

S enza volto, no face. Aleggia nella Città Incantata, nessunə sa chi è, ma solo che è lì, tra le vasche di Yubaba. Appare e sparisce, e che sia uno o siano cento, il risultato è lo stesso: denuncia la corruzione dell’oro. Chiunque e nessuno dietro la maschera: uno spirito della Città Incantata di Hayao Miyazaki, ma anche un’idea politica. Lasciare indietro il volto, travisarsi come forma di resistenza collettiva. Io traviso, tu travisi ed egli non riconosce. Non in quel noi. Non sa dove mettere le mani. Che persone pigliare. Quali perseguitare. Manifestare a volto coperto fa della sicurezza delle singole persone una possibilità ‒ seppur erosa dalla tecnologia ‒ rendendole al contempo un simbolo. A volto coperto la singola persona diventa qualcosa di più grande, e nella politica crea perturbazioni e timori. Ed è proprio per questo che fa paura. Paura persino al presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump.
Le fiamme di Los Angeles, le proteste, sono racchiuse nell’immagine, diventata virale nell’arco di poco, di una persona a torso nudo. In piedi sull’auto della polizia con una bandiera del Messico tra le mani e il volto completamente coperto. Nulla urla “Fuck ICE” più di quest’immagine: la sfida all’intoccabilità della polizia. Iconica l’immagine ed iconica la reazione. Da Truth, la versione trumpiana del fu Twitter, il presidente statunitense ha ordinato agli agenti schierati di arrestare le persone a volto coperto. Letteralmente e in lettere maiuscole: “ARRESTATE TUTTE LE PERSONE MASCHERATE, ORA!”. Per Trump, le proteste di Los Angeles sono sintomo di disordine, del controllo che sfugge. Le azioni dei manifestanti, infatti, respingono al mittente le pratiche di deportazione ‒ volute dall’attuale amministrazione ‒ compiute di notte, da agenti armati e a volto coperto.
Il che potrebbe apparire assurdo considerando che la divisa mimetica in città risalta anche di più, ma in verità risponde a uno scopo: palesare una presenza militare e quindi intimorire. Per questo gli agenti della ERO (Enforcement and Removal Operations, un’unità dell’ICE, Immigration and Customs Enforcement) agiscono a volto coperto. Il corpo armato dello Stato può celarsi e tutelarsi, mentre lo stesso criterio pare non applicarsi, perlomeno in termini di legittimità, a chi è sottoposto all’autorità di quel medesimo potere. Si svela perciò una doppia morale, che tutela il volto coperto quando a celarsi è lo Stato, ma che ne fa un atto criminale quando a usarlo è chi contesta sistemi oppressivi. Un’asimmetria che si svela e che fa, letteralmente, calare la maschera al potere.
Ogni simbolo ha un significato, perciò difficilmente si può ritenere che una scelta istituzionale sia casuale. In una società che si rispetti, questi si inseriscono in una conversazione che, perciò, prevede e innesca delle risposte. In questo caso, la scelta di una mobilitazione colossale che usa la guerriglia urbana come mezzo di contenimento e minaccia nei confronti di chi sta perseguitando le persone immigrate sul territorio statunitense: le forze dell’ordine, certo, ma soprattutto chi queste procedure le ha volute implementare, e cioè le istituzioni.
A volto coperto la singola persona diventa qualcosa di più grande, e nella politica crea perturbazioni e timori.
Pochi anni dopo, nel 1775, nonostante i tentativi di rabbonire i coloni da parte del Regno Unito, iniziò la Guerra d’indipendenza. Proprio da quel 16 dicembre 1773 il potere inglese non si è più ripreso, messo in bilico dagli atti di persone che scelsero di nascondere, per quanto possibile, la loro identità. Se allora il volto coperto era stata una strategia di chi già aveva un potere maggiore rispetto ad altri, le proteste attuali lottano proprio contro quel medesimo potere, denunciando la matrice coloniale che nutre il razzismo sistemico negli Stati Uniti. La volontà, ora, è quella di fare dell’anonimato un atto collettivo capace di far tremare il potere, tutto.
Spesso il Boston Tea Party è glorificato dagli stessi che ne temono il retaggio, senza una riflessione critica. L’inquinamento storico del volto coperto, viene perciò ribaltato, in diverse proteste, che lo reclamano ‒ a volte indossando balaclava rosa, come è accaduto poco tempo fa con l’occupazione del Pirellino a Milano ‒, perché sia un atto ribelle e non un atto a sua volta violento. Il volto coperto, quindi, può trascendere i suoi usi, in base alle rivendicazioni e alla natura delle lotte che lo indossano. Le proteste No Kings, infatti, sono state organizzate per contestare il modello imperiale voluto da Trump, e si basano sul presupposto che gli Stati Uniti sono stolen lands, terre rubate proprio alle Prime Nazioni. Territori invasi dai coloni, con una serie di strumenti che hanno marginalizzato e tentato di rimuoverne l’identità, di cancellare la loro storia e, quindi, la loro voce sul mondo. Una voce che nella protesta, invece, risuona forte e chiara.
Il volto coperto ha una storia fortemente connessa all’azione contro oppressioni sistemiche. Nei primi del Novecento, le suffragette, soprattutto quelle impegnate in azioni dirette ‒ ovvero le suffragiste, per questo spesso identificate come terroriste ‒ cercavano di rendersi poco riconoscibili, modificando le proprie espressioni e posture, per sfuggire al monitoraggio fotografico costante a cui erano sottoposte. Le foto, oltretutto, erano spesso alterate dalle autorità per restituirne un’immagine pericolosa o sciocca. Una foto di archivio del 1936, durante una protesta contro la guerra, ritrae diverse donne, suffragette, che indossano maschere antigas bianche fatte di carta. L’anonimato visivo, quindi, era ricercato come deterrente all’identificazione e come performance. Facendo un salto temporale e rincorrendo le proteste più note, il maggio francese del Sessantotto vide una quasi totale assenza di volti coperti. L’anonimato corporeo, in questo caso, passava in secondo piano in forza del numero immenso di partecipanti che, nella massa, hanno trovato la protezione necessaria per la protesta.
Il corpo armato dello Stato può celarsi e tutelarsi, mentre lo stesso criterio pare non applicarsi, in termini di legittimità, a chi è sottoposto all’autorità di quel medesimo potere.
In Europa, e più in generale nei Paesi occidentali, il volto coperto è temuto. Una paura politica incanalata contro quella modalità di protesta in cui la copertura interessa il volto e tutto il corpo, creando un anonimato quasi integrale. La tattica di protesta black bloc è stata per la prima volta descritta nel maggio del 1980, nella Germania Ovest, nel contesto di proteste contro sgomberi, movimenti neonazisti e più in generale, contro le autorità centralizzate. Ha, quindi, una matrice identitaria profondamente antisistema e anticapitalista. L’uso della copertura permette alle persone di compiere azioni dalla grande portata dirompente in uno spazio di protezione collettiva, creata non solo dai dispositivi individuali, ma dal coordinamento del blocco. Le proteste a volto coperto si muovono su questa linea: resistere al controllo e alla cancellazione, proteggere un’identità in pericolo e portare avanti azioni e manifestazioni dalla forte capacità conflittuale. Il volto coperto crea un corpo collettivo, reattivo, che non si lascia isolare.
Oggi, però tutto questo risulta sempre più difficile, e quindi rischioso, a causa di tutte le tecnologie di sorveglianza sparpagliate nelle città che stanno riducendo lo spazio dell’anonimato. Al punto che vien da chiedersi se sia ancora possibile un anonimato reale in un contesto che non solo rintraccia ‒ potenzialmente ‒ ogni persona, ma che addirittura spettacolarizza e trasforma tutto in intrattenimento. In un contesto in cui il tracciamento dei nostri percorsi è talmente pervasivo da sembrare normale, in cui c’è addirittura una spinta a trasformare la folla in contenuto individuale, si può sfuggire a quello sguardo digitalizzato? Le autorità, dopotutto, ne fanno ampio uso.
Le forze dell’ordine statunitensi, ad esempio, hanno a disposizione un vasto arsenale di controllo e monitoraggio: oltre a filmare costantemente le persone manifestanti, sono dotate di dispositivi e strumenti ‒ come come Clearview AI ‒ che permettono di ricostruire, con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale, i volti delle persone manifestanti in ritratti. Efficaci, ma non infallibili e che, anzi, possono portare ad arrestare le persone sbagliate. Ma non solo, tra i rilevatori che permettono di triangolare i segnali emanati dagli smartphone ‒ detti stingray ‒, le videocamere e la capacità di identificare una persona addirittura dall’andatura, la possibilità dell’anonimato sembra restringersi con ogni aggiornamento. Ogni persona, infatti, è potenzialmente rintracciabile. E non serve nemmeno essere in prima linea. Una storia su Instagram o un passaggio in metro con la carta, lasciano tracce, disegnando la geografia dei nostri movimenti. E sebbene in Italia, al momento, non vengano usati gli stessi dispositivi statunitensi, l’impegno delle forze dell’ordine per identificare i manifestanti non è meno strenuo e non lesina a ricorrere alle tecnologie di tracciamento o monitoraggio.
Il volto coperto crea un corpo collettivo, reattivo, che non si lascia isolare.
In Italia come negli Stati Uniti, alla repressione materiale si accompagna quella culturale: chi copre il volto viene raccontato come un pericolo sociale, isolato narrativamente dal resto della piazza, dipinto come facinoroso e infiltrato. Uno spirito malvagio pronto a distruggere la ‒ apparente ‒ quiete sociale, senza un perché. La sovranarrazione, in questi casi, protegge lo status quo, che diventa vittima di un attacco immotivato. La protesta, e le azioni che può comprendere, viene collocata su un asse immaginario, ad un estremo la narrazione di un profilo, all’altro la totale cancellazione, per evitare che venga raccontata. Quale che sia la scelta, però, si attiva un meccanismo di tone policing che insegna quale modo di manifestare sia “giusto”, perché più controllabile e meno minaccioso, e quale sia “sbagliato” e, per questo, punibile.
Una protesta decaffeinata. Altamente digeribile. L’ostinazione di alcunə deve essere corrosa: a questo serve l’intento di rendere criminali agli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale non schierata ‒ o già schierata contro ‒ chi si copre il volto in piazza. Un processo immediato che risponde in maniera quasi meccanica alla minaccia percepita. Dare l’allarme e tratteggiare il volto coperto come un pericolo per l’ordine pubblico ‒ quindi collettivo, cittadino ed ordinario ‒ mette le persone nella condizione di percepire a loro volta quella minaccia. Come se fosse rivolta direttamente contro di loro. La speranza di questo tipo di descrizione è che si inneschi un rifiuto assoluto. Ostile. Una contrapposizione che poi permetta di punire chi ha manifestato e di intimidire le altre persone evitando che possano anche solo pensare di fare una cosa del genere.
Chi manifesta viene continuamente filmato, archiviato nelle memorie della sorveglianza statale.
Da Occupy Wall street alle rivolte contro i proprietari terrieri della metà dell’Ottocento, passando per la demonizzata tattica dei black bloc, il volto coperto cancella la vulnerabilità individuale creando una grande identità plurale in divenire. In cui nessunə è protagonista e nessunə viene lasciato indietro, proprio perché, a volto coperto, si entra in un’identità plurale. Si diventa innesti in un’entità multipla, parti essenziali che si aggiungono e muovono individualmente ma nella stessa direzione: la ribellione.
La paura del volto coperto è anche paura dell’ignoto, di un’identità collettiva che sfugge al controllo. Non sapere chi ci sia dietro impedisce di prendere di mira la singola persona, di isolarla. Il volto coperto protegge idee e corpi, crea un grande territorio politico in cui nessunə è protagonista e nessunə è lasciato indietro. Gli zapatisti scelgono di mostrarsi sempre a volto coperto, in modo da proteggere tanto l’identità quanto l’ideale. Con una serie dì strategie anti gerarchiche, per cui non ci sono capi, ma subcomandanti che si pongono dopo e per il popolo, che garantiscono la natura decentralizzata della lotta. Il volto coperto è perciò un simbolo di umiltà che non conosce le limitazioni dei confini e degli interessi statali. È il potenziale contenitore per la ricerca di un modo diverso di vivere, in cui si abbandonano le velleità di successo personali e si abbraccia l’idea ‒ perlomeno la possibilità ‒ di un benessere reale, per tuttə. Insomma, è il contrario della tutina di un supereroe, quella che mette in mostra e diventa riconoscibile, un brand. Mentre il volto coperto è così banale da non potere appartenere a nessuno. Anche quando vi si appone un logo davanti, è troppo forte per essere totalmente cooptato.
Oggi, in un’epoca in cui il panopticon digitale dilaga, in cui condividiamo e siamo sorvegliati allo stesso tempo, la pratica del volto coperto rappresenta una forma di protezione e resistenza. Per questo, il volto coperto non è solo difesa. È anche attacco, sabotaggio, creazione. È la possibilità di essere parte di qualcosa senza essere consumatə da quello sguardo che vuole schedare, isolare, colpire. Perché un volto nascosto può custodire tutto: una vita, una storia, una ribellione. E, forse più di ogni altra cosa, un ideale. La minaccia contro chi si copre il volto ci ricorda che in effetti, ogni regime, non teme tanto la singola persona con la sua storia e le sue azioni, quanto piuttosto l’insieme di quelle persone, quelle storie e quelle azioni. Le idee che si portano dentro. Che sa cosa vuol dire vedere una persona che ha scelto di essere parte di una causa, sventolare una bandiera senza reclamare qualcosa di materiale per sé: una sfida aperta allo status quo a volto coperto. Senza volto e con mille facce.