

I l caso “Mia moglie”, in cui un numero cospicuo di uomini pare si scambiasse materiale sulle proprie compagne ignare, come spesso accade, ha generato una mitosi cellulare dell’opinione sui social. Da una parte, le persone brandizzate “empatiche” che hanno ovviamente reagito con biasimo, paura e costernazione, ritirando fuori dalla credenza il servizio di piatti buoni: termini come “violenza strutturale” o “stupro digitale”; dall’altra, i cinici e i “complottisti”, che, ostentando una certa conoscenza delle dinamiche mondane (soprattutto quelle che riguardano lo sfregamento genitale) hanno tirato in mezzo scambismo, esibizionismo, cuckhold e porcate varie, ipotizzando un caso mediatico montato sulla base della “sessuofobia”, strizzando l’occhio alla comunità dei maialoni in cui non avranno mai il coraggio di entrare davvero.
Per analizzare il fenomeno, possiamo partire dal presupposto che abbiano ragione entrambi. Anzi, non sono nemmeno due posizioni che si escludono a vicenda. Il possesso, e tutti quei sentimenti da sempre strutturali (oggi demonizzati) nella coppia eterosessuale, sono il terreno fertile in cui nascono quelle fantasie che, si ipotizza, venissero messe in atto in gruppi come “Mia moglie”. Dall’esperienza empirica che ho avuto, frequentando serate scambiste e BDSM, quel tipo di sessualità mi è sempre sembrata un rituale celebrativo del possesso e della simbiosi. In quel genere di luoghi, questi sentimenti avevano la possibilità di essere sfidati ‒ solo per uscirne ricompattati ancora più saldamente. “Mia moglie è libera perché io le concedo di essere libera”; “Mia moglie può andare a letto con altri uomini, perché io desidero che lo faccia”; “Mia moglie può andare a letto con altri uomini, scelti da me, con me presente, perché io desidero che lo faccia”. Un’opinione genuina di queste ragazze è difficile da ricostruire.
Il possesso, e tutti quei sentimenti da sempre strutturali (oggi demonizzati) nella coppia eterosessuale, sono il terreno fertile in cui nascono quelle fantasie che, si ipotizza, venissero messe in atto in gruppi come “Mia moglie”.
Come avviene nell’opera ampiamente girardiana Sogno di una notte di mezza estate: Ermia è innamorata, ricambiata, di Lisandro, ma l’autorità paterna ostacola il loro amore. Decidono, quindi, di fuggire per sposarsi. Nella notte si troveranno ad attraversare un bosco, seguiti segretamente da Demetrio (promesso sposo di Ermia) e da Elena (innamorata di Demetrio e amica di Ermia). Lontano dalle mura cittadine, e grazie all’intervento di una pozione d’amore, nottetempo, i sentimenti si capovolgeranno e le coppie verranno rimescolate, generando il caos. L’opera si conclude con il sorgere del sole, che corrisponde anche a un ritrovato equilibrio: Ermia potrà sposare Lisandro; Demetrio (ancora sotto effetto della pozione) sposerà Elena. I luoghi in cui si gioca con lo scambio di coppia, o con l’esibizionismo/il voyeurismo, sono quindi dei boschi shakespeariani in cui il caos è propedeutico al mantenimento dell’ordine costituito: “tu sei roba mia, io sono roba tua”.
In gruppi come “Mia moglie” non sembra esserci un processo di riconsegna del desiderio all’interno della coppia. Il movimento che si osserva, anzi, sembra essere più un sussulto personale, in cui la partner è il mezzo, e non il fine.
Da spettatrice di queste interazioni, in cui un uomo chiede a un altro una foto della compagna, l’altro “ricambia il favore”, e si inizia a parlare di come si stia masturbando, o di cosa faccia a letto con la moglie, in un ritmo serrato di botta e risposta, sempre più esplicito, è difficile non pensare a una sessione di sexting. Dinamica molto simile alla famosa scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino, in cui i due tennisti vogliono andare a letto con Zendaya, decidono di fare un threesome, e, quando lei piano piano indietreggia fino a lasciarli soli a baciarsi, i due nemmeno se ne rendono conto. L’immagine femminile, in questi casi, sembra avere più la funzione di amuleto. Stringi una foto al petto, nella speranza di uscire illeso dalla foresta buia della sperimentazione, dell’omosessualità e dell’identità di genere.
Catherine MacKinnon in un saggio del 1989 affermava che uomini e donne costruiscono la propria identità di genere, attraverso l’erotizzazione del dominio e della sottomissione, espressa attraverso l’oggettificazione sessuale non consensuale.
Essendo una femmina incompleta, il maschio passa tutta la vita a cercare quello che gli manca, riuscire cioè a diventare femmina […]. In altre parole, non sono le donne ad avere l’invidia del pene, ma gli uomini quella della fica […]. Scopare protegge gli uomini dal desiderio di essere donna. Il sesso, di per sé, è una sublimazione […].
Siamo tutti femmine, e tutti odiamo esserlo. Se questo è vero, allora il genere è molto semplicemente la forma che questo disprezzo di sé prende nei singoli casi. Tutto il genere è misoginia interiorizzata. Una femmina è una persona che si è nutrita del disprezzo di un’altra persona, come un’ameba che ottiene il proprio nucleo ingoiando il suo vicino […]. Ciò che rende genere il genere – la sostanza del genere, per così dire – è il fatto che, in ogni singolo caso, esprime i desideri di un’altra persona.
Tornando alla domanda su quale sia il fine, possiamo ipotizzare quindi che non sempre il revenge porn abbia a che fare con una volontà distruttiva della propria partner, o almeno, esiste una speranza segreta che quella mutilazione sia un male restituito, che modifichi l’identità stessa del carnefice per permettergli di entrare in luoghi nuovi, e di essere a sua volta “femmina” attraverso questo rituale. Alla fine, per avere un quadro ampio del prisma di desiderio e costruzione identitaria che si cela dietro la condivisione non consensuale del materiale intimo di una partner, assistiamo a una summa del pensiero femminista più dirompente, della filosofia della manosphere e dei discorsi di uno zio ubriaco a Pasqua. Per cui: amare le donne è da froci. La figa piace a tanti, il cazzo piace a tutti.