

L a forma breve detta altrimenti racconto è per Lydia Davis in realtà una strategia per arrivare a una scrittura automatica, un flusso unico, compatto e continuo in grado di celebrare ogni singolo momento dell’esistenza, facendo rilucere la quotidianità, anche quella considerata a torto spesso banale o ovvia. La scrittura come un momento capace di dare corpo a una scia luminosa, essenziale, rapida e mistica, ma soprattutto esistenzialmente fondamentale per comprendere i chiaroscuri della vita e le sue inevitabili incertezze. Associata alla scuola del minimalismo, Lydia Davis è ancora poco nota in Italia nonostante gli sforzi di Rizzoli, Minimum Fax e ora di Mondadori che manda in libreria in questi giorni ‒ dopo Osservazione sulle faccende domestiche (2022) ‒, I nostri estranei, una raccolta uscita originariamente negli Stati Uniti nel 2023 e qui tradotta splendidamente (come sempre) da Gioia Guerzoni.
Lydia Davis sconta la diffidenza e spesso più facilmente l’indifferenza dei lettori che da sempre ‒ regola aura dell’editoria ‒ appaiono più attirati dalla forma romanzo che dalla forma racconto. Un dato che in parte vive in contraddizione con i tempi attuali che dettano in continuazione velocità e rapidità e che in generale vedrebbero così favorita la forma breve alla forma lunga. Ma probabilmente l’insicurezza unita all’ambizione a cogliere e immergersi nella grande opera predispongono chi legge a imbarcarsi più favorevolmente per un lungo viaggio che per una breve gita come sono spesso le storie e le storielle (in senso tutt’altro che dispregiativo) che condiscono e illuminano i libri di Davis. Racconti che spesso sono fatti di poche righe, impressioni dettate sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno sguardo abbagliato e incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere espandendolo così nel fondo della memoria dei suoi lettori. Basta molto poco a Lydia Davis per far accadere una storia su una pagina, ma oltre il racconto che di volta in volta si pone davanti agli occhi è l’opera che appare di una straordinaria compattezza. Sostanzialmente un unico lunghissimo racconto, un oggetto letterario monumentale che ha la forma ultima e critica dell’autobiografia di una scrittrice al lavoro, anzi nel mentre del suo lavoro.
I racconti di Davis spesso sono fatti di poche righe, impressioni dettate sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno sguardo abbagliato e incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere espandendolo così nel fondo della memoria dei suoi lettori.
L’opera di Lydia Davis appare come un infinito flusso in continua evoluzione dentro cui zampilla e saltella un allegro e musicale movimento d’onde che dà corpo a una ultracontemporanea e al tempo stesso attualissima Antologia di Spoon River.
Il movimento che l’autrice impone ai suoi lettori è quasi cinematografico, una sorta di piano sequenza warholiano in cui tutto quello che può accadere sta già accadendo in quell’unico e dunque preciso istante. Un mentre che si posizione perfettamente davanti agli occhi dello spettatore/lettore, senza però che vi sia mai la necessità di mettere l’evento in evidenza, sottolineandolo o delineandolo all’interno di una narrazione di particolare straordinarietà. Tutto per Davis vive al medesimo stadio d’importanza: “quella nota sarebbe rimasta completamente isolata nello spazio, al centro dell’attenzione di tutti coloro che ascoltavano, isolata come qualsiasi altro suono che avresti emesso, e avrebbe riecheggiato nella vastità della chiesa con tuo grande imbarazzo”.
I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che espandono il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una ritmica dall’armonia totalmente jazzistica.
I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che espandono il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una ritmica dall’armonia totalmente jazzistica. Minute che riportano alla letteratura di Robert Walser, da sempre un riferimento per Davis, dentro cui a guidare è la lingua prima della trama. È nell’essere ferma, istantanea che si definisce infatti la cifra della scrittrice americana, in particolare in questa ultima raccolta in parte criticata proprio perché sembra non andare oltre l’abituale e confortevole giardino che da sempre Davis offre ai suoi lettori. Ma forse la direzione da ricercare non è nel movimento, ma in quel non movimento che offre una fotografia diretta della vita come della morte e del guaio che è riuscire a far tornare ‒ da bambini come da vecchi ‒ tutti i conti.