

A prile del 2019, siamo nel Gujarat, uno Stato dell’India occidentale che guarda in faccia l’Oman dall’altra parte del Mar Arabico. La PepsiCo fa causa a nove contadini per aver coltivato patate “FC5”, una varietà che l’azienda aveva introdotto nel 2009 e brevettato nel 2016 perché il basso contenuto idrico la rendeva ideale per produrre patatine fritte. I contadini rispondono che si sono semplicemente scambiati dei semi, come per secoli hanno sempre fatto, e sono cresciute quelle. Il processo dura due anni e viene vinto dai contadini. Grazie all’attivista Kavitha Kuraganti viene anche revocato il brevetto a PepsiCo. Fra le varie motivazioni addotte (per lo più relative a vizi di forma), il tribunale osservò che la registrazione del seme era contraria “all’interesse pubblico”, in quanto i processi per infrazione avevano danneggiato i coltivatori di patate. Sembra una grande vittoria, non solo concreta ma anche di principio: brevettare una varietà ortofrutticola danneggia gli agricoltori locali, il materiale genetico non può essere proprietà privata. Vandana Shiva la chiamerebbe “sovranità dei semi”: il diritto dei contadini a conservare, scambiare e propagare sementi locali, liberi da brevetti e dipendenze chimico-industriali. Ma lo scorso anno i vizi di forma sono stati risolti e una parte del brevetto è stato reintegrato, a ricordare che, contro le multinazionali, i principi faticano a vincere.
Una quindicina di anni prima, nel Java Orientale, in Indonesia, alcuni contadini avevano salvato dei semi da un raccolto. Li avevano selezionati, li avevano rivenduti, ed erano stati perseguiti da BY BISI (filiale del gruppo thailandese Charoen Pokphand) per “seed piracy”. Qualcuno era stato punito con il divieto di usare semi per un anno, qualcun altro condannato al carcere. Nel 2012 una coalizione di ONG e agricoltori si mosse a loro difesa, contestando il fatto che piccoli contadini potessero essere trattati come grandi aziende. Ma nel 2019 una nuova legge rese obbligatorio per tutti dichiarare eventuali nuove raccolte di semi e illegale distribuirli al di fuori di gruppi chiusi.
Per “sovranità dei semi” si intende il diritto dei contadini a conservare, scambiare e propagare sementi locali, liberi da brevetti e dipendenze chimico-industriali. Un diritto che è messo sempre più spesso a repentaglio da aziende che brevettano sementi OGM.
Circa dagli anni Ottanta, e ancor di più dall’inizio degli anni Duemila, le grandi aziende agroalimentari e farmaceutiche hanno cominciato a brevettare i semi. Come si è detto, PepsiCo, ad esempio, ha depositato sementi particolarmente adatte a produrre patatine fritte, ma ci sono innumerevoli casi simili, da cui possono scaturire infinite controversie e una messa in discussione delle pratiche stesse con cui da sempre l’agricoltura funziona. Negli anni Novanta Monsanto ha brevettato sementi OGM (Organismo Geneticamente Modificato) resistenti agli erbicidi, come i Roundup Ready, semi ingegnerizzati in modo da tollerare erbicidi a base di glifosato: quando un contadino acquistava questi semi firmava un contratto in cui si impegnava a non riutilizzarli nel raccolto successivo trovandosi poi costretto a ricomprare i semi ogni anno anziché vivere almeno in parte di eredità, come è sempre stato naturale fare. Fra il 1998 e il 2004 sempre Monsanto ha citato in giudizio l’agricoltore canadese Percy Schmeiser per aver coltivato colza OGM da loro brevettata senza aver pagato la licenza. Secondo la difesa, il polline in questione era arrivato accidentalmente e il contadino l’aveva trovato e dunque usato, senza domandarsi a chi dovesse pagare pegno, perché i semi non hanno mai avuto padroni. Data l’assenza di profitti illegittimi, Schmeiser non ha ricevuto condanne ma ha perso comunque la causa. Insomma: in qualsiasi momento un seme OGM può arrivare nel campo di un agricoltore tradizionale o biologico, portato da un impollinatore o dal vento, e se il contadino lo usa o lascia anche solo che cresca, rischia una causa.
Gli impatti della digitalizzazione e brevettazione delle sementi sono tanti, variegati, complessi. C’è la contaminazione involontaria dei terreni ma anche la dipendenza economica obbligata degli agricoltori, costretti ogni anno a ricomprare i semi dalle aziende. C’è la criminalizzazione di pratiche contadine secolari e anche una pericolosissima riduzione della biodiversità: si scelgono poche varietà di semi, si piantano sempre quelle, magari perché resistenti a certi insetti o malattie, o particolarmente adatte a una data produzione. E così si impoverisce il terreno, si perdono varietà, diminuisce la resistenza dei raccolti ai cambiamenti climatici o a nuove malattie.
In qualsiasi momento un seme OGM può arrivare nel campo di un agricoltore tradizionale o biologico, portato da un impollinatore o dal vento, e se il contadino lo usa, o lascia anche solo che cresca, rischia una causa.
Un seme digitale contiene la sequenza del DNA, metadati genetici come marcatori e fenotipi, dati agronomici e altre informazioni che consentono facilmente di riprodurre e migliorare una certa varietà; o di sfruttare gli strumenti bioinformatici per progettarne di nuove, senza alcun bisogno del seme fisico: basterà una stampa in 3D biologica del suo “gemello digitale”.
“Una volta le aziende andavano in Amazzonia o Papua a prelevare materiale genetico da cui estrarre principi per brevetti. Oggi, con la digitalizzazione, tutto avviene tramite banche dati: si assemblano informazioni e si brevettano prodotti senza nemmeno toccare la fonte reale. I nuovi OGM portano brevetti e royalties, limitando il diritto degli agricoltori a conservare semi, a farsi una propria ‘banca dei semi’” mi spiega Federica Ferrario, responsabile campagne dell’associazione Terra!. Che ci siano in gioco biologi che prelevano campioni in una foresta tropicale, o che si tratti di bioinformatici in laboratorio, il risultato è sempre una forma di biocolonialismo che col tempo cambia, si affina, diventa più difficile da riconoscere e regolare.
Il Fondo Cali, approvato nel 2025, prevede che i privati che guadagnano dai semi digitali, in particolare le aziende farmaceutiche, possano versare l’1% del fatturato o lo 0,1% dei profitti derivanti dall’uso di queste sequenze. Una novità importante, non fosse che si tratta di una misura non vincolante.
Ma, imperfezioni più o meno gravi a parte, il Fondo Cali arriva per rispondere a un vuoto normativo. Le informazioni genetiche digitali non sono né propriamente dati né propriamente materiale biologico: normare questo campo è molto difficile, siamo estremamente indietro, e come raccontano le associazioni che seguono da vicino il tema, fra cui WWF (World Wildlife Fund) e Terra!, le innovazioni tecnologiche complicano le cose evolvendosi con rapidità impressionante.
“Non è mai esistito un meccanismo di compensazione per i benefici derivanti dall’uso dei dati genetici digitali da parte dei Paesi che li detengono. Il nuovo fondo multilaterale nato alla COP16, seppur volontario, è un primo passo per colmare questo vuoto, anche normativo: dovrebbe aiutare Stati e comunità indigene a tutelare la biodiversità e a promuovere la ricerca scientifica, è un atto di giustizia ambientale. Alcune aziende si sono dette interessate, ma restano nodi aperti: le modalità di accesso ai fondi, la governance, e soprattutto l’assenza di una gestione organica delle DSI, su cui manca ancora un accordo tra Nord e Sud globale” spiega Bernardo Tarantino, specialista Affari europei e internazionali del WWF.
Ma si sono sentite anche voci più critiche, come il Centro Internazionale Crocevia che vede questo fondo come una sorta di “legalizzazione della biopirateria”, un modo per trasformare i popoli indigeni in lavoratori sottopagati della conoscenza, mentre Susana Muhamad, ministra dell’Ambiente della Colombia e guida del negoziato sulla biodiversità, lo aveva festeggiato come un compromesso necessario, l’unico possibile in un mondo in cui la tecnologia corre molto più veloce delle regole. Il problema a monte è che come società, fuori dalle aule universitarie e dall’attivismo, non è mai stata intavolata una vera discussione pubblica per stabilire se del materiale genetico possa effettivamente appartenere a un privato o se non debba invece, necessariamente, essere pubblico, gestito e protetto come bene comune. Le pratiche vanno più veloci delle leggi e il biocolonialismo ha avuto tutto il tempo per affinarsi, adattarsi ai tempi e mascherarsi.
Il “seme digitale” non solo è blindato a livello tecnologico, ma impedisce anche la circolazione delle informazioni: si sta costruendo un vero e proprio reame privato delle sementi.
Nella sua imperfezione il Fondo Cali ci racconta che viviamo in una fase ibrida, dove la governance dei dati non è ancora chiara e l’IA (Intelligenza Artificiale), sempre più impiegata per la sua potenza ed efficienza nell’elaborare i dati, assume un ruolo sempre più importante nella gestione di miliardi di sequenze genetiche. Il rischio è duplice: da una parte un mercato delle sementi sempre più concentrato e meno vario (le aziende che possiedono gli algoritmi e i dati genetici controllano direttamente l’accesso alle sementi influenzando così la filiera agroalimentare globale), dall’altra una perdita sempre maggiore di biodiversità, di resilienza ai cambiamenti climatici, di tutele e autonomia per gli agricoltori. Già oggi, e ormai da decenni, poche multinazionali detengono una fetta enorme del settore, le sacche di resistenza e protezione della biodiversità sono sempre più assediate: dagli anni Ottanta questo è il campo di battaglia ideologico e concreto del lavoro di ambientaliste e attiviste come Vandana Shiva, soprattutto nel Sud globale. Con l’inasprirsi della crisi climatica la questione si fa ancora più urgente, abbiamo più bisogno che mai di una biodiversità in salute.
Se da una parte gli OGM sono una delle frontiere esplorate per mitigare la crisi climatica, permangono profonde criticità. L’utilizzo di semi modificati può infatti sia ridurre l’uso di agrofarmaci, sia aumentare le rese e dunque limitare l’estensione delle terre coltivate. Questo potrebbe comportare minori emissioni di gas serra e maggiore tutela degli ecosistemi. Secondo uno studio dell’Università di Bonn, in Europa, l’adozione di colture GM potrebbe ridurre le emissioni agricole del 7,5% annuo (33 milioni di tonnellate di CO2) e migliorare la sostenibilità e l’autosufficienza alimentare.
Ma, come spiega Federica Ferrario di Terra!, la questione non è così semplice: “Affrontare la scarsità d’acqua, la siccità e gli effetti della crisi climatica richiede adattamenti reali, che non si possono creare in laboratorio con OGM: fuori non ci sono condizioni controllate, è la biodiversità che garantisce la resilienza. Ogni territorio è diverso, bastano 400 metri perché cambi tutto; in ogni terreno tradizionalmente si usano miscugli di semi per osservare quali varietà si adattano meglio. È l’esatto contrario dell’approccio da laboratorio”.
Il rischio è che varietà meno “redditizie” spariscano, perché non conviene più produrle. Ma perdere varietà vuol dire anche perdere adattabilità. “Se ho dieci varietà di fagioli che si evolvono con l’ambiente, ho una garanzia di resilienza. Se invece le conservo solo in una banca del germoplasma e le tiro fuori dopo vent’anni, saranno estranee al contesto attuale. La biodiversità non si conserva in laboratorio, perché gli ecosistemi cambiano troppo in fretta” racconta ancora Ferrario. “E in effetti dovremmo averlo imparato dopo la crisi delle patate in Irlanda fra il 1845 e il 1848”, quando l’alimentazione dell’intera isola dipendeva da un unico tipo di coltura, e quando un nuovo patogeno (la peronospora) si diffuse tra le coltivazioni, distruggendo interamente il raccolto. Morì circa un milione di persone.
Le grandi aziende puntano sul seme brevettato perché garantisce profitti a breve termine, ma il prezzo, per la società e per l’ambiente, è altissimo. Con il rischio ulteriore, nel Sud globale, di perdere moltissima informazione genetica locale, e anche questa è una forma di erosione della biodiversità: selezionare vuol dire scartare, in una sorta di pericolosa eugenetica agraria, di perdita di cultura, di sapere e di varietà. Eppure decenni di biopirateria, di biocolonialismo, di concentramento di saperi, diritti, brevetti, ci hanno assuefatti a una risposta che come società non ci eravamo mai dati davvero: il materiale genetico può appartenere a un’azienda, a un privato? Gli echi delle lotte di Vandana Shiva si sentivano più forti negli anni Ottanta e Novanta, quando ancora la domanda era aperta e la consuetudine non era del tutto stabilita. Il Fondo Cali nel bene o nel male è una spinta a riportare l’attenzione sulla questione, a farci domande, a riflettere anche come società su un interrogativo che riguarda tutti ma che è rimasto confinato all’interno delle accademie o all’attivismo. Torna in mente la sentenza di quel tribunale indiano secondo cui la registrazione del seme delle patate FC5 era contraria “all’interesse pubblico”: è dall’interesse pubblico e da un’idea aggiornata di bene comune, che bisognerebbe ricostruire un dibattito.