

L a prima volta che ho notato il nome Pierre Fabre non è stato su un cartellone pubblicitario o su un titolo di giornale, ma sul bordo di un lavandino. Era nella casa dei miei zii di Lione, sul tubetto di un dentifricio. Stava lì, con una grossa impronta nel mezzo, e la scritta Laboratoire Pierre Fabre sbiadita dall’uso. Perciò, quando anni dopo mi sono ritrovata a leggere del coinvolgimento della Pierre Fabre nella costruzione di un’autostrada molto contestata nella regione di Castres, non ho potuto non provare un distratto senso di familiarità. Nelle case francesi, Pierre Fabre potrebbe essere ovunque e da nessuna parte, considerato appena eppure ben conosciuto.
L’imprenditore da cui prende il nome la casa farmaceutica è infatti un volto noto per la Francia, Pierre Jacques Louis Fabre ha aperto il suo primo laboratorio nel 1961 e ha un curriculum abbastanza tipico della grande imprenditoria di quegli anni: un impero in crescita, la proprietà temporanea di un club di Rugby e un’attività di beneficenza. Magnate, mecenate e filantropo. Nel 1999 l’imprenditore ha infatti prestato il proprio nome a un’altra entità, la Fondation Pierre Fabre il cui scopo è la diffusione di medicine di qualità nei Paesi del Sud del mondo. Non sembra perciò così assurdo immaginare in che modo il desiderio di Fabre di lasciare il proprio nome inciso nella storia possa essere stato solleticato dall’idea di estenderlo a un’opera infrastrutturale, qualcosa di monumentale e tangibile come quella di un’autostrada.
L’occasione si è presentata negli anni Novanta, quando la posizione dell’azienda era già più che salda nell’imprenditoria francese, con il completamento della A680. Fabre ha quindi proposto la costruzione di un altro tratto autostradale di circa 53 km che connettesse Tolosa e Castres, collegando direttamente la A680 alla A68, la A69. Un nuovo raccordo autostradale, quindi, che prevede la conversione di parte di una strada nazionale (la N126) in una a pedaggio e che avrebbe come beneficio stimato la capacità di ottimizzare di un quarto d’ora il percorso. Quindi, velocizzare l’arrivo agli stabilimenti Fabre della zona. Per trasformare l’idea in realtà, l’iter progettuale di Fabre si è concentrato sin dall’inizio su un’intensa campagna lobbistica, sfruttando le proprie conoscenze nell’alta politica francese. Così, quei 53 km di raccordo sono entrati nell’agenda politica della Francia, diventando oggetto di un dibattito che, più di tutto, sembra aver confermato il supporto all’imprenditoria in generale, e a Fabre in particolare, più che un reale interesse nella A69.
Tant’è che nel 2010, sotto la presidenza Sarkozy, è arrivata la concessione ufficiale a firma dell’allora ministro per l’Ecologia Jean-Louis Borloo, su intercessione dello stesso primo ministro François Fillon. Addirittura, dopo la morte di Fabre, nel 2013, il presidente François Hollande ha espresso rammarico per la mancata ultimazione dei lavori. A suo dire, la A69 avrebbe già dovuto essere inaugurata. Completata prima che il suo ideatore morisse. I lavori, infatti, hanno incontrato sin dall’inizio ostacoli difficilmente sormontabili e che, ancora oggi, non hanno permesso che la A69 superasse lo stadio di cantiere. Autorizzazione e delibere, infatti, sono state valutate e concesse senza tener conto di un elemento cruciale, ovvero la volontà degli abitanti della zona. Dalla loro prospettiva, ad esempio, anche il guadagno temporale ha un risvolto insostenibile proprio perché, oltre a prevedere un pedaggio pari a 17 euro, sembrerebbe riguardare non tanto le singole persone cittadine, né tantomeno quelle che lavorano negli stabilimenti, quanto piuttosto i trasporti industriali da e per gli stabilimenti.
Quei 53 km di raccordo sono entrati nell’agenda politica di Francia, confermando il supporto all’imprenditoria in generale, e a Fabre in particolare, più che un reale interesse nella A69.
Uno degli effetti immediati della costruzione, infatti, prevede la deforestazione di circa 400 ettari di foresta che, oltre a essere una perdita immediata in termini di salute ambientale, costituiscono ‒ come tutto l’ambiente intorno al cantiere ‒ l’habitat di circa 157 specie di animali non umani, di cui 23 protette, che saranno, inevitabilmente, a rischio. L’abbattimento preventivato di circa 200-260 alberi e la distruzione di circa 22 zone umide comportano serie modificazioni idrogeologiche, tali per cui la compensazione promessa risulta poco credibile ed efficace, in quanto non in grado, in effetti, di restituire la complessità di un ecosistema che risulterebbe fisicamente rimosso.
Nel 2023 lo sciopero della fame ‒ e poi della sete ‒, durato complessivamente 39 giorni indetto da Thomas Brail del National Tree Surveillance Group e da altre persone attiviste che avevano occupato gli alberi per evitarne l’abbattimento, culminato con l’ospedalizzazione di Brail, ha portato a una sospensione effettiva dell’ordine di abbattimento. Ma non solo: la presenza massiccia di gruppi ambientalisti, come Soulèvements de la Terre, ha permesso un lavoro che, partendo dalle proteste è potuto intervenire a più livelli, compresi quelli istituzionali, con la presentazione di ricorsi e richieste formali di sospensione dei lavori. L’eco generata dal gesto di Brail e delle altre persone scioperanti aveva interessato i media nazionali, portando alla ribalta le proteste e i motivi per cui si sono rese necessarie. Al punto che, sempre nel 2023, le motivazioni delle autorità a favore della costruzione della A69 sono state addirittura soppesate da 1500 scienziati, tra cui alcuni membri dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), che con un articolo apparso su L’obs si sono schierati a favore dei gruppi in protesta definendo l’A69 “uno di quei progetti che devono essere abbandonati”.
Infatti, i guadagni promessi sono piuttosto aleatori. In primo luogo; la A69 non rappresenta un valido modello per ridurre il traffico e quindi le emissioni, proprio perché incentiva il trasporto privato a discapito di quello pubblico. Secondariamente, sempre secondo le analisi presentate nell’articolo, la strada viene definita come “un progetto socialmente ingiusto”, in quanto andrebbe a costituire la seconda autostrada più costosa di Francia. Infine, gli scienziati hanno fatto presente che il disboscamento con successiva compensazione non può essere considerato un modello valido. La piantumazione di alberi giovani in un altro ambiente non è materialmente in grado di compensare per l’equilibrio ambientale generato da una foresta di alberi adulti, ma soprattutto, per la capacità degli ambienti selvatici di preservare la biodiversità di un territorio. Ma non solo: l’autorità ambientale e il CNPN (Conseil National de Protection de la Nature) hanno dichiarato il progetto ampiamente incompatibile con gli obiettivi della Francia in materia di emissioni e neutralità climatica. Nonostante le obiezioni scientifiche e l’opposizione crescente, la repressione non è arretrata, anzi.
L’autostrada sarebbe la seconda più costosa in Francia, definita per questo “un progetto socialmente ingiusto”. Ma non solo: l’autorità ambientale e il CNPN hanno dichiarato il progetto ampiamente incompatibile con gli obiettivi della Francia in materia di emissioni e neutralità climatica.
Lo scorso anno, ad esempio, gli scontri sono stati prolungati e mal incassati dalla polizia antisommossa francese, il CRS (Compagnies Républicaines de Sécurité), che si è trovato con qualche camionetta in fiamme, nonostante l’impiego ingente della forza bruta. Quest’anno, per evitare lo scontro ravvicinato e diretto con le persone manifestanti, oltre allo schieramento massiccio di agenti, con annessi controlli e perquisizioni costanti in tutta la zona limitrofa al campeggio, le forze dell’ordine francesi hanno utilizzato metodi di repressione della folla a lungo raggio con un’assiduità che ha trasformato la marcia, la turbo teuf, in una resistenza a un assedio. La manifestazione è stata dapprima circondata su tre lati, per poi essere colpita da una pioggia di dissuasori urticanti, irritanti e da shock, e infine attaccata alle spalle, passando proprio dal bosco che costituiva l’unico spazio non occupato dalle forze dell’ordine. L’impiego di lacrimogeni e granate stordenti si è protratto per diverse ore, rendendo l’aria più che irrespirabile persino nei giorni successivi e lasciando uno strascico che avrà, inevitabilmente, effetti sulla fauna che abita i boschi limitrofi agli scontri.
Un aumento della tensione e del tentativo di reprimere le proteste, resosi necessario per l’efficacia delle proteste stesse e per la validità delle rivendicazioni supportate dalle autorità scientifiche. Eppure, nemmeno il parere degli esperti sembra poter essere decisivo. Il via libera ai lavori era rimasto in essere fino alle proteste del 2024, dopo le quali era stato preso in esame. In particolare, il 27 febbraio di quest’anno, il Tribunale amministrativo di Tolosa ne ha annullato l’autorizzazione esprimendosi in merito al ricorso presentato dalle associazioni ambientaliste e ritenendo che i benefici del progetto fossero insufficienti rispetto ai danni ambientali prospettati. Il governo francese si è quindi trovato a rilanciare un appello sostenendo con forza la presenza di un interesse nazionale di forza maggiore ‒ lo stesso contestato dai 1500 scienziati su L’obs ‒ e sostenendo che l’annullamento definitivo dei lavori avrebbe potuto compromettere future implementazioni della rete infrastrutturale francese. Quindi, il 28 maggio, lo stesso tribunale amministrativo ha concesso una “sursis à exécution”, cioè una sospensione dell’esecuzione della sentenza. Il Tribunale ha convenuto sul fatto che l’interesse di forza maggiore sia sufficiente a ripristinare le concessioni ambientali annullate, permettendo, di fatto, la ripresa dei lavori. Le pressioni governative hanno quindi avuto la meglio, al momento, sulle valutazioni territoriali. L’opposizione, però rimane forte.
La zona contesa, infatti, è una ZAD (Zone Á Défendre), e cioè una zona in cui agiscono persone contrarie alla devastazione ambientale provocata dai grandi progetti infrastrutturali e dai loro cantieri. Il nome deriva dall’acronimo usato in campo edile per designare un cantiere: Zone d’aménagement différée, letteralmente zona di sfruttamento differita. Il termine è stato quindi ripreso e rivendicato da gruppi di persone attiviste ‒ dette zadiste ‒ il cui obiettivo è reclamare territori e spazi sottraendoli alla speculazione economica e risparmiando loro il danno ambientale, sociale e politico. Le ZAD non hanno come unico scopo la preservazione dell’ambiente, ma anche la rivendicazione dell’umanità come parte integrante di questa natura. La tradizione delle Zone difese in Francia è molto lunga, sintomo di una lotta ecologista profondamente radicata nel territorio, ma anche nel futuro. La ZAD più celebre è quella che, nel 2018, ha impedito la costruzione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes nei pressi di Nantes, riuscendo a preservare circa 1650 ettari di foresta.
Lo slogan che nel 2018 ha accompagnato manifestazioni e azioni rimane tuttora presente nelle varie zone di mobilitazione, dai megabassines all’A69, arrivando fino alla resistenza No TAV in Valsusa: “Siamo la natura che si difende”. La ZAD di Nantes, è stata molto più che un luogo di resistenza alla devastazione. Sin dall’inizio si è caratterizzata per la sua volontà trasformativa. La ZAD, infatti è più di tutto un luogo di comunità. A Nantes, l’occupazione ha permesso di creare coesistenze alternative, inframmezzate e aggredite dagli sgomberi della gendarmerie. In particolare, nel 2012 è stata colpita dall’operazione Cesar, la più grande mobilitazione poliziesca dal 1968, a cui la comunità ha risposto con una presenza di 40.000 volontari impegnati per ricostruire le abitazioni e i luoghi condivisi. La tradizione della ZAD guarda molto più avanti rispetto alla singola emergenza, per quanto drammatica, cercando di renderla uno spazio per costruire un’alternativa.
Un aumento della tensione e del tentativo di reprimere le proteste, resosi necessario per l’efficacia delle proteste stesse e per la validità delle rivendicazioni supportate dalle autorità scientifiche.
E infatti, quale che sia la mobilitazione, negli spazi condivisi ‒ temporanei o meno ‒ si respira un’aria totalmente diversa. Prima di tutto, la volontà di essere spazi di convivenza sicuri per chi li attraversa. Il che avviene sì con appositi servizi dedicati e una continua opera di informazione ‒ non è insolito trovare cartelli che spiegano cosa sia il consenso, e, soprattutto cosa significa estorcerlo ‒ ma più di tutto con una cultura interna estremamente ricettiva che unisce l’ascolto di chi attraversa la ZAD alla necessità che sia consapevole che comportamenti coerenti con il modello oppressivo esterno non sono benaccetti. Un esempio banale ma non troppo: durante le grandi mobilitazioni estive, chi organizza si premura di fornire un servizio pasto che garantisca alle persone la possibilità di mangiare ed essere in forze prima delle lunghe manifestazioni. I pasti serviti sono semplici, poveri, a offerta libera. Negli ultimi due anni, poi, le cucine hanno sempre proposto cibo vegano e senza glutine rendendo più facile per le persone che prendevano parte alle manifestazioni accedervi e avere la certezza che non sarebbero rimaste per ore sotto il sole a stomaco vuoto. Elementi di cura collettiva, questi, che si sommano creando una dimensione antitetica rispetto a quella esterna, informata dall’attuale stadio del capitalismo in cui tutto è merce e consumo, dissenso compreso.
Quindi, oltre a essere una zona occupata per evitare che grandi opere infrastrutturali devastino l’ambiente, è anche il punto di partenza per la costruzione di una comunità. La ZAD A69 si inserisce in questa cornice. Infatti, la rivendicazione sul territorio non riguarda solo qualcosa di misurabile, come la metratura di foresta che verrebbe irrimediabilmente distrutta, ma anche qualcosa di più inafferrabile: l’idea per un modo diverso di vivere e convivere. Nelle ZAD si propone qualcosa di diverso, di nuovo e antico insieme, che parte dalla collettività. Essere parte della natura, significa anche questo: inserirsi in un ambiente come parte dello stesso e non come proprietari occupanti. Una prospettiva ben diversa da quella che, normalmente, disciplina i rapporti tra umanità e ambiente solitamente incentrati sull’utile e l’uso. Disporre di ciò su cui si può imporre un diritto di proprietà, ad esempio acquistando un terreno, in maniera arbitraria e individualistica genera inevitabilmente un incremento del danno ambientale proprio perché, in prima istanza, l’ambiente diventa un oggetto inerte, un bene.
Una volta depauperato della sua identità, svuotato della sua complessità e rimosse tutte le soggettività, umane e non, che vi entrano in relazione per vivere ‒ e, magari, vivervi bene ‒, questo territorio viene plasmato dalla tendenza alloplastica delle relazioni economiche che intervengono strutturalmente su tutto ciò in cui vengono intessute per metterlo a reddito. E quindi, una ZAD ne costituisce il contrappunto. Un rigetto del dogma produttivo e dell’interesse speculativo dei singoli a favore di un approccio alla terra più ampio, comunitario e non solo. Perché non si tratta solo di preservare un territorio e di costruirci benessere per chi vi è immediatamente prossimo, ma anche di creare delle reali alternative che diano garanzie a chi è lontano e a chi verrà dopo.
Una ZAD potrebbe sorgere ovunque, contro il progetto di un traforo, di un’autostrada o di un allevamento intensivo. Ciò che la caratterizza e la rende possibile è la presenza di una comunità attiva, interna ed esterna al territorio: cooperativa ed attenta alle reali esigenze di chi abita e attraversa quei luoghi. Ecco perché non è raro che anche chi non partecipa direttamente alle mobilitazioni si renda in qualche modo utile. Lo scorso anno, a La Rochelle, gli abitanti della città che avevano case al pianterreno hanno aperto i cancelli alle oltre 20.000 persone manifestanti, per garantire loro la possibilità di riempire le borracce, sciacquare le ferite o ripulirsi dalle sostanze urticanti. La ZAD si propaga anche così, di casa in casa. Diventando memoria organica del fatto che la terra è vita, comunità e memoria. E forse, è proprio questo che spaventa di più.
La zona contesa, oltre ad essere occupata per evitare che grandi opere infrastrutturali devastino l’ambiente, è anche il punto di partenza per la costruzione di una comunità.