A lla parola paesaggio comunemente associamo la vista su delle colline, il verde dei boschi, una pianura nella nebbia: molto dipende da dove siamo cresciuti, qual è il posto a cui siamo legati in modo particolare, ma tendenzialmente il paesaggio, nella nostra testa, somiglia molto a un quadro, è un panorama legato quasi esclusivamente alla vista. Eppure un aspetto fondamentale dei luoghi è quello sonoro: ogni posto ha un suo soundscape, un paesaggio sonoro specifico, che varia, esattamente come l’aspetto visivo, allo scorrere delle ore del giorno e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare degli anni.
Per chi vive in città il soundscape è un assedio di rumori incessanti, ma anche quei luoghi che consideriamo più silenziosi – la cima di una montagna, una spiaggia deserta – sono intessuti di suoni.
Fra questi due estremi, dal fastidio violento alla piacevolezza pacifica, si muove la considerazione quasi puramente estetica che abbiamo del paesaggio sonoro: ma prestare attenzione a cosa ci dicono i suoni può essere fondamentale per accorgerci dei cambiamenti avvenuti in un ambiente, della riduzione della biodiversità, della salute di un territorio, e dei benefici o danni che i suoni possono apportare agli esseri viventi che lo abitano. A volte, infatti, è proprio tendendo l’orecchio al paesaggio che ci arriva un segnale di allarme. Primavera silenziosa, il famoso saggio di Rachel Carson pubblicato nel 1962 che in qualche modo ha dato avvio al movimento ecologista statunitense, si apre con una domanda: “Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade d’America?”. Il silenzio che improvvisamente dominava la primavera, al posto del canto di innumerevoli specie di uccelli e del ronzio delle api, è l’aspetto scelto dalla biologa per presentare, fin dal titolo, la sua indagine sulle conseguenze dell’uso indiscriminato del DDT e di altri fitofarmaci.
Qualche anno dopo, all’incirca dalla fine degli anni Sessanta, alcuni studiosi hanno cominciato a occuparsi di ecologia acustica, o ecologia dei paesaggi sonori – ossia quella branca dell’ecologia che studia le relazioni fra i suoni di un paesaggio e gli esseri viventi che lo abitano – nella convinzione che l’aspetto sonoro delle questioni ambientali sia un tassello importante, che ci può dire molto sullo stato di salute degli ecosistemi, sulla progettazione degli spazi urbani, sui modi di condurre la transizione, sulle vite che vogliamo, perfino sulla pace che desideriamo.
Quando parliamo di paesaggio tendenzialmente pensiamo a un panorama legato quasi esclusivamente alla vista. Eppure, un aspetto fondamentale dei luoghi è quello sonoro: un paesaggio altrettanto specifico, che varia allo scorrere delle ore del giorno e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare degli anni.
L’antropofonia e l’inquinamento acustico
Per cominciare a indagare di cosa è fatto un paesaggio sonoro possiamo partire dalla divisione dei suoni in tre macrocategorie, o domini. Il primo è la geofonia, ossia l’insieme dei suoni naturali provenienti da fonti abiotiche – il mare, un fiume, il vento, un tuono, il brontolio selvaggio di un terremoto, l’eruzione di un vulcano: ed è proprio l’eruzione del Krakatoa nel 1883 ad aver generato l’onda sonora più potente mai registrata, con un boato di 310 decibel (dB). C’è poi la biofonia, tutti quei suoni naturali emessi dagli esseri viventi, animali e vegetali. Infine, l’antropofonia, cioè ogni nota, rumore, boato o scricchiolio prodotti dagli umani, dalla musica più raffinata all’insopportabile rombo di un aereo in decollo.
Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di esposizione al rumore, per quanto riguarda le città esistono solo delle raccomandazioni dell’OMS che vengono in larghissima parte disattese.
Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di esposizione che fissano a 80 dB la soglia media di attenzione (con picchi non oltre i 135 dB) e a 87 dB la media massima che non può essere superata (con picchi di 140 dB), per i rumori degli ambienti urbani in cui siamo immersi esistono solo delle raccomandazioni dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che vengono in larghissima parte disattese. Secondo le linee guida sul rumore ambientale per l’Europa dell’OMS, infatti, il limite di esposizione al rumore del traffico su strada sarebbe di 53 dB di giorno, 45 dB di notte. Quasi un cittadino su tre, in Europa, vive in ambienti che superano, spesso anche di molto, questi limiti: sono circa novantadue milioni di persone. Diciotto milioni di persone, sempre in Europa, vivono in zone in cui il traffico ferroviario produce rumori oltre la soglia prevista; e due milioni e mezzo di persone sono esposte al rumore del traffico aereo.
Effetti dell’inquinamento acustico
La scarsa attenzione che prestiamo agli aspetti sonori dell’ambiente in cui viviamo si riflette anche nella poca considerazione che abbiamo per i danni che l’esposizione al rumore può avere: l’inquinamento acustico è fra le minacce ambientali più pericolose per la salute, dopo quello atmosferico e il caldo estremo. Lo scorso giugno, l’EEA (l’agenzia europea per l’ambiente) ha presentato il rapporto Environmental noise in Europe, secondo il quale l’inquinamento acustico è la causa di circa 66.000 decessi prematuri all’anno in Europa, 50.000 nuovi casi di malattie cardiovascolari e 22.000 casi di diabete di tipo 2. Oltre agli effetti diretti, ci sono quelli indiretti o a lungo termine, come acufeni, stress, ansia, disturbi del sonno e difficoltà di concentrazione, fino a depressione e demenza. Sono preoccupanti anche gli effetti sui più piccoli: pare che l’esposizione continua al rumore del traffico provochi difficoltà e ritardi nella lettura in circa mezzo milione di bambini e disturbi del comportamento su circa 60.000. Si stima anche che circa 272.000 casi di sovrappeso infantile possano essere associati a livelli alti di rumore.
L’inquinamento acustico è fra le minacce ambientali più pericolose per la salute: basti pensare che ogni anno, solo in Europa, causa 66.000 decessi prematuri. Per non parlare degli effetti indiretti su acufene, ansia, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione e depressione.
Il rumore delle armi, il rumore come arma
Se il rumore del traffico è diventato una presenza costante e pervasiva del paesaggio sonoro in cui siamo immersi, nel dominio dell’antropofonia in cima alla lista dell’intensità si trovano i suoni prodotti da armi e mezzi di guerra: il suono antropico più potente è quello generato dall’esplosione di una bomba atomica, che supera i 200 dB. Anche in questi casi l’aspetto acustico ci sembra marginale – e chiaramente di fronte a strumenti che producono morte il fatto che producano anche dei rumori è marginale – ma essere sottoposti continuamente a rumori così forti e innaturali, dal ronzio costante dei droni, al rombo degli aerei militari, e poi le esplosioni, gli spari, gli allarmi, le urla, ha degli impatti a lungo termine: in chi sopravvive; le conseguenze dell’esposizione prolungata a questo tipo di rumori sono una parte importante dei disturbi post-traumatici da stress, che spesso comprendono ipersensibilità ai rumori, specie se forti e improvvisi.
In cima alla lista dei suoni più potenti prodotti dall’essere umano ci sono quelli generati da armi e mezzi di guerra: l’esplosione di una bomba atomica, per dire, provoca un rumore che supera i 200 dB.
Nel documentario Vibrations from Gaza, dell’artista Rehab Nazzal, il suono della guerra oltre che invisibile diventa anche inudibile: i protagonisti sono bambini sordomuti della Striscia di Gaza – una di loro, Amani, dice che “è una benedizione essere sorda, così sono la meno terrorizzata quando bombardano” –, e per tutto il film gli unici rumori sono il ronzio dei droni e le onde del mare. I bambini raccontano quello che percepiscono degli aerei da guerra e delle bombe che cadono: le vibrazioni dell’aria, del pavimento e dei loro corpi: la fisicità del rumore, che rende impossibile il silenzio, finché non c’è pace, perfino per chi non è in grado di udire la guerra.
Il silenzio: non solo un’assenza di suoni
Pace e silenzio sono due parole spesso associate: e come non si può definire la pace per negazione, come solo assenza di guerra, così non si può definire il silenzio per pura sottrazione del rumore.
Un esempio chiaro del modo antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è che abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma sulla soglia minima di percezione umana.
In Storia naturale del silenzio (2024) Jérôme Sueur va a indagare proprio cosa c’è dentro il silenzio naturale, rendendo evidente che, se già prestiamo poca attenzione agli aspetti sonori delle nostre vite, ancora meno ne prestiamo al silenzio, che non è affatto univoco, né assoluto, né vuoto o assenza. Un esempio chiaro del modo tutto antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è che abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma sulla soglia minima di percezione umana: esistono in realtà suoni che misurano decibel negativi perfettamente udibili da molte specie, ciascuna con una sua soglia di silenzio differente.
La nostra idea comune di silenzio è un paesaggio sonoro in cui mancano del tutto i rumori umani: niente rombi di motori o stridore dei freni, niente allarmi, sirene e suonerie, niente annunci, megafoni e altoparlanti, niente cantieri, demolizioni e costruzioni.
Il silenzio dell’estinzione: l’ecoacustica per il monitoraggio della biodiversità
È da questo proposito – monitorare la biodiversità attraverso il suono – che, circa mezzo secolo dopo quell’intuizione di Rachel Carson, l’ecoacustica nasce ufficialmente come disciplina, nel 2014, in Francia, al Muséum national d’Histoire naturelle, grazie al lavoro di un gruppo di ricercatori, fra cui lo stesso Jérôme Sueur. Alcuni ecosistemi sono nascosti alla vista: è il caso dei ricercatori della Flinders University di Adelaide, nell’Australia meridionale, che hanno registrato i suoni prodotti dalle comunità sotterranee di invertebrati per monitorare lo stato di salute e di fertilità del suolo; oppure di specie indistinguibili all’occhio, ma non all’orecchio, come alcune specie di rane; o ancora di ecosistemi così vasti e difficili da raggiungere – l’oceano più aperto, le profondità marine più inaccessibili – dove poter semplicemente registrare e analizzare i suoni diventa il metodo più praticabile, e meno invasivo, di monitoraggio.
I suoni prodotti da ciascuna specie sono un indicatore della biodiversità ma anche, e soprattutto, una ricchezza in sé: e quando una specie scompare, quando l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i suoi richiami d’amore rivolti ormai a nessuno, perdiamo per sempre delle note, un gorgoglio, delle vibrazioni, una melodia che nessun altro essere vivente potrà replicare. Ogni singola specie non solo produce dei suoni caratteristici ma ha un diverso modo di percepirli, diversi spettri uditivi, diversi organi predisposti e diversi modi in cui le vibrazioni sonore vengono percepite ed elaborate. Così quando una specie scompare, non scompare solo il suono che produce, ma anche il suono che ascolta.
Quando una specie scompare, quando l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i suoi richiami d’amore rivolti ormai a nessuno, perdiamo per sempre delle note, un gorgoglio, delle vibrazioni, una melodia che nessun altro essere vivente potrà replicare.
Immaginare un futuro silenzioso
Possiamo ripensare il nostro impatto sui paesaggi sonori; ripensare le città tenendo a mente anche la necessità di contenere l’inquinamento acustico, per il benessere di chi in città ci vive; ripensare la pace: “far tacere le armi” non significa solo smettere di combattere, ma è un modo di lasciare spazio alla voce dei popoli che con le armi vengono sottomessi, soggiogati, silenziati, annientati; ripensare il silenzio: tacere, ridurre il rumore, non è creare un vuoto ma creare spazio, così come quella che chiamiamo decrescita non è una riduzione ma un modo diverso di crescere, dove alla crescita del PIL si sostituisce quella del benessere, della salute e della giustizia.
Abbassare il livello, e il peso, dell’antropofonia sull’ambiente significa quindi dare la possibilità di espressione ad altre specie animali, dar loro la possibilità di tornare a comunicare, a quell’ultimo esemplare di scoprire magari di non essere rimasto solo, e intercettare il verso di un suo simile prima che entrambi smettano di cantare. Significa dare a noi, specie umana, la possibilità di ascolto – delle altre specie, uscendo dal nostro antropocentrismo acustico, e di chi, all’interno della nostra, è stato meno ascoltato –, e di immaginare un cambiamento che tenga presente anche come potrebbe suonare il futuro che vorremmo, una transizione non solo ecologica, non solo energetica, non solo giusta socialmente, ma anche silenziosa, non per creare un vuoto sonoro assoluto ma per poter ascoltare tutta quella ricchezza di voci di cui è fatto il mondo, prima di perderle per sempre.