fisico e urbano, della propria irriducibilità umana prima ancora che delle proprie ragioni e dei propri sentimenti, che in fondo non sono altro che parti di una cronaca tutto sommato irrilevante rispetto alla paura che fa la vita e ai brividi e alle meraviglie che può comportare.

Il grande romanzo Woody Allen lo ha scritto con la sua autobiografia A proposito di niente, che non a caso esprimeva il medesimo ritmo efficacemente straordinario della sua migliore filmografia. Qui invece sembra offrire più che altro il catalogo delle proprie ragioni narrative.

Più che un romanzo dunque un doppio manuale, di istruzioni, ma anche di preghiera. L’illusione da tenere a bada con il lavoro, ma il lavoro che occupandogli l’intera vita ha il ruolo di alimentare un’illusione di salvezza, un possibile trionfo ‒ e spesso così è stato ‒ che viene però subito spento e cancellato da una caduta improvvisa quanto fragorosa. Woody Allen è uno dei grandi geni del secondo Novecento e lo è in particolare nella sua capacità di indagare fragilità e debolezze che non sempre afferiscono però al grado di tragedia, ma vivono fortemente nell’imbarazzo là dove la debolezza è spesso raramente raccontata. Un imbarazzo che diviene nel caso di Allen comico solo a patto di riconoscerlo come comune, difetto o errore che appartiene a un tempo e a un modo di vivere che è stato tanto rivelatore come tanto ricco di contraddizioni.

Fuori da questo schema organizzato e fortemente strutturato Woody Allen non può stare, le sue sono griglie narrative che illuminano lo schermo cinematografico grazie a infinite sfumature possibili, date da un’elaborazione che parte sì da lui, ma che all’interno della produzione cinematografica vive più grazie a una forma espansiva di liberazione che per una forma di controllo ossessiva. Sulla pagina invece, purtroppo il miracolo non avviene e quello che resta di Cosa succede a Baum? assomiglia a un Woody Allen minore se non di maniera. Un autore capace di pagine straordinarie, ma che nell’insieme appaiono sempre troppo fragili e a tratti addirittura sterili. Allen tende ad abbandonare la pagina troppo presto, non gli interessa esercitare un controllo, definire la scrittura, ma dare corpo alla scena e poi vada come vada. Il gesto dunque che prevale su tutto anche sull’opera finale, una modalità che prevede istantaneità più che immedesimazione, cinema più che letteratura.

Sulla pagina il miracolo non avviene e quello che resta di Cosa succede a Baum? assomiglia a un Woody Allen minore se non di maniera. Un autore capace di pagine straordinarie, ma che nell’insieme appaiono sempre troppo fragili e a tratti addirittura sterili.

Tuttavia resta un romanzo che illumina e non poco sulla capacità di lavoro del grande regista newyorkese e che ha il sapore di un fuori tempo massimo più malinconico che decadente perché tornando proprio a Baum, tutto quello che a lui manca sembra mancare esattamente allo stesso modo anche ai suoi lettori. E non si tratta solo di dischi e libri, di mostre e musei, ma di passeggiate e chiacchierate senza l’ossessione di una scadenza sempre imminente, di un risveglio o di un allarme sempre pronto a suonare:
Gli tornò alla mente un ricordo di molti anni prima. Perché le notti piovose riportavano alla mente i ricordi? si chiese. Anche i pomeriggi piovosi, se per questo. Qual era il motivo? Che connessione poteva esserci tra un’umidità del cento per cento e l’ippocampo? Fatto sta che le gocce cadevano e riattivavano la memoria. A Baum, almeno, succedeva sempre così.

Anche in questo caso non è una mera questione di tecnologia, ma di libertà mentale, di darsi una possibilità che sia di volta in volta casuale come meditata, o come direbbe il suo Boris Yellnikoff: “Whatever works”, basta che funzioni. Ciò che la pioggia o l’amore diversamente, attivano è una distrazione da sé stessi, ma quello che è essere sé stessi per gli uomini come Woody Allen, nati negli Stati Uniti alla viglia del loro trionfo mondiale, è lavorare, realizzarsi, dare forma ai propri sogni e desideri. Una vera ossessione il cui finale e le contraddizioni che lo preannunciano portano a un vicolo cieco o meglio all’impossibilità di smettere di darsi da fare riportando sempre in cima alla montagna il masso di Sisifo. A novanta anni Woody Allen è testimone di una grandezza che ha nelle sue origini una forza ancora del tutto contemporanea, ma non nelle sue prospettive ormai legate a un Novecento che oggi ha il sapore astratto di un paese dei balocchi. Che succede a Baum? purtroppo non buca quell’immagine, non valica il secolo, ma offre il ritratto di uno dei più importanti artisti di quel tempo, anche nei suoi limiti più o meno comici:
Cosa volesse davvero, era il primo a non saperlo. Sapeva solo di essere già stato all’inferno e non voleva tornarci. Eppure sentiva già odore di zolfo che bruciava. Pensò che avrebbe aspettato che lei parlasse e poi avrebbe osservato il proprio corpo e visto che cosa faceva. Si sarebbe osservato da lontano e, come un semplice spettatore, forse non sarebbe stato responsabile delle azioni che avrebbe potuto tentare la sua persona.

Smettere dunque con tutto, con sé stesso tanto per cominciare e diventare per una volta spettatore, restare a guardare. Una volontà passiva inseguita forse per tutta la vita.

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