È almeno dal 2007 che ogni volta che esce un film di Paul Thomas Anderson è un evento. L’esordio del 1996, Sydney, poi l’acclamato e piccante Boogie Nights – L’altra Hollywood (1997). Con Magnolia (1999) ci trovavamo già di fronte a un regista che affrontava il tema dell’esistenza in maniera sfaccettata, ma capace anche di parlare diretto con commedie romantiche come Ubriaco d’amore (2002). Poi il successo e l’ingresso nel pantheon dei grandi registi con una pellicola, Il petroliere (2007), che parla della ferocia umana e del potere avendo in mente il capitalismo contemporaneo, ma nel cuore film come Quarto potere. È stato da quel momento infatti che si è iniziato a parlare del “cinema di Paul Thomas Anderson”; con il suo perfezionismo tecnico, capace di portare in auge classici del minimalismo (Fratres di Arvo Pärt), rendendoli ineditamente cinematografici, epurandoli dallo spiritualismo – quindi secolarizzandoli – per coglierne la trama insitamente paranoica e schizofrenica.
The Master (2012) ha molti punti in comune con Il petroliere, perlomeno quelle parti iniziali in cui Anderson fa ambientare molto lentamente lo spettatore, mostrandogli una serie di eventi e fatti, cose che succedono nel tempo, raccontate quasi distrattamente, fino a cambiare improvvisamente ritmo, per costruire dialoghi serrati e sequenze memorabili. Vizio di forma (2014) invece punta molto sulla psichedelia, sul confine tra realtà e illusione, sull’acidità della Storia: insomma su Thomas Pynchon. Questa cosa la condivide un po’, anche se in maniera molto più scanzonata, con Licorice Pizza (2018). Il filo nascosto (2017) resta il suo film più anomalo e incatalogabile. Intanto non è ambientato come diversi altri suoi film a San Fernando Valley (dove è realmente cresciuto), ma in Europa, più precisamente nell’Inghilterra degli anni Cinquanta. Sembrerebbe un Ubriaco d’amore borghese, ma è quanto di più diverso. È un film che racconta il lato oscuro dell’amore (e in generale dei rapporti umani), ovvero i suoi capovolgimenti repentini di potere, irrazionali. Un ricco e famosissimo stilista (Daniel Day-Lewis) può essere sottomesso da una cameriera qualunque (Vicky Krieps) che per quasi tutto il film viene umiliata e derisa.
Paul Thomas Anderson è un grandissimo regista hollywoodiano, capace di mescolare grandi e profonde tematiche all’intrattenimento, che non ha sbagliato un colpo. Almeno fino a quest’ultimo Una battaglia dopo l’altra.
Un breve commento sulla carriera di Paul Thomas Anderson? È un grandissimo regista hollywoodiano. Capace di mescolare grandi e profonde tematiche all’intrattenimento, non ha sbagliato un colpo. Almeno fino a quest’ultimo Una battaglia dopo l’altra (2025).
Si tratta del suo decimo lungometraggio, ed è senza dubbio il suo progetto più ambizioso e dispendioso. Un film epico a tinte politiche (il cui titolo proviene nientemeno che da una frase di Angela Davis), tratto liberamente dal romanzo Vineland, ancora una volta di Thomas Pynchon, che ha richiesto un investimento produttivo fuori scala per gli standard del regista. Basti pensare che la Warner Bros. ha finanziato l’opera con un budget di circa 130-140 milioni di dollari (su Wikipedia si parla di 130-175 milioni di dollari). Senza dubbio il più alto mai ricevuto da Anderson in carriera.
Per confronto, la maggior parte dei suoi film precedenti è costata una frazione di tale cifra (ad esempio Il petroliere ebbe un budget che si aggirava attorno ai 25 milioni). Questo enorme balzo di risorse è dovuto in parte alla presenza di Leonardo DiCaprio come protagonista: la star hollywoodiana, alla sua prima collaborazione con Anderson, avrebbe percepito un cachet di circa 20-25 milioni di dollari, elemento che ha convinto Warner Bros. a dare semaforo verde al progetto. Accanto a DiCaprio troviamo un cast di alto profilo che include veterani come Sean Penn, Benicio Del Toro e Regina Hall, oltre alla cantante/attrice Teyana Taylor e alla giovane esordiente Chase Infiniti nei panni dell’importante ruolo della figlia del protagonista.
Perché Paul Thomas Anderson, autore di film spesso intimi e “senza tempo”, ha deciso di cimentarsi con un grande affresco politico d’azione?
Le riprese si sono svolte nel 2024 tra la California (nella contea di Humboldt e a Sacramento) e il Texas, non senza qualche curiosità: durante i ciak a Sacramento si è dovuto ad esempio sgomberare un campo di senzatetto che si trovava nell’area prescelta come set. Insomma, una prima battaglia, cui ne hanno fatto seguito sicuramente anche delle altre… La domanda sorge infatti spontanea. Perché Paul Thomas Anderson, autore di film spesso intimi e “senza tempo”, ha deciso di cimentarsi con un grande affresco politico d’azione? Intendiamoci, ci sono momenti di cinema nel film, come ad esempio la scena dell’inseguimento tra i sali e scendi delle strade in mezzo al deserto – ed è un Anderson inedito questo, quasi da intrattenimento. C’è anche un DiCaprio in grandissima forma. Ma perché Anderson ha deciso di fare un film esplicitamente politico?
Intanto Vineland, romanzo del 1990 in cui Pynchon, tornando al romanzo dopo quasi due decenni, rifletteva con toni satirici e malinconici sulla fine delle utopie rivoluzionarie degli anni Sessanta e sull’apatia dell’era Reagan, era un testo che aveva in mente da decenni di portare sullo schermo, avendoci lavorato per circa venti anni. Già nel 2014 il regista ammise che adattare fedelmente Vineland sarebbe stato troppo complesso e che avrebbe preferito rubarne gli elementi più stimolanti per farne qualcosa di proprio. Ed è in effetti ciò che ha fatto, anche perché il film è scritto dal regista ed è invece, come appare nei titoli, solamente “ispirato” dal libro di Pynchon: Anderson ha trasposto in chiave contemporanea il conflitto centrale di Vineland, costruendo una storia originale che ne rielabora temi e personaggi chiave, dal momento che per anni le vicende di quel romanzo continuavano a tormentarlo creativamente. Un elemento in particolare gli dava la motivazione per proseguire: il rapporto padre-figlia; un tema che Anderson – padre di quattro figli nella vita reale – sentiva di poter esplorare in modo personale: “Se sei un papà e giri un film su un papà che cerca disperatamente di proteggere sua figlia, lo sentirai in modo profondo”, ha dichiarato. Questa dimensione intima e familiare è dunque il filo emotivo e principale che Anderson ha intrecciato attorno alla cornice politico-sociale del racconto, nel tentativo di umanizzare una storia altrimenti incendiaria.
Anderson ha trasposto in chiave contemporanea il conflitto centrale di Vineland, di Thomas Pynchon costruendo una storia originale che ne rielabora temi e personaggi chiave, dal momento che per anni le vicende di quel romanzo continuavano a tormentarlo creativamente.
Anderson non ha mai fatto un film esplicitamente politico, sebbene alcuni suoi film siano intrinsecamente politici. Eppure qui, non ha avuto timore di prendere lo spettatore e gettarlo in mezzo al puro caos ideologico. In un’intervista ha spiegato di non voler fare mera propaganda attuale: “Il più grande errore sarebbe mettere la politica in primissimo piano”, ha detto, chiarendo che per reggere un film di quasi tre ore servono personaggi e sentimenti solidi. Una piccola lezione su come scrivere un film. Il suo obiettivo era intrecciare i grandi temi con le vicende umane, in modo che lo spettatore si appassionasse alle sorti dei protagonisti, al di là del messaggio ideologico. Non a caso, il regista insiste che le dinamiche di Una battaglia dopo l’altra trascendono la contingenza attuale: “Questa storia poteva essere raccontata 20 anni fa, nel Medioevo, o persino nello spazio”, afferma Anderson, sottolineando come i conflitti di fondo tra oppressori e oppressi siano ciclici. “Pensare che le cose siano cambiate è un errore”, aggiunge, affermando che né il fascismo né la cattiveria umana passano mai di moda.
L’obiettivo di Anderson era intrecciare i grandi temi con le vicende umane, in modo che lo spettatore si appassionasse alle sorti dei protagonisti, al di là del messaggio ideologico.
Un aspetto peculiare di Una battaglia dopo l’altra è proprio la sua ambientazione temporale sfuggente. Il film è dichiaratamente collocato ai giorni nostri, con allusioni all’America post-Trump, eppure, l’estetica e i riferimenti culturali richiamano spesso gli anni Sessanta/Settanta: lo stesso gruppo French 75 è modellato sui movimenti radicali di quell’epoca (come detto, gli Weathermen americani), mentre il personaggio di Perfidia sembra uscito da un film blaxploitation di inizio anni Settanta, come quelli impersonati da Pam Grier, con il suo stile aggressivo e slogan incendiari. Anderson ha di proposito creato un presente “sospeso” e anacronistico, in cui tecnicamente siamo nel Ventunesimo secolo ma tutto – dai costumi, alle musiche rock psichedeliche, fino ai metodi da guerriglia vintage – ricorda l’iconografia delle vecchie rivoluzioni. Il presente appare “macchiato” dal passato, quasi fossimo di fronte a una realtà parallela in cui il tempo non è progredito.
Da un lato, questa scelta rinforza uno dei messaggi chiave del film – ovvero che gli ideali e i conflitti di ieri ritornano immutati oggi, in un eterno ciclo. Le immagini di manifestazioni, repressioni violente e complotti ricordano volutamente quelle che vediamo nei cinegiornali d’archivio tanto quanto nei telegiornali attuali. D’altro canto, questa ibridazione temporale rischia di confondere lo spettatore. La narrazione non chiarisce mai del tutto in che anno preciso ci si trovi, e alcuni elementi risultano volutamente fuori dal tempo: ad esempio, le giovani reclute del French 75 comunicano con codici e rituali quasi da cultura hippie, oppure brandiscono armi analogiche come fossero in un vecchio film di guerriglia, mentre i loro nemici complottano in salotti massonici rétro. Questa scelta artistica può essere affascinante – dona al film un’aura da allegoria universale – ma allo stesso tempo può apparire artificiosa. Una battaglia dopo l’altra finisce per raffigurare un oggi immaginato tramite il filtro dei ricordi storici. La battaglia generazionale messa in scena – con giovani rivoluzionari confusi ma pieni di entusiasmo, contrapposti a vecchi potenti corrotti e reazionari – sembra quasi figlia di un altro periodo, e non sempre coglie le specificità del mondo contemporaneo. Sicuramente i giovani rivoluzionari di oggi sono confusi, ma tanto per cominciare non mettono più le bombe – nel bene e nel male.
Una battaglia dopo l’altra finisce per raffigurare un oggi immaginato tramite il filtro dei ricordi storici. La battaglia generazionale messa in scena sembra quasi figlia di un altro periodo, e non sempre coglie le specificità del mondo contemporaneo.
Un altro dei punti deboli del film è proprio l’assenza di un nemico esplicitamente riconosciuto. O, al contrario, forse semplicemente troppo riconoscibile. Anderson dice di non voler mettere la politica in primo piano, facendo di tutto per camuffare il nemico, addirittura provando a confonderci con la dimensione temporale, eppure ciò che emerge dalla pellicola sembra essere molto schiettamente un film contro l’era Trump, come tanti altri. Tra l’altro, Una battaglia dopo l’altra è stato vittima di un selvaggio review bombing da parte del movimento MAGA (Make America Great Again), la destra trumpiana, che, evidentemente si è sentita chiamata in causa, e ha iniziato a dare una stelletta sui vari siti di recensioni cinematografiche, nonostante gli altri voti altissimi.
Un altro dei punti deboli del film è proprio l’assenza di un nemico esplicitamente riconosciuto. O, al contrario, forse semplicemente troppo riconoscibile.
Il personaggio interpretato da Sean Penn è talmente parodistico da risultare imbarazzante. Non dovrebbe ricordare nessuno di realmente esistito, eppure quando a un certo punto del film appare sfigurato nel volto somiglia in maniera impressionante all’ufficiale nazista Otto Skorzeny: colui che fu a capo dell’Operazione Quercia, ovvero quell’intervento che su ordine di Hitler, permise la liberazione di Mussolini, tenuto prigioniero a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, dopo essere stato arrestato nel luglio del 1943. Inoltre, dopo le apparizioni di Sean Penn al festival di Cannes con i soldati dell’esercito ucraino al suo fianco, coinvolgerlo in progetti rappresenta per certi versi anche questo un piccolo gesto politico.
Per concludere, se l’intento era quello di fomentare nello spettatore un senso di urgenza e indignazione verso i mali del presente, questa narrazione rischia di lasciarlo spiazzato, chiedendogli di parteggiare per una causa che appare quantomeno confusa – se si cerca, come suggerisce il regista, di andare oltre alla battutissima critica trumpiana di questi tempi. In altre parole, Paul Thomas Anderson ha sempre saputo trasformare l’epoca rappresentata in un dispositivo universale; qui invece è l’oggi a risultare opaco, filtrato da un immaginario che appartiene ad altri decenni.