

N ell’ormai decennale sfida tecnologica tra Cina e Stati Uniti, è capitato già più di una volta che fossero gli USA ad arrivare secondi. È successo con il 5G, dove la Repubblica popolare ha dominato a livello infrastrutturale e di diffusione. È avvenuto più di recente con le auto elettriche, il 53% delle quali circola in Cina, patria anche del marchio più di successo al mondo (BYD, la cui quota di mercato è oltre il doppio di quella di Tesla).
Un altro fondamentale settore in cui la sfida è ancora aperta è quello dei supercomputer: oggi gli Stati Uniti sono tornati a dominare la classifica specialistica Top500 con i loro tre computer exascale (in grado cioè di svolgere un miliardo di miliardi di operazioni al secondo), ma è noto come la Cina, nell’ormai lontano 2021, sia stata la prima nazione al mondo a sviluppare questi sistemi. La ragione per cui i computer exascale cinesi non compaiono nella classifica è legata alla scelta di Pechino di smettere di divulgare i risultati ottenuti, perdendo di conseguenza il primato ufficiale.
Si potrebbero inoltre citare le tecnologie quantistiche: nel 2017 la Cina è stata la prima nazione al mondo a portare a termine con successo una comunicazione satellitare quantistica e oggi, secondo parecchie analisi, sarebbe in vantaggio anche nello sviluppo dei computer quantistici.
E per quanto invece riguarda l’intelligenza artificiale (IA)? È davvero possibile che la Repubblica popolare conquisti un primato tecnologico che – per parafrasare Vladimir Putin – le consentirebbe di “dominare il mondo”? Fino a questo momento, e nonostante i grandi progressi, non ci sono dubbi sul fatto che gli Stati Uniti abbiano mantenuto un vantaggio: “Dopo tutto, la tecnologia e la proprietà intellettuale statunitense dominano ogni livello dell’industria dell’intelligenza artificiale”, ha scritto Reva Goujon di Rhodium Group: “I processori Nvidia aumentano la potenza di calcolo di vari ordini di grandezza, alimentando la rivoluzione della IA; i fornitori di servizi cloud statunitensi, come Amazon Web Services, Microsoft Azure e Google Cloud Platform, distribuiscono enormi risorse computazionali; aziende come Google, Meta, OpenAI, Anthropic e xAI hanno sviluppato i modelli fondativi su cui le aziende di tutto il mondo fanno affidamento per adattare e ottimizzare le proprie applicazioni”.
L’avanzata dei chip cinesi
I numeri confermano queste affermazioni: per quanto riguarda l’infrastruttura, al momento i Big Three statunitensi (AWS, Microsoft, Google) detengono il 63% del mercato cloud globale, mentre il principale fornitore cinese, Alibaba, arriva soltanto al 4%. Per quanto riguarda la proprietà intellettuale, l’AI Index Report 2025 di Stanford mostra come la ricerca statunitense sia ancora dominante nei paper più citati, nonostante la Cina sia avanti per quanto riguarda la quantità totale di pubblicazioni scientifiche (riproponendo in chiave accademica il classico scontro qualità vs quantità).
Nel fondamentale settore dei chip, le GPU (Graphics Processing Unit) più avanzate – progettate da Nvidia e stampate dalla taiwanese TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, e che, per effetto delle sanzioni volte a ostacolarne la crescita tecnologica, non possono essere vendute in Cina) – sono realizzate con processo produttivo a 4 nanometri e potrebbero a breve scendere addirittura a 2 nanometri. Nel mentre, la Cina ha raggiunto, grazie alla sua azienda specializzata SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation), chip da 7 nanometri e starebbe lavorando insieme a Huawei, ma non senza difficoltà, alla produzione di una nuova generazione di chip da 5 nanometri. Nel complesso, si può affermare che la produzione dei chip cinesi sia indietro di circa 5 anni rispetto agli Stati Uniti.
Le sanzioni USA hanno obbligato la Cina a trovare una via autarchica all’intelligenza artificiale, senza poter fare affidamento né sui chip statunitensi, né sui macchinari olandesi per produrli in autonomia. E i risultati iniziano a vedersi.
In poche parole, le sanzioni USA hanno obbligato la Cina a trovare una via autarchica all’intelligenza artificiale, senza poter fare affidamento né sui chip statunitensi, né sui macchinari dell’olandese ASML che avrebbero permesso di produrli in autonomia. I risultati iniziano a vedersi: HiSilicon (società di Huawei per la progettazione di chip) e la già citata SMIC (che invece li stampa) sono ormai in grado di produrre processori – come Ascend 910C – capaci di prestazioni quasi assimilabili a quelle di A100, la terzultima generazione di GPU Nvidia (ma sono ancora lontani dai più avanzati H100 e H200, di penultima generazione, per non parlare della nuova generazione Blackwell).
La distillazione di DeepSeek
Per quanto ancora lontana dalle performance dei chip statunitensi, la Cina sta quindi dimostrando di essere in grado di fare importanti e autonomi progressi. Ma a dare ulteriore fiducia alla Repubblica popolare è il fatto che, negli ultimi mesi, il focus nel campo dell’intelligenza artificiale – e in particolare dei large language model – abbia iniziato a spostarsi dalle dimensioni all’ottimizzazione.
In sintesi estrema: lo sviluppo dei large language model ha fino a oggi seguito la cosiddetta “legge di scala”, secondo la quale la capacità dei modelli linguistici aumenta proporzionalmente al crescere dei parametri, dei dati e del potere computazionale. Una legge che quindi premia chi ha a disposizione, tra le altre cose, i chip più avanzati da impiegare in fase di addestramento.
L’arrivo di DeepSeek potrebbe segnare l’inizio di un nuovo ciclo, in cui i modelli vengono costruiti sulla base di quelli pre-esistenti, in un processo che accelera la fase di sviluppo e riduce i costi computazionali.
Il simbolo di questa transizione è DeepSeek, la startup cinese che è stata in grado di sviluppare modelli dalle performance vicine a quelle dei sistemi statunitensi investendo però una frazione dei soldi. Per riuscire in questa impresa, DeepSeek ha sfruttato un processo noto come distillazione, che consente a modelli più piccoli di apprendere da quelli già esistenti e più grandi. Tramite la distillazione, la conoscenza di un modello linguistico di grandi dimensioni (ribattezzato “insegnante”) viene trasferita a uno più piccolo (lo “studente”), mantenendo prestazioni simili ma con minori costi computazionali. In questo processo, il modello più piccolo viene esposto alle risposte e ai ragionamenti del modello più grande – per DeepSeek sono stati impiegati Qwen di Alibaba, Llama di Meta e o1 di OpenAI – invece che ai soli dati grezzi, apprendendo più rapidamente anche schemi complessi.
L’arrivo di DeepSeek potrebbe quindi segnare l’inizio di un nuovo ciclo nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. I modelli non nascono più isolati, ma vengono costruiti sulla base di quelli pre-esistenti, in un processo che accelera la fase di sviluppo e riduce i costi computazionali. Il vecchio sistema, in cui una singola azienda raccoglieva i dati, addestrava e rifiniva il proprio modello da zero (con costi esorbitanti), potrebbe lasciare sempre più spazio a questo nuovo meccanismo.
La guerra dei talenti
Da un lato, i progressi nel campo dei chip; dall’altro, la vantaggiosa trasformazione della fase di addestramento dei modelli linguistici. Un terzo fondamentale fattore è invece rappresentato dai talenti: gli ingegneri e le ingegnere in grado di teorizzare, progettare e dare vita ai più avanzati sistemi di intelligenza artificiale.
A causa delle politiche migratorie sempre più rigide – e dell’incertezza in cui le persone che emigrano negli USA sono costrette a vivere – la percentuale di ingegneri del deep learning che decide di fare carriera nella Silicon Valley è in costante diminuzione.
“Dopo aver completato il suo ciclo di laurea nel 2015 in una delle più prestigiose università cinesi, e dopo aver lavorato come ingegnere del software a HSBC, Zhou Yijun, 31 anni, sperava di trovare una città nordamericana in cui prendere il PhD e potenzialmente sistemarsi una volta per tutte”, racconta Yvonne Lau. “Le politiche di Trump hanno reso la sua scelta facile: ‘Ho pensato: ok, il Canada è la scommessa più sicura per ricevere il permesso di soggiorno’”. In verità, il secondo mandato Trump ha solo contribuito ad accelerare una tendenza già in atto: la percentuale di esperti top tier di intelligenza artificiale (quelli citati nei paper più importanti) che lavorano negli Stati Uniti aveva infatti già da qualche tempo iniziato a calare, passando dal 59% del 2019 al 42% del 2022.
Se si considera che la Cina forma circa la metà dei talenti globali dell’intelligenza artificiale (mentre gli USA sono al 18%), quanto Pechino sta investendo in questo settore (finanziando anche i laboratori di ricerca universitari), quanto sta puntando su una narrazione patriottica per riportare a casa chi lavora all’estero (con tutto il bagaglio di competenze nel frattempo appreso) e quanto abbia aumentato gli stipendi offerti (per quanto ancora una frazione di quelli della Silicon Valley), si intuisce quale sia la nazione che più di ogni altra si stia avvantaggiando della crescente diffidenza internazionale nei confronti degli Stati Uniti di Trump.
Anche da questo punto di vista, la vicenda di DeepSeek è stata esemplare. Alcuni ricercatori di Stanford hanno analizzato la biografia degli oltre 200 autori dei vari paper tecnici pubblicati dalla startup cinese, concludendo come il successo di DeepSeek “sia fondamentalmente una storia di talento autoctono”: metà del team di DeepSeek non ha infatti mai lasciato la Cina per motivi di studio o lavoro, e la metà che lo ha fatto è poi tornata per dedicarsi allo sviluppo dell’intelligenza artificiale made in China.
Se si considera quanto Pechino stia investendo in questo settore e quanto stia lavorando per riportare a casa chi lavora all’estero, si intuisce quale nazione più di ogni altra stia mettendo a frutto la crescente diffidenza internazionale nei confronti degli USA di Trump.
Il vantaggio degli Stati Uniti
A questo punto, è importante fare una precisazione: gli Stati Uniti sono ancora leader globali dell’intelligenza artificiale e i punti deboli della Cina sono ancora da superare. Nonostante i progressi nel campo dei chip, e nonostante l’attenzione crescente all’ottimizzazione invece che alla massimizzazione delle prestazioni, resta il fatto che HiSilicon e SMIC sono ancora parecchi anni indietro rispetto a Nvidia e TSMC, con il risultato che al momento, e nonostante la “rivoluzione DeepSeek”, tutti i modelli di frontiera sono ancora di provenienza statunitense.
C’è poi la questione dei soldi: non sono solo i salari della Silicon Valley a essere molto più elevati, ma anche gli investimenti privati USA rispetto a quelli cinesi. L’AI Index di Stanford segnala come nel 2024 gli investitori statunitensi abbiano riversato nel settore dell’intelligenza artificiale qualcosa come 109,1 miliardi di dollari contro i 9,3 miliardi della Cina: quasi 12 volte tanto.
A causa della differente struttura economica di Cina e Stati Uniti è però difficile fare un confronto preciso. Secondo TechWire, per esempio, nel 2025 gli investimenti complessivi cinesi – compresi quindi quelli pubblici – raggiungeranno i 98 miliardi di dollari. È invece difficile stimare con precisione l’investimento pubblico statunitense, spesso in partnership con il mondo privato, più frammentato e meno pianificato (ma che potrebbe comunque valere svariate centinaia di miliardi di dollari). Nel complesso, in ogni caso, il mercato statunitense dell’intelligenza artificiale viene stimato a circa 150 miliardi di dollari per il 2025, oltre il doppio di quello cinese.
Quella in corso è una guerra fredda dell’intelligenza artificiale, con buona parte del Sud globale che sta integrando i sistemi e le infrastrutture di intelligenza artificiale di provenienza cinese.
Di fronte all’avanzata internazionale della tecnologia cinese (sperimentata anche da aziende di nazioni alleate degli Stati Uniti come Saudi Aramco, Standard Chartered o HSBC), il “selling point” principale dei colossi della Silicon Valley si è fatto ideologico ed è stato recentemente riassunto dal fondatore di OpenAI, Sam Altman: “Vogliamo assicurarci che l’intelligenza artificiale democratica vinca su quella autoritaria”. Una narrazione in cui vengono sottolineati i rischi legati all’adozione di una tecnologia che potrebbe disseminare propaganda pro-Cina, censurare contenuti critici nei confronti del Partito comunista cinese, essere impiegata a fini di spionaggio, facilitare la diffusione della sorveglianza di massa nei confronti della popolazione e altro ancora.
Timori assolutamente realistici, ma che nell’epoca delle pulsioni autoritarie di Donald Trump – e in una fase in cui Grok, l’intelligenza artificiale sviluppata da xAI di Elon Musk, si lascia andare a deliri neonazisti e a propaganda complottista – è fin troppo facile rivolgere anche agli Stati Uniti. Di tutte le ragioni per cui la sfida tecnologica tra Cina e Stati Uniti è di fondamentale importanza, la cornice narrativa “libertà vs dittatura” diventa ogni giorno che passa meno credibile.