

I l 13 aprile 1863 Charles Champoiseau, viceconsole francese nella città ottomana di Edirne (oggi la greca Adrianopoli), rinvenne, durante alcuni scavi archeologici nel santuario dei Grandi dei dell’isola di Samotracia, i resti di quella che capì immediatamente essere una scultura antica di grande pregio. A nome del governo francese ne perfezionò l’acquisto e, affinché potesse essere studiata e restaurata, la fece spedire a Parigi, dove arrivò l’11 maggio 1864, al termine di un tortuoso viaggio fra Costantinopoli, il Pireo e Marsiglia. Una volta riassemblati, sotto una prima direzione del curatore Adrien Prévost de Longpérier, i diciassette blocchi e frammenti diedero nuova vita alla statua della dea Nike, la più iconica effige della vittoria, materica metafora degli onori e delle disgrazie a cui gli uomini la hanno elevata e condannata, perfondendone ovunque il mito.
Se è vero che il mondo classico rappresenta – almeno per noi gente di ponente – il ventre aurorale della nostra cultura e del nostro immaginario simbolico, nascosto, secondo Italo Calvino (“Italiani, vi esorto ai classici”, L’Espresso, 28 giugno 1981), “nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale” e dando forma – come ci ricorda, tra gli altri, Luciano Canfora – agli archetipi dei nostri imperi e delle nostre democrazie, all’architettura del nostro linguaggio e delle nostre città, allora molti aspetti del nostro rapporto devozionale con la vittoria possono essere disvelati tramite l’interpretazione delle forme e dei profili della Nike di Samotracia, a cominciare da ciò che concerne la sua collocazione.
A partire dalla fine del secolo 19° l’opera è uno dei più mirabili trofei esposti al Louvre, fin dal Seicento tempio della cultura e scrigno del potere di Francia e d’Occidente, dove sono raccolti i gioielli manufatti in patria e quelli sottratti ai nemici sconfitti o ai clientes sottomessi. Dal 1934 la scultura si trova al finire della scalinata Daru, che fende centralmente l’Ala Denon del museo e ne collega il piano terra, dedicato all’arte classica, a quello superiore, dove sono esposti i pittori di età moderna. Blocchi di pietra candida compongono l’architettura muraria che la circonda e il pavimento dello spiazzo dove è deposta. Alla sua destra si dipana la via che conduce al Salon Carré, in cui sono in mostra le pitture rinascimentali italiane, tra cui la Monna Lisa; alla sua sinistra quella che porta alla Galerie d’Apollon, dove, sotto i soffitti affrescati da Charles Le Brun e Eugène Delacroix, sono custoditi i preziosi della corona imperiale. Da un lato lo scettro dall’altro il pennello, potere e cultura appunto, nel comune sentire poli opposti – comando contro libertà, scontro contro dialogo, assolutezza contro apertura – che nella composizione architettonica sono raccordati dal simulacro della vittoria. Allegoria degli spazi che smentisce il comune sentire e rivela quanto sia solo apparente la divaricazione tra cultura e potere, essendo la prima, in buona parte, il portato di un potere che è risultato vincente su altri, il quale a sua volta non potrebbe affermarsi davvero senza esprimere una cultura anch’essa capace di conquistare, di fare, gramscianamente parlando, egemonia.
Molti aspetti del nostro rapporto devozionale con la vittoria possono essere disvelati tramite l’interpretazione delle forme e dei profili della Nike di Samotracia, a cominciare da ciò che concerne la sua collocazione.
Scrutati i primi tòpoi della prossemica, si diriga ora lo sguardo sulla scultura della dea. Incorniciata da un arco tardo gotico, l’opera, attribuita allo scultore del II secolo a.C. Pitocrito di Rodi, è sovrastata da volte a crociera non costonate, con alla sommità lucernari circolari in vetro piombato bordati di foglie d’alloro dorate, sicché la luce naturale che vi passi attraverso pare debba nobilitarsi prima di carezzare le divine levigature del marmo pario. Se Immanuel Kant avesse potuta ammirare Nike, dal basso in alto, venusta e altera, al centro del suo temenos laico, circonfusa dalle fulve spire di Elios, avrebbe teorizzato un altro tipo di sublime accanto a quello dinamico e matematico, il sublime ieratico.
Nella parte inferiore del monumentale complesso scultoreo (nelle sue dimensioni massime largo 2,48 metri, lungo 4,76 metri e alto 5,57 metri), gli ampi blocchi grigi del basamento formano la prua di una nave da guerra ellenica, lunga e stretta col dritto curvato all’insù (aprostolio), che poggia lungitudinalmente la chiglia su un lastrone a sua volta sorretto da un parallelepipedo dello stesso colore della pietra pavimentale. Al centro del castello di prua è posata l’effige della dea, alta quasi due metri e mezzo, dall’incarnato niveo e poroso, dolcemente segnato dal tempo: piccole macchie brunite, lievi scalfitture, residui di polvere.
Che la Nike solchi il mare proprio su una imbarcazione bellica (probabilmente una quadrireme in uso alla flotta rodiana) non dipende solo dal fatto che la statua sia stata eretta per celebrare il successo della lega delio-attica (formata da truppe di Roma, di Pergamo, di Rodi e di Samotracia) durante la battaglia dell’Eurimedonte contro il re siriano Antioco III. La vittoria che la divinità impersona è infatti primariamente quella che si ottiene in guerra e nello sport, due fenomeni che nel mondo antico greco, e poi anche romano (si pensi alle naumachie o ai giochi gladiatori), erano strettamente connessi e interdipendenti fra loro, “aspetti di una stessa realtà in una compenetrazione tra piani che [ne] rende fluido il confine” (F. Pulitanò, “Guerra e Sport: uno sguardo retrospettivo”, in Rivista di diritto sportivo, 2023, 1). Fenomeni uniti nella figura dell’atleta-guerriero celebrato da Platone, che lo elegge a soldato ideale per difendere lo Stato della sua Repubblica e che, come dice nelle Leggi, può formarsi solo entro i ranghi della costituzione ateniese, dove si perfeziona una combinazione ideale tra educazione militare e allenamento per i giochi (si veda in proposito, P. Angeli Bernardini, Il soldato e l’atleta. Guerra e sport nella Grecia antica, 2016). Soldato e atleta ideale era certamente Filippide, leggendario emerodromo citato da Plutarco e da Erodoto, che corse 42 km filati per arrivare ad annunciare il prima possibile ad Atene la vittoria ottenuta sui persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), città da cui prende il nome la gara olimpica per eccellenza.
Rivolgendosi al profilo dell’opera, si può osservare come Nike protenda il busto in avanti, la gamba destra, diritta e perpendicolare alle spalle, precede la sinistra, leggermente inclinata, alla distanza di un passo. Se la prima è coperta fino alla parte inferiore dal lungo (fino ai piedi, mancanti) chitone – tunica in lino o in lana tipica dell’antica Grecia, cucita senza fibule a differenza del peplo –, la seconda si mostra scoperta in una nuda sensualità fin da sotto il bacino, là dove si dischiudono i lembi della veste. Il panneggio pare assecondare le sferzate del vento, si raccoglie ondulato e più spesso sul davanti. Gli strati ripiegati e attorcigliati, segnano solchi e vuoti, in cui si insinuano spazi d’ombra che gli conferiscono una solidità tangibile allo sguardo e ne fanno al contempo un’armatura e un perno per l’intera figura. I veli aderiscono invece lievi sul ginocchio e sulla parte superiore della gamba destra, assottigliandosi ancor più sul teso e morbido addome, a evidenziare l’avvallamento dell’ombelico e la rotazione delle fibre muscolari, che assecondano la torsione del busto. Sotto il seno, un esile cinturino sospinge verso l’alto e dona di nuovo spessore ai tessuti della veste, che copre la spalla sinistra lasciando scoperta la destra.
Sebbene Filippo Tommaso Marinetti le avesse preferito nel Manifesto del Futurismo “l’estetica della velocità” di “una automobile ruggente”, un altro illustre esponente futurista, Umberto Boccioni, si ispirò proprio a lei per l’iconica scultura bronzea Forme uniche della continuità nello spazio.
Ma l’impeto immoto di Nike non si restringe allo spazio terreno, può spingersi verso il cielo, librandosi sulle ali che spuntano dalle scapole e si pongono alla sommità della scultura. Dispiegate nella loro totale ampiezza e rivolte all’indietro, gonfiate dal soffio di Eolo, a cui non sono né perpendicolari né parallele, come accade nel frenare o nel planare. Le piume remiganti, presenti nella parte bassa e terminale dell’ala, sono grandi e in rilievo, mentre le altre si fanno più piccole e indistinguibili man mano che si avvicinano al carpo superiore. Le ali della dea qualificano la natura aerea della vittoria, il cui valore prescinde i calcoli dell’abaco, i guadagni terreni. Il suo bottino non si misura in campi, baci o dobloni, ma attiene a qualcosa di più alto, di più nobile. Il suo conseguimento ha a che vedere con l’onore, con il riscatto, con una speranza di liberazione. È un premio celeste, un afflato di immoritura gloria, capace di marcare il tempo (chronos, come successione lineare di eventi) e di farne kairòs (il tempo opportuno, il momento giusto, di grazia).
Le ali della dea qualificano la natura aerea della vittoria, il cui valore prescinde i calcoli dell’abaco, i guadagni terreni.
Ma dove l’elogio si chiegga di prospero evento, di mani
gagliarde, di ferrea pugna,
un fosso profondo scavatemi qui: con leggere ginocchia
io scatto: oltre il pelago si lanciano l’aquile.
Guevaristi o mussoliniani, interisti o milanisti, singoli individui impegnati in un concorso o in una contesa amorosa, tutti possono appropriarsi idealmente di quello spazio e immaginare come proprio il destino di Nike. Le braccia mancanti, per di più, della vittoria non possono neppure indicare un orizzonte, che è sempre incerto, mobile, ontologicamente o strumentalmente, e, per questo, mai compiutamente raggiungibile. Lo si vede bene nella cronaca delle guerre contemporanee, 11 quelle alla fine del 2024 (su un totale di 61 conflitti che coinvolgono a vario titolo attori statali; mai così tanti dal 1946) secondo l’ultimo rapporto del Peace Research Institute Oslo (PRIO). Dove è l’orizzonte della vittoria, tanto enfaticamente invocato, per la Russia di Putin, per l’Ucraina di Zelenskij, per i vari Paesi europei o per la NATO? Ancor più oscuro e terrificante è dove possa essere per l’Israele di Netanyahu, che continua a espandere incessantemente la linea del fuoco per tutta l’Asia occidentale, da ultimo, fino a Teheran.
Oltre alle braccia però, è un’altra cosa, ancora più carica di significato, a mancare alla statua di Nike: la testa. Molte statue antiche, invero, sono rinvenute senza la testa, sia perché estremità fragile esposta ai danneggiamenti del tempo, sia per decapitazioni operate come sfregio e, talvolta, al fine di sostituire al capo tagliato quello di un personaggio più gradito. Di nuovo, un avvicendamento tra vincitori. Non conosciamo la causa che ci abbia tramandato la Nike acefala, ma è un’altra la riflessione più interessante che se ne può ricavare. Essere senza testa indica comunemente essere privi della ragione, in preda a uno spregiudicato istinto o a una invalidante follia. Siamo così di fronte a una vittoria senza senno e senza senso del limite. Nel volto assente di Nike si specchia quello della nostra società, che non è, come detto all’inizio, solamente devota alla dea, ma ossessionata da lei. È un volto che somiglia terribilmente alle monomanie degli alienati dipinte negli anni Venti dell’Ottocento da Jean-Louis-Théodore Géricault e custodite poco distanti dalla Nike, nella Sala 700 dell’Ala Denon del Louvre.
Siamo così di fronte a una vittoria senza senno e senza senso del limite. Nel volto assente di Nike si specchia quello della nostra società, che non è solamente devota alla dea, ma ossessionata da lei.
Il pugile interpretato da Sylvester Stallone, stordito dai pugni d’acciaio del campione sovietico, finisce al tappeto più volte, ma tiene duro e all’ultimo round lo manda K.O., avendo già guadagnato il favore e l’affetto di un pubblico inizialmente ostile. Cadere per poi rialzarsi e combattere ancora, perché non sempre si può vincere, non subito, e anche una temporanea sconfitta può essere onorevole se ci si impegna fino in fondo per la vittoria, se resta un passo falso ma indispensabile a conseguirla. Non importa in che campo o in che modo, per preservare il proprio onore e ambire a guadagnare un futuro riscatto, è indispensabile battersi con tutte le forze e secondo tutte le proprie possibilità, per dimostrarsi vincenti dinanzi alle difficoltà economiche e alla malattia che ferisce il corpo. “You can’t win, so win” recita una pubblicità progresso del celebre marchio di abbigliamento sportivo che di Nike ha preso in prestito il nome e le ali. Dopotutto, “se gli ostacoli e le difficoltà scoraggiano un uomo mediocre, al contrario al genio sono necessari, e quasi lo alimentano”, secondo la massima del già citato Géricault, figlio legittimo del romanticismo francese (da L’opera completa di Gericault, a cura di Philippe Grunchec, 1978).
La bandiera bianca, ne ha avuto prova il defunto papa Francesco, è l’unico vessillo che le braccia assenti di Nike non dovranno mai far sventolare. La vittoria va perseguita sempre, qualunque sia il costo anche in termini di vite spezzate e mutilate.
Non è possibile rinunciare a questa eredità, ma si può decidere cosa farne, almeno in parte. Si può decidere di usarla come strumento di conoscenza di quel che siamo, del perché lo siamo e di come altro potremmo essere. Per quanto sia difficile da immaginare osservando il percorso fin qui compiuto, non c’è un destino manifesto che conduca l’umanità all’altare sacrificale di Nike. La vittoria, amanuense della storia, non deve essere il suo unico arbitro, latore del criterio supremo che definisca la misura essenziale di ogni agire, senza relazione al bello o al giusto, al di là del bene e del male, per citare Nietzsche, entusiasta adoratore di Nike. Bisogna salvare ciò che di buono c’è nella filosofia agonale dalle sue malevole estrinsecazioni, dall’ossessione distruttrice che ne deriva. Salvare come si è fatto con la statua di Samotracia, quando, nel settembre del 1939, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, fu rimossa per l’unica volta dal suo luogo di esposizione al museo parigino per essere messa al riparo dai bombardamenti, insieme ad altri artefatti prestigiosi, nel Castello di Valençay sulla Loira, fino al luglio del 1945. La bellezza dell’arte fu messa al riparo dalla brutale manifestazione concreta della guerra che lei stessa rappresentava in splendente fulgore.
Il godimento della vittoria è un utile e piacevole stimolo, ma non può farsi sregolato e dannoso anelito. Nella stessa filosofia greca di Eraclito, dove il cosmo evolve in un continuo transeunte di nuovi equilibri attraverso la lotta (polemos) tra gli opposti interdipendenti che lo compongono, esiste un logos, una ragione armonizzante, che ne delinea il confine e istruisce il fine di questa eterna duale opposizione, votata alla creazione, non all’autodistruzione. Un pensiero che presenta similitudini col principio di equilibrio nella composizione tra yin e yang della filosofia taoista, dove però la contrapposizione tra gli elementi è meno netta e violenta, ma più sfumata e pacifica. Così come lo è la concezione del cambiamento, non legato alla volontà di potenza, come guida di un agire trasformativo attivamente imposto, ma consustanziale al precetto del wu wei, la consapevole alternanza di “azione e non azione”, nel sapersi adattare come l’acqua al mutare degli eventi e alle contingenze della natura, per vivere armoniosamente, fuggendo forzature che possano rompere violentemente l’equilibrio del mondo e generare in noi e negli altri sofferenza e sentimenti negativi.
Un insegnamento prezioso che sconsiglia l’adozione di ogni gesto estremo, di ogni sacrificio trascendente, di ogni pretesa unilaterale, di ogni ossessiva devozione alla dea Nike. Sarebbe bene tenerne conto. Il già nominato Filippide, arrivato in città dopo l’immane sforzo riuscì solo a pronunciare la frase “Abbiamo vinto”, prima di crollare a terra esanime. Meglio smettere di imitarlo, smettere di umiliare e mettere e rischio la vita per la brama di una morte che porti il fiore della vittoria in bocca e ci consegni a una malintesa imperitura gloria. Perseguiamo piuttosto nell’intento di salvare l’ars, stavolta poetica, e cogliamo dentro la geniale contraddittorietà di Pindaro, l’esortazione contenuta nella terza ode Pitica: «Non ambire, mio cuore, a una vita immortale / ma esaurisci le vie del possibile» (Pitica III, 85-88), perché «sogno d’un’ombra è l’uomo» (Pitica VIII, 96); che non debba farsi incubo all’ombra della Nike sempiterna.